La fantascienza nell’antichità

fantascienza

La nascita del genere fantascientifico viene usualmente collocata sul finire dell’Ottocento, quando autori geniali come Jules Gabriel Verne, Nicolas Camille Flammarion, Samuel Butler e Herbert George Wells hanno iniziato a scrivere i cosiddetti scientific romance. Le tecnologie, le indagini e le teorie scientifiche si mescolavano in essi con l’esigenza di narrare interessanti avventure, ma anche con quella di offrire spunti per riflessioni morali e critiche verso la società coeva. La fascinazione per il futuribile nacque dalla visione positivista del progresso che questi uomini trassero dagli entusiasmi accesi dalla rivoluzione industriale e dal rapido susseguirsi di invenzioni capaci di alterare radicalmente ogni aspetto della vita pubblica e privata.

Furono le riviste statunitensi a elevare la fantascienza a fenomeno letterario di massa. Se già Weird Tales aveva aperto la strada ad autori fantasy e horror che guardavano con molto interesse alle scoperte scientifiche, come Howard Phillips Lovecraft, la nascita di Amazing Stories nel 1926, fondata da Hugo Gernsback, ampliò l’alveo del genere, convogliandovi opere che introducevano idee e concetti capaci di modificare sensibilmente i parametri dell’immaginario collettivo. Quando, nel 1937, John Wood Campbell assunse la direzione di Astounding Stories, l’interesse del pubblico divenne talmente alto da muovere rapidamente verso l’epoca d’oro della fantascienza, che si condensò lungo gli anni Quaranta. Naturalmente tutto ciò fu rafforzato dal parallelo sviluppo cinematografico che si fece forte di sempre migliori effetti speciali per veicolare narrazioni visionarie, soprattutto grazie a pionieri dell’effetto speciale come Georges Méliès, autore degli iconici Le Voyage dans la Lune (1902) e Voyage à travers l’impossible (1904), nonché ai capolavori del cinema sperimentale tedesco, come Metropolis (1927) di Fritz Lang, e di quello russo, come Aėlita (1924) di Jakov Aleksandrovič Protazanov.

A tutto ciò andò intrecciandosi il susseguirsi delle scoperte scientifiche e delle speculazioni che queste suscitavano in seno alla comunità scientifica stessa. Nel 1877, a Milano, l’astronomo Giovanni V. Schiaparelli realizzò una mappa di Marte comprensiva di fiumi, dovuti a illusioni ottiche, la cui descrizione suscitò un grosso malinteso presso i traduttori che non compresero la differenza tra l’italiano “canale” e l’inglese “canal”, termine che designa precipuamente un canale irriguo artificiale. Percival Lowell prese per buona questa concezione e, nel 1894, condusse una serie di osservazioni che lo portarono a scrivere vari libri in cui si dava praticamente per assodata la presenza di vita senziente su Marte. Nell’immaginario collettivo, si diffuse l’idea di un mondo antico, contrapposto a una Terra di mezza età e a una Venere primordiale. Scrittori come Edgar Rice Burroughs e Gustavus W. Pope si allacciarono a queste idee per produrre da un lato un territorio inaridito le cui antiche, avanzate civiltà avrebbero tentato di sopravvivere alla desertificazione con ampie infrastrutture e dall’altro un coacervo di giungle tropicali e oceani popolato da mostri preistorici e popoli primitivi. Anche se già nel 1909 il succitato Nicolas Camille Flammarion, grazie a un telescopio migliore di quelli in uso ai colleghi, dimostrò l’inesistenza dei canali marziani, la speculazione sulla presenza di un’idrosfera e una biosfera paragonabili a quelle terrestri proseguì fino al 1965, quando le informazioni della sonda Mariner 4 fornirono alla NASA un’inoppugnabile smentita.

In questa genesi di un genere narrativo che ormai costituisce un cardine della letteratura occidentale, appare però evidente il fatto che qualcosa non torni. L’interesse per la fantascienza è soltanto una costola dal fascino per tutto ciò che è radicalmente nuovo. In ogni angolo del mondo, le invenzioni meravigliose e le realtà forestiere hanno sempre acceso l’interesse delle masse, così come quello delle classi dirigenti. La fantasia degli antichi greci collocava ai margini dell’ecumene, tipicamente in India[1], una quantità sconfinata di entità e costruzioni sociali immaginarie che costituivano una sovversione radicale di tutto ciò che potesse allora essere comunemente considerato normale. L’uditorio di chi millantava viaggi ai margini del mondo, oppure si limitava a esagerare le proprie reali esperienze, si beava di queste narrazioni tanto quanto si sorprendeva per i giocattoli animati di Archita (428/360 a.C.), il planetario meccanico di Antikythera (250/100 a.C.), per i congegni bellici progettati da Archimede di Siracusa (287/212 a.C.), per le macchine idrauliche di Ctesibio (III secolo a.C.) e per l’eliopila inventata da Erone di Alessandria (fra I e III secolo d.C.). Per ottenere il rispetto e l’ammirazione di Carlo Magno, il califfo abbàside Hārūn al-Rashīd gli offrì in dono sia animali esotici, come l’elefante albino Abū l-ʿAbbās, sia un orologio automatico con figure mobili e suonerie che all’epoca nessun artigiano europeo sarebbe stato in grado di fabbricare. L’arte di creare simili congegni ebbe uno sviluppo importante nel mondo islamico proprio sotto questa dinastia che aprì importanti centri di studio a Baghdad, soprattutto la Bayt al-Ḥikma, e abbellì i propri palazzi con oggetti quali alberi d’oro e argento pieni di meccanismi nascosti che ne facevano oscillare i rami sovrastati da uccelli canterini automatici. Figure apicali di questa poderosa conoscenza meccanica furono i fratelli Banū Mūsā, con il loro flautista meccanico programmabile, e l’inventore al-Jazarī (1136-1206) che costruì una barca con quattro automi musicisti per equipaggio.

fantascienza libreria della sapienza

L’orologeria è stata fondamentale nel medioevo per stimolare la riflessione cosmologica, anche perché molti pensatori antichi hanno spesso ricondotto a congegni teatrali l’organizzazione logica del creato attribuita a un calcolo divino, ivi compresi i mistici apocalittici inseriti in quel ramo della speculazione cabalistica noto come ma’aseh Merkavah[2] il cui obiettivo è l’esperienza diretta della presenza di Dio. Il Sefer hêkalôt (V o VI secolo d.C.) fa molta luce sulla figura del patriarca Henoch e si configura come il resoconto del tannaita Rabbi Išmael Ben Eliša, lo stesso a cui è imputata la creazione del primo golem. La distinzione tra visibile e invisibile è qui più fisica che mai. L’invisibile è un luogo celato dalla volta celeste, la quale è una spessa cupola che copre il mondo inferiore e fa da sipario a un incredibile retroscena. È come il quadrante di un orologio i cui meccanismi si trovano in un’altra dimensione, dotata di leggi fisiche diverse dalle nostre. Per gli autori delle hêkalôt, quando Ezechiele disse di aver visto il cielo aprirsi non parlava per metafora: il cielo è descritto come un artificio colmo di aperture a scatto che fanno passare il Sole, la Luna e gli agenti atmosferici. Il mondo superno contiene i depositi dell’acqua e del fuoco celesti, connessi a quelli dei loro derivati, che compongono ogni sistema climatico e psicologico. Ci sono anche i depositi di tempo spazializzato e di anime mortali, poiché tutto è frutto di accurata programmazione. Il Sole e la Luna viaggiano tra questi depositi, nel cielo e sottoterra, lungo un fiume infernale, tramite i vari meccanismi di apertura. L’aspetto meccanico è sottolineato dall’abbondanza di ruote e rotelle che girano insieme in questo spazio e dalla centralità di una Merkavah che talvolta ricorda uno dei vimāna, i mitici veicoli degli dèi hindū, così come furono descritti nel Vaimānika Śāstra ai primi del Novecento[3]. Molti oggetti appaiono più tecnologici che magici e realizzati in una lega lucente simile all’elettro, il chashmàl. Lo stesso golem è un oggetto degno di nota, dato che nasce dalla comprensione umana dei principi divini e dal loro sfruttamento, a differenza degli automi creati direttamente dagli dèi in vari miti greci e cretesi, come quello del bronzeo Τάλως forgiato da Efesto. Nella cronistoria cinese Liè Zĭ[4]si parla analogamente dell’artefice Yan Shi che avrebbe mostrato all’Imperatore Zhou Mu (976-922 a.C.) un complesso automa parlante che si muoveva fluidamente e poteva essere facilmente scambiato per un vero essere umano. Sempre in Cina è impressionante la figura del filosofo Lu Ban (507-440 a.C.) che teorizzò la possibilità di creare alianti e che avrebbe realmente costruito piccoli uccelli lignei in grado di volare.

L’orizzonte mitico e religioso ha sempre offerto disparate immagini di viaggi in ambienti del tutto alieni rispetto a quelli ritenuti normali dall’uditorio. Anche senza scomodare l’aldilà o i regni extramondani di qualsivoglia divinità, i grandi viaggiatori dei miti più antichi, come Gilgameš, Rāma o Ulisse, raggiungono con una peregrinazione puramente mondana ambienti che non sembrano appartenere affatto al mondo umano comunemente inteso. In una favola indiana del Panchatantra[5], un umile carpentiere crea una versione meccanica di Garuḍa, il vāhana (cavalcatura) di Viṣṇu, così da potersi spacciare per il dio e amoreggiare impunemente con la figlia del proprio sovrano. L’autore nutre così tanta simpatia per il personaggio che, quando a costui viene chiesto dal padre raggirato di salvare il proprio regno contro un esercito avversario, il vero Viṣṇu interviene sul campo di battaglia a sconfiggere i soldati nemici per evitare che il mistificatore lo faccia sfigurare dinnanzi ai propri fedeli. La differenza tra il suo destino e quello di Icaro è dovuta alla concezione indiana della tracotanza e dell’empietà che non coincidono affatto con la ὕβϱις greca. Del resto, anche in quel caso, Icaro osa volare troppo in alto, ma suo padre Dedalo vola secondo una giusta misura che lo metterà in salvo sia dal labirinto, sia dall’ira degli dèi. In nessun caso è il volo in sé a essere punito e in entrambi i casi il volo è reso possibile da un ingegno brillante che si serve di strumenti artigianali. Spesso i miti e le fiabe più antiche non tracciano nette distinzioni tra la magia e la tecnica, né sembrano concepire una differenza spiccata tra la tecnologia e l’arte. Se la bellezza artificiale creata da Pigmalione necessita comunque di un intervento divino per trasformarsi in Galatea[6], la musica di Orfeo è già di per sé abbastanza potente da sovvertire le leggi dell’universo, così come lo sono nella mitologia nordica l’anello del Nibelungo e le armi forgiate dai nani grazie alle loro conoscenze ancestrali, tra le quali spicca lo stesso Mjöllnir impugnato da Thor. Analogamente i draghi del classico cinese Xīyóu Jì, scritto forse dall’erudito Wú Chéng’ēn nel 1590, ma comunque basato su ben più vetuste narrazioni, abitano palazzi subacquei colmi di meraviglie, tra le quali Sūn Wùkōng[7] trova il suo iconico bastone allungabile. Sono strumenti straordinari, frutto della conoscenza di popoli meno giovani degli umani che vivono in luoghi segreti, spesso legati a isole proibite come Avalon o Hy-Brasil, o comunque al mare, ai cocuzzoli di alte montagne, a foreste intricate, ai deserti, al sottosuolo o ad altri ambienti normalmente inaccessibili. Spesso i racconti delle origini di un popolo coinvolgono sia mitici luoghi, sia mitici dispensatori di conoscenza che non sono dèi, ma creature appartenenti a razze misteriose, come gli anfibi umanoidi[8] del mare eritreo Oannes[9] e Omorōka[10] che troviamo nei frammenti rimastici della Storia di Babilonia scritta da Berosso, un sacerdote di Marduk vissuto tra IV e III secolo a.C. Ogni etnia ha poi le proprie antiche terre immaginarie, più o meno spiritualizzate, che vanno dal principio filosofico cinese del dàtóng[11] descritto nel Liji, al regno sotterraneo tibetano di Śambhala fino alla mitica patria ancestrale dei popoli nahua, Chicōmōztōc.

Fantascienza Gilgamesh

L’idea che il mondo contenga possibilità di vita molto diverse dalla propria e che le realizzazioni dell’ingegno mortale possano aprire a nuove prospettive era già presente nella concezione arcaica e precede di molto la nascita del pensiero scientifico. Perché vi sia una sorta di fantascienza, non è dunque necessario che vi siano dapprima un vero pensiero e metodo scientifico, ma è sufficiente che ne esista una mera premessa. I primi prodotti della cultura umana che possono in qualche misura avere a che fare con il metodo scientifico sono rappresentati dall’orizzonte della scoperta e con lo sviluppo di tecniche atti a cumulare, aumentare e trasmettere la conoscenza in modo massivo. Quindi i germogli di questo genere letterario possono essere rinvenuti nella letteratura legata ai viaggi e all’apprendimento di conoscenze. Quando poi questi tipi di narrazione si intrecciano con il raffinarsi della retorica, essa rende possibile farne gli strumenti di proposte e critiche sociali, vocazione che, come ho scritto nell’incipit, è fondamentale nel discorso fantascientifico. Basti pensare ai grandi romanzi utopici e distopici del Novecento, tipici soprattutto del mondo russo sovietico, come La stella rossa di Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov e Noi (1921[12]) di Evgenij Ivanovič Zamjatin, e di quello anglosassone, come Brave New World (1932) di Aldous Leonard Huxley e 1984 (1949) di George Orwell, due orizzonti culturali che si incontrano idealmente in Anthem (1938), opera della statunitense di origini russe Ayn Rand O’Connor[13]. Un utilizzo analogo del viaggio immaginario o della descrizione di luoghi inesistenti fu utilizzata moltissimo nella narrativa e nella speculazione filosofica antica. Platone se ne servì due volte, la prima quando descrisse la καλλίπολις [kallipolis] della Repubblica e la seconda quando ricorse al mito mediterraneo di Atlantide nel Timeo e nel Crizia per spiegare come una realtà utopica possa diventare invece distopica quando, presso i suoi abitanti, il vizio finisca col soppiantare la virtù. La Repubblica di Platone mi offre, tra l’altro, lo spunto per evidenziare una cosa che non bisognerebbe mai fare quando si parla di fantascienza nel mondo antico, specie se si aspira a conservarsi in un discorso dai toni accademici. Alcuni racconti antichi ci invogliano a essere letti con la lente dell’occhio contemporaneo, avvezza a suggestioni all’epoca ignote. Nello specifico, Platone ci racconta[14] una sua versione del mito di Gige, nel quale il bovaro futuro re della Lidia, mentre fa pascolare il suo armento, sente la terra tremare ed entra in un crepaccio apertosi nel suolo. Finisce così col trovarvi un grande cavallo bronzeo squarciato e in esso rinviene il cadavere di un gigante al quale egli cava un anello capace di renderlo invisibile ruotandone la gemma nel castone. Al lettore moderno costa quasi uno sforzo non figurarsi il terremoto come l’esito della caduta di un’astronave in avaria, il cavallo di bronzo, il cui defunto pilota, un umanoide di alta statura, avrebbe lasciato suo malgrado in eredità al primitivo umano che stava studiando un dispositivo di occultamento. L’idea volendo è simpatica, ma non è quella che Platone intendeva offrirci, visto che la sua storia parla sempre di come il vizio possa emergere in circostanze favorevoli. Casomai, una corretta reinterpretazione moderna e fantascientifica del suddetto mito platonico è quella offerta da H. G. Wells ne L’uomo invisibile del 1897.

Fantascienza storie vere

Il libro che più spesso è presentato dalla critica come una forma di fantascienza ante litteram è il romanzo del II secolo d.C. Storie vere[15] del filosofo e retore siriaco Luciano di Samosata. Il racconto si presenta come un’autobiografia e narra di un viaggio che l’autore avrebbe compiuto con alcuni amici dapprima oltre le colonne d’Ercole, finendo poi col vagabondare in mezzo sistema solare. Infatti, un tifone oceanico spedisce la sua nave sulla Luna dove gli ippogrifi lo conducono alla corte di Endimione[16]. Questi coinvolge lui e il suo equipaggio nella guerra che sta conducendo contro l’impero solare di Fetonte per la colonizzazione di Venere. Questa guerra spaziale viene combattuta da cavalcatori di pulci colossali e truppe che impugnano funghi-scudo e asparagi-lancia. I solari sconfiggono i seleniti, ma lasciano andare gli umani che possono dunque tornare sulla Terra, dove una balena gigante ne inghiotte la nave. All’interno del mostro c’è un intero ecosistema, con giganti che usano delle isole galleggianti come navi da guerra per combattersi. Quando finalmente i nostri riescono a uscire dalla bocca dell’animale, si ritrovano in un mare di latte che conduce alle Isole dei Beati, dove incontrano le anime di Socrate, Ulisse e altri virtuosi defunti. L’isola successiva è quella dove i grandi storici del passato, come Erodoto, vengono puniti per le bugie con cui avrebbero riempito i loro libri. Il gruppo vive varie altre simili avventure, prima di vedere sfasciata la propria nave da una burrasca che la fa schiantare su una spiaggia. Il finale rimane aperto. L’intento di Luciano, come si può intuire soprattutto nel quadro dell’ultima isola descritta, era simile a quello dello storico Teopompo di Chio, nelle cui Filippiche veniva presentata la saga della favolosa isola immaginaria di Meropide, la quale viene dipinta come l’avversaria di Iperborea con il preciso intento di deridere la filosofia politica di derivazione platonica. Il nostro, infatti, apre il prologo dichiarando che l’unica cosa vera della sua storia è che essa sia interamente falsa e cionondimeno la scrisse attenendosi formalmente alle regole dell’accuratezza storica da egli stesso esposte nel trattato Come si deve scrivere la storia, nel quale criticava la scarsa accuratezza degli storici coevi. Il bersaglio della sua parodia sono quindi questi soggetti, nonché il romanziere Antonio Diogene che con i 24 libri del suo, purtroppo perduto[17], Le incredibili meraviglie al di là di Thule aveva reso celebre il genere del viaggio fantastico negli anni precedenti la stesura di Storie vere. Questa narrazione non nasce certo con intenti fantascientifici, ma con la volontà di immaginare situazioni completamente assurde ammantate di un realismo almeno formale. Finisce così con l’offrire al lettore spiegazioni impossibili, ma non illogiche. Tutto viene descritto all’insegna della coerenza e di un surreale realismo, molto più di quanto avvenne nei Νόστοι[18] [nostoi] e negli altri poemi di viaggio, segnati dalla costante presenza del sovrannaturale.

Il materiale elaborato per i trattati filosofici e i romanzi ellenistici getterà semi destinati a germogliare a lungo. I luoghi visitati dal paladino Orlando, i paradisi sociali descritti da Thomas More nel Cinquecento, oppure da Tommaso Campanella e Sir Francis Bacon nel Seicento sono l’esito di rielaborazioni originali di leggende antiche, finalizzate a offrire insegnamenti utili per gli uomini del proprio tempo. La fantascienza può intendersi allora come una tendenza letteraria tipica dell’umanità che emerge ogniqualvolta una popolazione dedichi risorse cospicue all’indagine metodica della realtà. Si tratta soprattutto di un gioco che può essere erudito o che perlomeno ha bisogno di una temperie culturale abbastanza pregna di erudizione per funzionare bene. Incidentalmente, può anche essere utile per offrire scorci sul possibile e approfondirli in modo tutt’altro che ovvio.

Note

[1] Dal canto loro, anche gli indiani ponevano nel mondo greco un mucchio di assurdità e mirabilia, specialmente di ordine meccanico, cfr. Like Sex with Gods: An Unorthodox History of Flying, Bayla Singer, Texas A&M University Press, 2003, p.46.

[2] Tr. It. Opera del Carro, laddove il carro in questione è il trono semovente di Dio, altrove rappresentato come un palazzo-santuario celeste, da cui il nome hêkalôt che designa una serie di apocalissi omologhe a quelle della stessa Merkavah.

[3] Non intendo sprecare il mio tempo e quello del lettore esaminando le sciocchezze che spesso vengono dette sulla datazione di questo testo che di antico possiede solamente i riferimenti religiosi e il puntuale uso del sanscrito.

[4] Tr. It. Il libro del vuoto perfetto, scritto nel III secolo a.C.

[5] È una raccolta di celebri racconti popolari indiani, la più celebre delle cui recensioni è quella di Purnabhadra del 1199 d.C., ma che nacque nella forma in essa cristallizzata probabilmente nel Kashmir, del 200 a.C.

[6] Il nome le è stato dato dai letterati del XVIII secolo, perché nel mito ne è sprovvista. Essi lo attinsero forse dalla notorietà che l’omonima ninfa nereide aveva tratto dagli antichi poeti bucolici siciliani che la inquadrarono nel mito di Aci, dalle Metamorfosi di Ovidio e dai trionfi rinascimentali, come quello realizzato da Raffaello Sanzio del 1512.

[7] Meglio noto in Occidente col nome giapponese di Son Gokū.

[8] Nella cultura assiro-babilonese questa razza è nota come apkallus e fa parte di quei molti maestri dell’umanità legati all’elemento acquatico che ricorrono in varie mitologie, come i succitati draghi marini cinesi, le nereidi greche, la Coventina celtica e taluni nāga indiani.

[9] Probabilmente è la stessa creatura venerata dai filistei con il nome di Odakon o Dagon e dai malesi dogon con quello di Nommo.

[10] Quest’ultima è forse un avatar di Tiamat, il cui nome greco Όμόρκα deriva dal sumero Ummu-Hubur e significa Madre dell’Abisso.

[11] Che per sua natura si dà solo nel momento in cui si reifica in una civiltà mondiale basata sulla pace e la fratellanza universale.

[12] Pubblicato però solo nel 1988.

[13] Nata Alisa Zinov’evna Rozenbaum.

[14] Cfr. Repubblica, II, 359D-360E.

[15] Non so proprio perché il titolo Ἀληθῆ διηγήματα [Alethe diegemata] sia stato tradotto quasi sempre al singolare come La storia vera, forse gli editori lo trovavano più accattivante o più conforme al contenuto che in effetti consta di un’unica narrazione coerente.

[16] I miti su questo personaggio sono piuttosto variegati e molto ancestrali, la maggior parte dei quali lo vede come oggetto d’amore da parte di varie divinità legate alla Luna, come Selene, Artemide e persino Hera, sebbene fosse lo sposo della ninfa nàiade Ifianassa.

[17] Ne abbiamo però l’epitome in seno alla rassegna bizantina Biblioteca, redatta dal patriarca Fozio I di Costantinopoli nell’anno 855.

[18] Poema epico del ciclo troiano, scritto da Eumelo di Corinto nel VII secolo a.C.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

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