Il modesto ricamo della speranza

Simone Weil e Delia, due donne a confronto

«O sai qual è er probblema tuo?»

«No»

«Er probblema tuo è che parli troppo!»


«Primum vivere, deinde philosophari» è un’espressione di Hobbes con cui si mettono in guardia i filosofi dal mancare di concretezza, ma anche, implicitamente, dal rischio di essere immodesti, arroganti. Come altrimenti definire chi pontifica senza conoscere nulla?

Per fortuna molti filosofi smentiscono l’immagine aristofanea del pensatore col capo tra le nuvole anzi, restituiscono un’immagine della filosofia non scollata dai problemi e, conseguentemente, modesta, non arrogante. Si prenda Simone Weil. Così coinvolta nelle questioni politiche da abbandonare l’insegnamento per far l’operaia in fabbrica, anche mettendo a repentaglio salute e reputazione. Per la Weil la filosofia era negotium vitae, aratura dell’esistere, pensiero imbrattato d’essere.

Se vuoi affrontare i problemi devi sporcarti le mani. Solo così avrai il diritto di affrontare Lev Trockij e rinfacciargli il dispotismo sovietico o, magari, spiegargli che il Comunismo lasciava intatto l’essenziale nello sfruttamento della classe operaia: il lavoro alienante e la subordinazione della persona alla produzione. Tanta sicumera al grande rivoluzionario sarà parsa arroganza. Parlare in virtù di esperienze vive, con cognizione di causa, è però invece parlare modestamente.

La modestia infatti non coincide con la moderazione, con la temperanza o con l’umiltà.

Simone Weil, com’è noto, era sarcasticamente definita “imperativo categorico in gonnella” tanto era estremista, ma restava modesta perché non arrogava nulla, non chiedeva per sé e per il mondo nulla più che non fosse alla portata di vissuti ed esperienze reali. Di’ quel che fai e fai quel che dici. Non che tale modestia le abbia portato felicità. Occuparsi attivamente di politica al fianco degli operai, da militante anarco-comunista, la indusse a un cupo pessimismo degno di Cioran. Un pessimismo giustificato dalla situazione collettiva degli anni Quaranta, ma imposto anche dalla modestia che chiede di non guardare solo a sé; come parlare perciò di speranza, senza suonar, falsi se il mondo è in guerra?

Pessimismo e modestia. Ultimamente è capitato di ritrovarli in C’è ancora domani e in particolare in Delia, la protagonista, una donna che, a differenza di Simone Weil, non ha proprio tempo per Platone. È ormai di mezza età, ha tre figli e, soprattutto, ha Ivano, un marito anaffettivo, autoritario e violento che sfoga su Delia le proprie frustrazioni e che la considera una schiava. Di fatto Delia schiava lo è dovendo, per campare, ricamare mutande e reggipetti, far da lavandaia, lavorare da un ombrellaio, arrotondare facendo iniezioni a domicilio, occuparsi della casa, del suocero Ottorino allettato, della spesa, della cena e tutto in una giornata.

Delia lavora come una matta anche per realizzare un sogno: comprare il vestito da sposa alla figlia appena fidanzata. Anche se tra Delia e la figlia Marcella ci sono molte tensioni. La ragazza è stufa di vedere la madre umiliata e non capisce perché non si ribelli e non fugga da una casa dove è trattata come straccio dei pavimenti.

«Perché non te ne vai?» le chiede Marcella quasi con disprezzo, «E ‘ndo vado?» risponde Delia.

Eppure Delia ha la possibilità di fuggire con un altro uomo, Nino, vecchio amore di gioventù. Lavoro da meccanico a Roma per Nino non ce n’è più e lui le propone di andare insieme a Torino. C’è una data precisa: il 2 giugno.

Così quel «E ‘ndo vado?», rivolto alla figlia, nel film assume un tono ambiguo.

Da un lato rivela tutto il pessimismo di Delia verso la possibilità di migliorare la propria condizione. C’è la paura di essere riacciuffata e magari uccisa, come le suggerisce l’unica sua amica, ma anche la consapevolezza che un altro uomo non sarebbe che passare dalla padella alla brace. Dall’altro lato, però, Delia non dice a Marcella che potrebbe andar via forse perché la sua unica occasione di fuga non sfumi.

Lungo tutto il film il personaggio di Delia in effetti parla poco e agisce molto. Fa i fatti, come si dice, a differenza di gran parte del mondo intorno a lei che, specie il mondo maschile, chiacchiera, si vanta, si attribuisce meriti che non ha, sparla degli altri e mistifica circa il proprio passato. Delia invece non si vanta, non dice quel che ha fatto o fa. Lo fa e basta. In questo senso il comportamento di Delia è molto in linea con una delle interpretazioni dell’esagramma 15 dell’I Ching, la Modestia: “Meritevole e modesto porta a termine le sue cose. Successo!”.

Tuttavia i silenzi di Delia e la sua modestia inducono lo spettatore a coltivare un dubbio: sono effetto di rassegnazione, come crede Marcella, oppure un espediente per celare il ricamo d’una trama di possibilità, la cucitura di una veste di speranza?

Il film si svolge infatti secondo due linee complementari. C’è la linea delle voci, delle parole, una linea prevalentemente maschile (ma non unicamente maschile) e c’è la linea prevalentemente femminile dei silenzi. Per capire il film bisogna ascoltare e osservare bene le scene silenziose commentate solo dalla musica e i silenzi di Delia che, poi, sono i silenzi di tutto un mondo femminile. Significativo il momento in cui Delia va a fare un’iniezione in casa di ricchi borghesi. Lì osserva il figlio e il padre litigare su questioni politiche. Quando la moglie, signora colta, vuol dire la sua, viene improvvisamente zittita. Alle donne non è concesso parlare apertamente di certe cose, specialmente se parlano gli uomini. Così le donne, tendenzialmente, parlano (o magari urlano) tra loro, oppure tacciono. Però fanno molto rumore i loro fatti. Delia, grazie alla compiacenza di un soldato afroamericano, fa esplodere il bar del futuro genero per impedire alla figlia di legarsi a un ragazzo ricco, possessivo e violento come Ivano. Nella scena Delia non dice una parola.

Il tema evidente di C’è ancora domani è quello della denuncia del patriarcato e della condizione femminile arretrata dell’Italia alla fine del Fascismo.

Senz’altro questa palese ambizione politica del film ne spiega il successo al botteghino. Tuttavia anche mettendo in conto che la maggior parte degli utenti che vanno al cinema sono composti da donne o che gli uomini sensibili al tema siano accorsi a vedere il film, e anche considerando che la storia ammicca alla contemporaneità e racconta il passato per rivelarci il presente, specie nel finale, tutto ciò non basta a giustificare l’enorme successo di pubblico che il film ha ricevuto.

La spiegazione del successo non sta tanto nel messaggio in sé del film, ma nel modo in cui lo esprime o, per meglio dire, in come lo dice, cioè attraverso il non detto. In un certo modo il senso del film non è quello della denuncia aperta, utile a rivendicazioni politiche, il messaggio è quello della modestia come strategia di vittoria, come strada operativa in funzione di cambiamenti profondi; il messaggio è Delia stessa, la sua figura di donna modesta che si fa, infine, protagonista. Delia è in fondo l’opposto di Mussolini: invece di dichiarazioni roboanti a cui, poi, non seguono fatti («vinceremo!»), azioni svolte in silenzio. Nel film, più che i due tipi di voci (maschili o femminili), contano i due tipi di silenzi. Quelli imposti alle donne dall’arroganza maschile e quelli autoimposti.

I silenzi come modestia che le donne scelgono o si comminano da sole per poter agire con efficacia, perseguendo una modestia che segue un percorso complementare a quello di Simone Weil: dal basso verso l’alto, dall’io al noi, dal pessimismo alla speranza. Così nella scena finale, commentata solo dalla canzone a bocca chiusa di Daniele Silvestri, il silenzio si trasforma: da accettazione passiva diventa espressione di coraggio, da gesto privato si fa azione collettiva e da umiliazione a simbolo dell’emancipazione che non è, però, solo femminile, ma di un intero paese che prova, con la strategia della modestia, a uscire dal Fascismo.

di Amedeo Liberti

Autore

  • Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.

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