LinkedIn ovvero la riproduzione del consenso capitalistico

LinkedIn riflette una visione idealizzata e asettica del mondo professionale

C’è un luogo nel web in cui le persone sono al centro dell’attenzione, in cui ognuno deve mostrare in primis il suo volto, in cui si dichiara cosa si fa di lavoro e cosa si ama fare di più. Se il fine di tutto ciò fosse il mero mostrarsi, mi riferirei a Tinder, o a un’altra delle diverse app di incontri, veri e propri templi di narcisismo e solitudine. Ma c’è un altro luogo in cui l’amore si fa con se stessi e, forse, in misura ancora maggiore con i propri capi o con quelli potenziali. LinkedIn, ovviamente.

Il social del lavoro raccoglie oggi un’orgia di più di un miliardo di iscritti, in grandissima parte under 35, in cui ognuno sgomita per trovare il proprio spazio, e si mette il trucco perfetto per entrare in scena. Perché il primo fine per cui uno si iscrive a LinkedIn è proprio quello di cercare lavoro. Tanto è difficile trovare oggi un impiego, tanto lo è costruire un profilo accattivante, con le giuste parole di presentazione e con la giusta immagine del profilo: sfondo neutro, volto in primo piano, no al bianco e nero o ad altre espressioni artistiche. Tu, asetticamente tu. Poi devi raccontare quello che fai, per quanto lo hai fatto, e quali competenze hai maturato sia nel lavoro, sia negli studi. Ma tutto ciò è davvero quel che sei?

In certi casi sì, può darsi che l’identificazione con il proprio lavoro sia la realizzazione di una vera e propria missione interiore. Il più delle volte quello che ti interessa veramente nella vita è relegato in fondo, alla voce “cause”, che non si capisce se sono quelle da intentare contro di te o se sono invece quelle che supporti personalmente. Tra queste si nota subito l’assenza di qualcosa che possa scatenare una polemica o uno scontro. Quel che c’è di più pruriginoso e antagonista è un piccolo borghese “diritti civili e azioni sociali”.

Non voglio illudermi, e penso che mai si avrà la voce “diritti dei lavoratori”. Tuttavia, sarebbe da capire come si possano sentire l’amministratore delegato di un’azienda estrattiva o uno di armamenti non trovando tra le cause da supportare le voci “genocidio” o “peggioramento delle condizioni climatiche globali”. Glielo chiederemo.

Fa riflettere che il social del lavoro, composto nella maggior parte da lavoratori, non sia il social dei lavoratori, in cui vengano espresse le loro rivendicazioni e le loro istanze. Al contrario, il tutto sembra avvolto da un velo di Maya fatto di celebrazione delle proprie azioni, e sopratutto di quelle della propria o dell’altrui azienda, con il fine di accrescere le relative reputazioni. Mai si trova detto in qualche post personale “In questa azienda si lavora proprio male, troppo e gli straordinari non sono neanche pagati”. Sembra proprio che se un extraterrestre aprisse LinkedIn penserebbe “Ma quanto è bello lavorare sulla Terra?”.

Inoltre, le imprese su questa piattaforma lavorano alacremente per accrescere il proprio employer- branding, quella pratica per cui si vorrebbe aumentare la desiderabilità di essere assunti da quella ditta. Facciamo alcuni esempi. Just Eat, che non è proprio riconosciuta come paladina della difesa dei diritti dei lavoratori, conta più di 200 mila followers. La nota petrol-chimica Shell, che vede nei social in generale, e ancora di più in questo, un ottimo veicolo di greenwashing, ha più di 7 milioni di seguaci. Senza parlare di entità esplosive come Lockheed Martin o Beretta (no, non parlo di quella dei salamini).

E le persone? Loro appresentano l’altra faccia della medaglia di LinkedIn: sembrano sempre entusiaste di qualsiasi cosa. Stando alle statistiche, più della metà di loro possiede una laurea. Non che questo in sé voglia dire qualcosa, ma ciò che l’istruzione universitaria dovrebbe insegnare più di tutto è lo spirito critico. La scienza, a cui ogni laurea fa riferimento, vive di spirito critico, vive di continuo porsi domande e dubbi sulla validità di una teoria o di una pratica. Il caro vecchio “sapere aude”, ossia “abbi il coraggio di avvalerti della tua propria intelligenza”, dovrebbe essere il pensiero cardine di chiunque esca da qualsiasi istituto universitario. E se questo non accade, si è di fronte al fallimento dell’università in quanto istituzione.

Nei post del social creato da Hoffman si può reagire in tanti modi diversi: “consiglia”, “festeggia”, “supporto”, “cuore”, “geniale”, “divertente”. Mai che si possa scegliere una reazione di tipo negativo, o quantomeno dubitativo. Vale per Instagram, dove è più o meno accettabile visto il carattere di svago-messaggistica-facciamoci-i-fatti-degli-altri di questa piattaforma (e dove vi sono altre problematiche, come lo sharenting dei minori). Forse non dovrebbe valere per LinkedIn, in cui si presuppone un impegno maggiore delle persone su temi importanti come il lavoro. Del resto, in un mondo in cui persino la terapia viene mercificata (violando, peraltro, la privacy dei fruitori), non ci si può aspettare niente di diverso.

L’assenza di ogni carattere polemico nei post delle persone riferiti alle aziende, se non limitato, forse, ai commenti (ma chi li legge?), si riflette in uno stato d’animo complessivo di “tutto va bene, madama la Marchesa”. Anche se sappiamo tutti quanto ciò non sia vero, e su diversi fronti, come il salario, le ore di lavoro, i soprusi e talvolta le violenze (psicologiche o fisiche) che interessano il mondo del lavoro. E se uno volesse esprimere liberamente quel che pensa, si ricordi delle parole che ho sentito da poco pronunciate da un manager: “Su LinkedIn voi siete collegati all’azienda, voi siete il volto dell’azienda sul social, quindi non potete dire quello che volete”. Sì, è vero, meglio replicare costantemente la narrazione di un mondo del lavoro felice e appagante.

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