Pablo Larrain cambia il proprio registro, ma in un certo senso solo parzialmente. Dopo la grottesca satira del potere di El Conde (con un Pinochet in guisa di vampiro) il regista cileno torna sul progetto di racconto di grandi personaggi femminili del Novecento e porta a termine, con un biopic su Maria Callas, il terzo capitolo di una trilogia che, in precedenza, ha avuto al centro la fragile Diana Spencer e, prima ancora, la rivale in amore della Callas: Jackie Kennedy.
Il film di Larrain mette in scena (ancora) la figura d’una donna di fama, un’icona di bellezza e di stile, in un momento drammatico della vita, di quelli in cui si emulsiona la schiuma delle fragilità e delle virtù di ciascuno. Momento significativo ed emblematico che si concentra nell’ultima settimana di vita della Callas (interpretata da una credibile Angelina Jolie che supera tutte le difficoltà nel restituirci una donna idealmente e culturalmente distante da lei). Maria ormai è solo una «casta diva», se così si può definire una cantante d’Opera che non pratica più le scene e che vive nella gabbia dorata del suo appartamento parigino, dove è amorevolmente curata dal maggiordomo Ferruccio, magistralmente interpretato dall’ubiquo del cinema italiano Pierfrancesco Favino (finalmente il bravissimo attore può dare il meglio di sé nel ruolo di un italiano in in un film internazionale e tra l’altro con un personaggio che incarna esemplarmente lo spirito italico attuale) e dalla governante Bruna (l’altrettanto brava e onnipresente Alba Rohrwacher).
Maria tenta di recuperare la propria voce per tornare a cantare. Ha appuntamento con un pianista presso un teatro in cui mette alla prova i propri progressi nel canto. Cosa che le costa un’enorme sofferenza, non tanto fisica, quanto psicologica. Per questo, Maria, anche contro il parere d’un medico, abusa di un medicinale, il Mandrax, che ha effetti devastanti sul suo senso della realtà. È vittima di allucinazioni e le visioni di cui è preda sono, nel film, l’occasione di ripercorrere una vita e di elaborare un’autobiografia. Maria parla, infatti, con un giovane regista immaginario che ha lo stesso nome del farmaco, Mandrax, che vorrebbe realizzare un film su di lei.
Maria non è comunque solo l’occasione per raccontare Maria Callas. Già mettendo in continuità Maria con i due film biografici precedenti, Jackie e Spencer (una first lady e una principessa) si può intuire che con Maria la questione del potere non sia stata del tutto accantonata. Larrain ritorna spesso sul tema del potere e dei suoi effetti e questo film non fa eccezione e, anzi, va posto in relazione con No. I giorni dell’arcobaleno (riflessione di Larrain sulla relazione fra potere e arte).
In Maria il tema più evidente è quello di un’artista che deve trovare, anzi ritrovare, una voce; espressione intesa sia in senso letterale, sia figurato. È un film sull’arte, sulla sua necessità. Maria vuole cantare e vuol farlo ai livelli che l’hanno resa celebre, ma vuol farlo per sé. Sente d’essere e di voler essere un’artista, non per dovere verso il pubblico (non sempre in grado di comprenderla) non per la fama o per il successo (cose che certamente ama) ma per sé. Maria cerca, dunque, di essere finalmente solo Maria, insomma, e non più la Callas («come devo chiamarla, la Callas o Maria?» chiede di continuo Mandrax prima d’ogni intervista). Il paradosso, però, è che per essere artista Maria deve ritrovare proprio la voce della Callas.
L’Opera è una forma d’arte performativa e la performance dipende sempre dallo stato esistenziale di una persona. Anzi si può dire che coincida con questo stato esistenziale. L’artista non è una macchina e la riproducibilità tecnica tradisce l’arte; la voce di una cantante è una voce ogni volta singolare che viene da una disposizione d’animo e di corpo. Significativa la discussione che Maria ha con il gestore di un caffè, un suo fan, quando mette su un disco interpretato dalla Callas. La reazione di Maria è rabbiosa e ostile. Non vuole ascoltarsi. Non lo fa mai. La voce di una cantante non può coincidere con quella registrata e sempre uguale d’un disco. La verità del canto è irregistrabile. Tutt’al più registrare può servire all’autoanalisi di un’artista. Che è quel che Maria fa, anche visionariamente, con Mandrax quando ripensa alla propria vita.
La ricerca di una voce, della propria voce d’artista, la voce di Maria, non quella della Callas, diventa di fatto anche il tentativo manifesto di emancipazione di Maria in quanto donna. Una voce che, a onor del vero, non è mai stata totalmente sua, ma a disposizione del pubblico, del sistema dello spettacolo e, infine, del compagno Onassis (che pretende che lei smetta di esibirsi fino a che staranno insieme). Il film è anche, dunque, un film politico nella misura in cui il personale è politico, specie perché il personale qui è quello di un’artista internazionale. L’arte contro il potere. Quello del pubblico, dei mezzi di comunicazione ma, soprattutto, dato che Maria è una donna, contro il potere maschile.
Il film però è frustrante per chi cerchi facili appigli ideologici. Nel film, nelle interviste immaginarie che rilascia a Mandrax, emerge tutta l’oppressione che il mondo maschile ha esercitato verso Maria Callas. È una violenza sottile quella del mondo maschile. Sottile ma capillare, non esclude alcuna donna: non importa se sia brutta, povera e sconosciuta o bella, benestante e famosa. Maria è stata entrambe. Povera e brutta, bella e ricca. In entrambi i casi si è confrontata col potere abusante dei maschi. Da quando poverissima sua madre vendeva lei e la sorella ai Nazisti, fino al suo rapporto tormentato con il ricco e potente Onassis. Il potere maschile non è un potere però totalmente vittimizzante. È un racconto quello di Maria che non fa sconti a nessuno, perché del potere le donne possono anche farsi complici: per necessità, calcolo o per amore.
È anche un racconto però solo parzialmente veritiero. Maria si narra come una donna irreggimentabile, libera, che ha pagato, anche sentimentalmente, il prezzo per non aver mai voluto essere la statuina nella teca di nessun uomo. Una donna libera può anche vendersi, per convenienza o per amore, ma non può essere rubata o ceduta, non è un oggetto. Maria si vede così, come una donna fieramente libera, ma lo è stata davvero?
Dipende come intendiamo la libertà. Le cronache del tempo ci riportano lo smacco di Aristotele Onassis che la accantona per sposare Jaqueline Kennedy. Maria racconta a Mandrax quanto questo sia stato il frutto della sua scelta di restare libera, però qualche dubbio ci viene dato che, nel film, assistiamo a una rivincita su Jaqueline che è, probabilmente, solo immaginaria. Si potrebbe dire che nel racconto di Maria si fondono verità e immaginazione. Lei si racconta come una sorta di novella Medea, anche se meno feroce del personaggio tragico.
Di fatto Maria un personaggio tragico lo è, come quelli dell’Opera. L’assenza nel film, di ogni accenno a Pier Paolo Pasolini che le offrì la possibilità di una nuova vita artistica, all’occhio dello spettatore colto, si nota. Ma forse è giusto così ai fini del racconto. Maria non è un’attrice. Non ha mai finto. La voce non si può fingere. Pertanto se intendiamo la libertà come la possibilità di essere se stessi fino in fondo, anche se questa libertà può condurre alla morte, Maria è, o almeno prova, a essere assolutamente libera. Solo che questa libertà le viene da una voce che deve ritrovare e, purtroppo, questa voce proviene proprio dalle sofferenze patite. Dal non essere stata sempre libera. La voce di Maria Callas viene da una porta aperta sul passato d’una ragazza indotta alla prostituzione dalla propria madre, dal dover essersi piegata a un matrimonio di interesse, da essere stata abbandonata dall’amore della vita. Così la morte di Maria è conseguente a quello che ha provato a essere fino in fondo come donna e come artista e coincide con un bellissimo ultimo canto del cigno. Non casualmente è «vissi d’arte».
di Amedeo Liberti