Intervista alla co-regista Laura Carrer
E’ una piovosa mattina di settembre, sono in coda per i ticket del festival dell’Internazionale di Ferrara, scorro la programmazione. Mi balza all’occhio un titolo: “Life is a game di Laura Carrer e Luca Quagliato, un documentario sulla condizione dei rider in Europa.”
La gamificazione del lavoro, il data mining e il fenomeno delle dark kitchen vengono raccontati attraverso un coro notturno di voci raccolte dalle strade percorse dai rider.
Una raccolta di voci che si amalgamano e raccontano la realtà dei rider oggi; vi è però un protagonista silenzioso che lega queste voci: la piattaforma. Entità che regola la vita dei lavoratori delle consegne a domicilio e che, in una simulazione perfettamente riuscita scandisce i ritmi della narrazione del documentario.
SARA Com’è nata l’idea di spiegare come funziona la piattaforma? Qual è stato il processo?
LAURA Io e Luca abbiamo motivazioni diverse sul perché fare questo documentario, la mia è una visione più giornalistica: vedevo che il racconto dei rider era molto polarizzato: da un lato li si descrive come persone schiavizzate dall’altro come lavoratori autonomi che possono guadagnare bene se lavorano molto e si impegnano (insomma, la narrazione dell’imprenditore di sé stesso), dando così al lavoratore la responsabilità del proprio guadagno e, di conseguenza, immaginando che sia per lui possibile determinare la sua condizione. Nei fatti non è sempre così.
Serve coscienza della mancanza di alternative che hanno portato la grande maggioranza dei rider a scegliere questa professione. Per altro il rider non sempre – anzi – quasi mai ha coscienza di questa condizione. Il mio obiettivo era quindi dare voce a loro.
Per Luca, che ha fatto il rider per una delle prime applicazioni nel 2020 durante la pandemia, l’obiettivo era diverso. Si è accorto della differenza nel lavoro da allora ad oggi. La piattaforma è cambiata radicalmente: prima era scarna ed essenziale mentre poi ci si è trovati di fronte a una piattaforma molto precisa e interattiva dietro la quale si notava che c’era stato un investimento. La nuova piattaforma era evidentemente il centro del lavoro.
I rider, invece, sono cambiati?
Il rider 10 anni fa era per lo più una persona italiana che faceva lo studente, maschio e che considerava quel lavoro come fare il baby sitter; un lavoretto. Anche la stessa narrazione delle aziende era quella di un lavoro che non era troppo impegnativo da fare nel tempo libero, un po’ come il pony pizza ma più autonomo, liberando il lavoratore dalla responsabilità di interfacciarsi con il ristoratore grazie all’app.
Il lavoro è poi diventato sempre più duro, sono aumentate le consegne da fare. C’è stato poi un cambio che, complice un sistema di accoglienza che non funziona, complice il vivere in una città che ha dei costi, in una situazione di isolamento, ha fatto dei migranti il target perfetto per questo tipo di lavoro.
C’è stata una differenza nel pagamento del lavoro?
Non è direttamente correlato al cambio di flotta ma più al fatto che ad un certo punto le piattaforme hanno iniziato ad avere sempre più rider e, aprendo le candidature le piattaforme si sono trovate con una quantità di persone registrate da giostrare come era più conveniente. è lo sviluppo modello di business che prevede la non subordinazione e che si prende la libertà di mettere in strada il numero di rider di cui ho bisogno creando una guerra tra poveri. La forza della piattaforma oggi è la sovrabbondanza di lavoratori iscritti ad essa.
La gamificazione è uno strumento di questo?
La gamificazione è un tema molto interessante in generale, mi immagino infiniti usi di questo strumento che possono portare a conseguenze interamente positive. Portando il primo esempio che mi viene in mente ora: la gamificazione dei processi di cura di bambini malati oncologici rende più accettabile e leggero il percorso attraverso la malattia.
Al contrario nel contesto lavorativo la gamificazione diventa una spinta per le piattaforme per tenersi sempre più stretto il lavoratore. Il lavoratore viene incuriosito, vengono fissati degli step per ottenere dei bonus. La conseguenza, nella vita reale, è che in strada si corre sempre di più e ci si dissocia dai rischi e dagli abusi della piattaforme a danno del lavoratore.
Per la piattaforma sono un po’ tutti utenti, tanto i lavoratori quanto i consumatori. Il lavoratore diventa utente del lavoro, sembra che sia la piattaforma a dare un servizio al rider e non essa a funzionare grazie alla sua disponibilità al lavoro.
Le piattaforme teoricamente nascono come intermediario tra offerta e domanda, cosa che sembra innocente ma nasconde tutta una serie di questioni. Il fatto di fare da intermediario porta tutti gli attori della filiera allo stesso livello. E può essere così perché il core business delle piattaforme è in realtà lo sviluppo tecnologico, esattamente come Amazon che è una piattaforma che prima di tutto gestisce data center, spazio cloud. Il suo core business è quello, a prescindere che tu sia il libraio che vende il libro o l’acquirente che lo acquista.
La trasparenza dei dati impatterebbe nella tendenza allo sfruttamento che queste piattaforme hanno? In che modo la cura dei dati può essere uno strumento di controllo per queste piattaforme?
Nemmeno l’ispettorato del lavoro sa quanti rider ci sono in Italia, ci sono delle indagini dei carabinieri sul campo e ad oggi il conteggio sul campo è l’unico modo per tracciare i rider, le piattaforme non rivelano i propri dati. C’è questo velo di opacità sopra il tema che rende tutto più complesso e rende impossibile ai rider conoscere quanti altri rider ci sono o sapere cosa gli succede sul lavoro.
Vi è poi l’altro lato della questione dati ovvero tutto ciò che riguarda la trasparenza dei dati che le piattaforme estraggono dagli utenti, cosa sanno le piattaforme dei ristoratori? E dei clienti che ordinano? Lo sappiamo solo nel momento in cui sono le piattaforme stesse a buttare fuori qualche nuovo sevizio: l’esempio più lampante sono le dark kitchen.
Qui ci mettiamo una cucina perché qui so che si mangia questo piatto. Come lo so? Evidentemente vi è un’estrazione di dati che dovrebbero essere quanto meno pubblici e che vengono, invece, utilizzati dalle piattaforme a proprio piacere.
Tu come hai fatto a ricostruire tutto ciò di cui parla il documentario. Come hai trovato le informazioni?
Il lavoro è iniziato all’inizio del 2021, son stati quasi tre anni passati ad approfondire tramite inchieste su IRPImedia, ho parlato con sindacalisti, con rider. Con tutti gli attori coinvolti in questo sistema così diverso dalle aziende. Questi attori mi hanno fornito un po’ di dati. Le piattaforme non hanno fornito dati che smentiscano l’idea del giornalismo d’inchiesta, non hanno mai risposto alle domande. Il giornalista ha quindi il diritto di scrivere ciò che può dedurre dai dati che ha.
Sarebbe interessante avere una fonte interna che raccontasse queste cose soprattutto ora che molte piattaforme se ne sono andate dall’Italia (Getir e Just eat sono improvvisamente sparite). Ora c’è questo duopolio di Glovo e Deliveroo che spingono per mangiarsi a vicenda. Il problema è che avere un contatto con queste aziende è impossibile, le piattaforme appaltano i servizi di ufficio stampa all’esterno, al giornaliste risponde l’ufficio stampa che di solito segue una quantità spropositata di aziende e non conosce le dinamiche reali.
Una cosa interessante che mi ha insegnato questo documentario è l’importanza di indagare in ottica europea; tutti i temi di cui parliamo nel documentario sono simili in tutta Europa, c’è un common ground che merita attenzione.
Come hai trovato i rider da intervistare? Perché hai scelto di intervistare rider di diverse nazionalità e in Paesi diversi?
Trovare i ridere è un lavoro prima di tutto di instaurazione di un rapporto di fiducia coi sindacalisti perché attraverso i colleghi spesso è difficile trovarli. I sindacalisti ci hanno fatto da gatekeepers, sono l’unico attore che li tiene in considerazione. Ovviamente vanno tenuti in considerazione tutti i limiti dell’elefantiaca struttura sincadale.
di Sara Nisoli
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