La violenta espansione delle orde mongole
Temüjin Genghiz Khān fondò il più vasto impero terrestre della storia e rese i mongoli padroni di un territorio grande il doppio dell’Impero romano al suo massimo splendore. L’anno del suo apogeo fu il 1279, quando nei suoi 24milioni di chilometri quadrati comprese un quarto della popolazione mondiale. Eppure ne abbiamo tutt’ora una conoscenza assai lacunosa, soprattutto per quanto riguarda la sua stessa ascesa: non sappiamo esattamente dove e quando sia nato, quali tra i fatti che le cronache postume attribuiscono alla sua giovinezza sia vero o falso, né come sia morto e dove sia stato sepolto. Non sappiamo nemmeno l’anno preciso in cui fu eletto Cinggis Khān dai suoi alleati. Stando alla tradizione mongola e cinese, Temüjin sarebbe nato presso il Deluun Boldog, nel 1162.
Che genere di società era quella dei mongoli dell’epoca? Innanzitutto era estremamente divisa, con forze disperse divise tra vari sottogruppi etnici, a loro volta divisi in varie ulus, ovverosia tribù e clan familiari che si combattevano a vicenda anche per una manciata di cavalli. I gruppi potevano unirsi in alleanze e federazioni dalla durata assai varia, ma bastava un unico torto a farle collassare, così come bastava il dono di un’unica pelliccia di zibellino nero a guadagnarsi l’appoggio militare di un capotribù. Gli interessi fluttuavano e le forze si discioglievano nel conflitto interno. Era una civiltà poligamica in cui le donne venivano contese come bottino di guerra, ma al contempo cavalcavano, combattevano e assurgevano a ruoli importanti in seno ai clan, sposandosi più volte e potendo contare sul fatto che l’adozione dei bambini fosse praticata diffusamente e con disinvoltura. A unire le tribù era la condivisione di un substrato culturale e linguistico che però non mancava di presentare a sua volta delle variabili significative. Se lo sciamanesimo dei mucchi di sassi e delle sciarpe khadag era riconosciuto presso tutte le località della Mongolia, al tengrismo si giustapponeva il cristianesimo e lo stesso padre di Temüjin era nestoriano. Quest’ultimo, Yesügei Baator fu un condottiero del clan Borjigin e khān della confederazione tribale Khamag. Sottomise l’etnia tartara e portò avanti lo scontro atavico con quella merkit, alla quale rapì Hö’elün, sposa dell’influente guerriero Chiledu, facendone la propria prima moglie e la madre del successore designato, al quale dette il nome di un condottiero tartaro che pare avesse ucciso proprio il giorno del parto. Nove anni dopo, mentre Temüjin si fidanzava con Börte Üjin per consolidare l’alleanza con la tribù Ongirrat, i tartari si vendicarono avvelenando Yesügei. Il capo del clan rivale Tayichiud ottenne allora la guida dei Khamag, esiliando le mogli e i figli più in vista del defunto leader.
Temüjin divenne un nullatenente che viveva di caccia, pesca e raccolta, tuttavia sapeva già maneggiare bene il micidiale arco composito mongolo e si dimostrò subito un ragazzino carismatico, intelligente e tenace, ma anche spietato. Uccise il fratellastro Bekter per un’allodola rubata e fu l’anda del nobile Jamukha, il quale lo aiutò a recuperare la propria sposa rapita dai merkit. Ma nel 1201 questi divenne il Gur Khān delle tribù tartare, dei clan Jadaran, Naiman, Tayichiud e degli stessi merkit, trasformandosi nel principale rivale di Temüjin sulla via del potere. Questa via egli la percorse molto rapidamente, facendosi adottare dal capotribù dei potenti Kereiti, alleati della dinastia Jīn. Intorno al 1200, anche Temüjin ottenne da un kurultaj di simpatizzanti un titolo speciale: quello di Cinggis Khan, dal quale derivò il nome con cui sarebbe stato meglio conosciuto. I due “fratelli di sangue” si combatterono per cinque anni, ma condivisero sempre l’ideale di una Mongolia unita, capace di creare un’orda così vasta da conquistare il mondo intero. All’apice del loro conflitto, questa prospettiva continuò a unirli. Quando la sua coalizione iniziò a vacillare, alcuni soldati di Jamukha lo tradirono e lo trascinarono al cospetto di Temüjin. Fu un momento commovente e tragico per l’intero Paese e un confronto tra personalità titaniche. Il vincitore fece decapitare gli uomini che gli aveva consegnato Jamukha in quanto traditori e questi gli chiese di essere giustiziato a sua volta, ma soltanto dopo averlo pubblicamente riconosciuto come vincitore e designato come proprio successore, così da morire consapevole del fatto che il suo sogno sarebbe stato realizzato dall’amico di un tempo. Temüjin fece come lui chiedeva e, dopo averlo giustiziato, lo inumò con tutti gli onori, facendone una sorta di spirito guardiano della propria dinastia. Nel 1206, presso il Lago Blu, la folla lo acclamò come sovrano assoluto della Mongolia ed emissario del dio Tengri.
Temüjin fu un genocida e un feroce predatore sessuale. Causò la morte di circa tre milioni di persone, eliminando per esempio tutti i maschi di intere popolazioni, compresi anziani e bambini. Lasciava in vita le donne per violentarle, torturarle o schiavizzarle. Quando asserragliava località fortificate, ne colmava i fossati di prigionieri ancora vivi, oltre a utilizzarli come scudi umani. Cancellò intere città dalla faccia della terra, seppellendo millenni di cultura con la distruzione sistematica di ogni manoscritto o monumento. La persiana Merv era una delle più popolose, ricche e raffinate città del mondo, quando lui la fece scomparire, nonostante i suoi quindici chilometri di mura, spesse cinque metri e alte nove. Quel che non otteneva col terrore, lo otteneva con i trabucchi. Lo storico persiano ʿAṭā Malik Juwaynī (1226–1283) scrisse di quel giorno: «I mongoli ordinarono di uccidere l’intera popolazione, donne e bambini compresi, e di non risparmiare nessuno, né uomo, né donna, ad eccezione di quattrocento artigiani, espressamente scelti tra gli uomini, e di alcuni giovani, ragazzi e ragazze, che condussero seco in cattività. Allora gli abitanti di Merv vennero ripartiti tra i soldati e gli uomini delle leve e, in breve, a ognuno di questi toccò l’esecuzione di tre o quattrocento persone. […] Al calar della notte, ne erano stati uccisi tanti che le montagne, al confronto, erano diventate collinette e la pianura era intrisa del sangue dei potenti».
Quella di Temüjin fu però una rivoluzione in seno alla civiltà mongola. Egli soppiantò l’antica lealtà tribale con un’innovativa lealtà personale verso il sovrano: ogni ulus restava indipendente, ma il loro complesso costituiva l’ulus della famiglia reale e questa stessa parola, un tempo emblema del particolarismo, gradatamente passò a significare una ben diversa dimensione comunitaria: una città, un regno e infine un impero. La spregiudicatezza del nuovo sovrano lo portò ad attingere truppe dagli strati sociali che tradizionalmente erano esclusi dalle attività belliche, come i pastori. I più alti gradi della sua organizzazione erano attingibili da uomini di umili origini, tanto che il suo stesso braccio destro, Subedei, era il figlio di un fabbro. Anche i kurultaj furono presto soppiantati con forme di elezione dal carattere plebiscitario. Organizzò una burocrazia di intendenti e corrieri che consentiva una forte centralizzazione. Analfabeta, promosse l’uso della scrittura nella pubblica amministrazione, imponendone l’insegnamento ai nobili. Secondo Marco Polo, aveva vietato il baratto e avocato a sé il possesso dei metalli preziosi, soppiantandoli con una moneta a corso forzoso. Nel 1226, ultrasessantenne, effettuò una guerra lampo contro i tangut, cioè la dinastia Xia Occidentale, sfruttando anche catapulte equipaggiate con bombe incendiarie. Una ricca e orgogliosa potenza regionale cinese fu assoggettata in poco più di un anno. Morì al termine della campagna, nel 1227, dopo avere ordinato di sterminare per intero l’etnia dei tangut. La distruzione fu più sistematica che mai. Le loro magnifiche piramidi e le loro biblioteche scomparirono e l’eccidio fu incalcolabile. Fu sepolto in una località segreta, insieme a numerosi schiavi uccisi per celebrarlo. Nonostante ciò, la prima conseguenza delle sue atroci gesta fu la nascita di un nuovo retaggio asiatico, basato sulla capillarità di un temuto potere centrale. Ogni ribellione veniva repressa nel sangue e ogni suddito pagava ingenti tasse, ma la Via della Seta riaprì sotto la protezione imperiale che ne gestiva ogni ramificazione. La sorveglianza, le leggi e gli investimenti statali realizzarono una sostanziale pax mongolica. Molte città erano state distrutte, ma altre nacquero. Il prezzo delle merci calò e il loro trasporto divenne più sicuro. Fino al termine della reggenza di Kublai Khān, nel 1294, le conquiste non si arrestarono nemmeno a fronte dei crescenti dissidi interni e alla sete di potere dei suoi vassalli. Tuttavia, già sotto il suo governo, l’Impero fu diviso in quattro khānati, la cui dipendenza politica era più formale che concreta. Così ricominciò la divisione, si riaffacciò la dispersione delle forze, la stessa che vide protagonisti i diadochi di Alessandro o i discendenti di Carlo. Già nel 1368, con la morte di Ukhaantu Khān e la fine della dinastia Yuan, l’Impero mongolo scomparve come entità politica, ma anche in questo caso, ciò non altera la profondità del cambiamento culturale intervenuto, né il ricordo indelebile impressoci da un’epoca così grandiosa e terribile.