Attraversare la Grande Acqua

Lo spread della Cina fra le isole del Pacifico

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Tempo fa mi trovavo a Kunming, nella provincia Occidentale dello Yunnan. Facevo parte di una delegazione di antropologi dell’Oceania convenuti per discutere della recente, rapida, ed efficace penetrazione della Cina nelle isole del Pacifico. Quale futuro per questa remota eppur tanto centrale area del globo? Ricordo il discorso con cui era stata aperta la conferenza. Un anziano ma vigoroso professore ripercorreva il tramonto della supremazia economica e culturale degli Stati Uniti e il progressivo spostamento del centro di gravità verso Oriente. Su di una mappa proiettata nell’Aula Magna, ci mostrava i nuovi snodi della geopolitica mondiale, le nuove Vie della Seta. E mentre ci rendeva edotti sull’intrecciarsi dei cambiamenti, manteneva invece costante la certezza di una massima rimasta invariata nella storia del mondo: chi controlla le onde controlla la terra. Per questo, nella strategia per conquistarsi il podio delle Superpotenze, la Repubblica Popolare Cinese ha preso la via del “Grande Oceano” (太平洋, tài-píng-yàng). Perché, come spesso recita la sentenza dell’I Ching: “Propizio è attraversare la grande acqua”.

Eppure, le conseguenze di questa strategia sono tutt’altro che certe. Tornando in albergo, ci pensavo. La Cina non è mai stata un impero dei mari; al contrario ha sempre concepito se stessa come zhōng-guó (中国), il Regno di Mezzo, un regno cioè la cui forza è fondamentalmente centripeta. Per poter cambiare questa sua “natura” è necessaria una trasformazione antropologica profondissima, che affonda le radici nell’essenza stessa della cultura cinese; una trasformazione senza precedenti. Chi volesse cercarne, di precedenti, dovrebbe risalire fino all’ultima spedizione di Zheng He, negli anni 30 del XV secolo. Il mio amico Huang, studioso di storia marina della Cina, non smette di ricordarmelo, che ci sono eccezioni. Ma in generale, se si prendono queste eccezioni per quello che sono, si vede come lo sguardo del cinese è sempre stato rivolto verso l’interno. Si è detto che il principale responsabile di questa introversione vada ricercato nella filosofia di Confucio, ma io non credo sia necessario scomodare un pilastro così fondamentale del pensiero cinese per dimostrare il prevalente disinteresse verso ciò che si cela al di là del mare. Basta la storia. In quella millenaria del territorio che oggi va sotto il nome di Cina, gli esempi di rotte marittime sono pochi e per lo più limitati alle acque immediatamente adiacenti alle regioni del sud, come quelle battute dalla Dinastia dei Song (1127-1279).

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Negli ultimi anni la nuova classe politica cinese ha tentato di dare enfasi a questi e altri esempi, altrimenti limitati nel tempo e nello spazio, per ricoprire la Belt and Road Initiative e altre simili iniziative di un’aura di classicità; come se si avvicinasse il compimento di una profezia. Ma non basta raccontare la storia di un popolo da sempre votato a solcare i mari, per renderlo reale. Di certo non è sufficiente a scalfire la coscienza, questa sì ben radicata, di essere il Regno di Mezzo. Questa concezione non smette di caratterizzare l’immaginario dei cinesi, e quindi il ruolo che la Repubblica Popolare avrà nel mondo di domani. Un regno prospero e potente, questo ormai lo sappiamo, ma anche un popolo che non impone la propria supremazia attraverso l’invasione e l’oppresione, cosa che molti ancora temono. Piuttosto, la Cina continua a creare vie di comunicazione, disseminate di infra-strutture, per permettere ai popoli che la circondano di rivolgersi a essa e riconoscerla. Questa è l’essenza di un impero che vuole essere al centro.

Su questo continuavo a meditare, masticando, avvolto da un vociare di accademici. Eravamo riuniti attorno a un vasto tavolo imbandito di piatti tipici, in un ristorante dove eravamo stati accolti con grande cura. Sempre, fin dal nostro arrivo, che fosse in albergo, in università, o appunto al ristorante, era stato organizzato un comitato di benvenuto. Ci stavano trattando benissimo e la cosa non era passata inosservata. Con le facce arrossate dal caldo delle portate e dal piccante, gli occidentali si guardavano di sottecchi, sorridendo tongue-in-cheek. Mi sembrava ci stessimo dicendo: “Stanno solo cercando di comprarci, ma non ci riusciranno.” Invece, mi sembrava che stesse davvero funzionando. Per quanto fossimo consapevoli che “There is no such thing as a free lunch”, tutta quella cortesia, quella generosità, quel servirci da piatti in comune e versarci reciprocamente da bere, stava facendo qualcosa alle nostre coscienze.

La faccenda del debito è uno degli argomenti più aspramente discussi all’interno del dibattito sugli investimenti cinesi all’estero. Sono stati citati molti casi in varie parti del mondo, ivi incluse le isole del Pacifico. Infrastrutture come, ad esempio, il molo di Luganville costruito dai cinesi a Vanuatu, sono state descritte non come genuine forme di assistenza verso popolazioni svantaggiate, ma come una sorta di patto faustiano, dove l’anima che si vende sarebbe la sovranità del paese assistito: se non sarà in grado di ripagare il debito, sarà invitato a rinunciare al controllo di aree sempre crescenti del proprio territorio. In altre parole, dono dopo dono, debito dopo debito, se li starebbero davvero comprando.

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E tuttavia, se a una narrativa come questa si contrappone uno studio dettagliato dei casi specifici, risulta che un tale meccanismo è per lo più assente. Già desta sospetti il fatto che, quando la “trappola del debito” cinese viene discussa in termini generici, sempre le stesse prove vengono fornite a dimostrazione della sua esistenza: il caso del porto di Hambantota in Sri Lanka. Cercando di lasciare la politica, per quanto possibile, al di fuori dal dibattito scientifico, un numero crescente di studiosi sta mettendo in dubbio che la trappola del debito esista. Per esempio, ripensando a quella mappa proiettata nell’Aula Magna, non sono più di 6 i paesi del Pacifico che il Fondo Monetario Internazionale ha classificato come suscettibili di insolvenza. E comunque, citarli come esempio non dimostra il meccanismo della trappola, poiché quel loro debito è multilaterale e non detenuto esclusivamente dalla Cina. Infine, è stato osservato che in caso di rinegoziazione del debito, i diplomatici cinesi hanno accettato condizioni generalmente favorevoli per i paesi indebitati. In breve, la faccenda del debito sembra più una strumentalizzazione politica che un fenomeno osservabile.

Durante quei giorni a Kunming, ipotizzai quindi che quello che la presenza della Cina nel Pacifico non andava spiegata in termini puramente economici. I cinesi hanno stretto relazioni sempre più strette con Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Vanuatu, e altri nazioni oceaniche grazie all’uso ben calibrato di una diplomazia fondata sull’amicizia, e non, come molti sostengono, in particolare a Washington e a Canberra, sulla checkbook diplomacy. Non si tratta di quanti soldi hai, anche perché quelli, volendo, li avrebbero anche Stati Uniti, Australia, e altri. Si tratta anche e soprattutto del modo in cui ti poni. Questa è forse la “mitezza” a cui fa riferimento la sentenza. I paesi che nel Pacifico sono entrati senza essere stati invitati, dopo quasi cinquant’anni di storia post-coloniale, ne stanno ancora pagando le conseguenze, in termini di reputazione. Per questo vengono ignorati quando protestano perché, invece, i cinesi vengono invitati a visitare le isole, a conoscerne gli usi e costumi, a stringere legami. Nei loro modi io scorgo ciò che è scritto nella sentenza, quando parla della “celebrazione in comune”, del “condurre i cuori alla coscienza dell’origine comune di tutti gli esseri”, e dalla “cooperazione a grandi imprese”. Fintanto che continueremo a guardare alla diplomazia cinese attraverso le lenti della nostra cultura, non capiremo mai quanta importanza abbiano questi valori per gli altri popoli.

di Rodolfo Maggio

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