Fermentato non è marcio

Contro il conservatorismo del foodporn



Se dovessimo cercare il bastone tra le ruote che ostacola l’agilità della cultura gastronomica italiana, molto probabilmente lo troveremo nelle vesti dell’identità e della tradizione.

Entrambe fantasmi collocati in un passato leggendario nel quale il prodotto alimentare riveste un’importanza tale da valicare le necessità nutritive diventando un patrimonio culturale e territoriale attorno al quale si radunano quelle individualità che cercano una bandiera sotto la quale differenziarsi.

La focaccia genovese, la carbonara romana, il tortellino bolognese e qualunque altra forma di conservatorismo gastronomico regionale, diventano le nuove contrade di un’istituzione rituale che sceglie di dimenticare la propria origine storica (e quindi transitoria) in favore di una collocazione in illo tempore (e quindi mitica).

Nelle cerimonie sacrificali delle società tradizionali ogni singolo elemento della funzione doveva aderire perfettamente alla regola, pena l’ira di quelle energie cosmiche tenute a bada dal corretto compiersi dei gesti liturgici. L’ordine sociale è mantenuto dalla stabilità del rito e chi ne è escluso viene ostracizzato.

Se quanto stiamo dicendo sembra distante dalle premesse da cui siamo partiti suggerisco di riflettere su frasi quali “Non sei un vero italiano se metti il parmigiano sul tonno” o “Se lo sanno in Italia che ti piace l’ananas sulla pizza ti tolgono la cittadinanza”.

Non è una strada lunga quella tra rito e ricetta, ed è quindi il caso di prendere alla lettera il detto secondo il quale se mettessi della panna nella carbonara o sostituissi il guanciale con la pancetta allora da qualche parte tra Tarquinia e Frosinone un laziale ci starà lasciando le penne. Spesso le basi delle identità popolari si fondano sulla conservazione della tradizione e quando questa viene messa in dubbio allora automaticamente si scatenano le furie dei sacerdoti e dei fedeli che vedono minacciate quelle fondamenta rituali che danno senso, struttura e giustificazione alle loro usanze. Chiaramente queste ire reazionarie sono acuite nei momenti di incertezza sociale e non serve sprecarsi nell’esempio di quei politici che cavalcando gli slogan della sicurezza e della stabilità si mostrano a fare incetta di prodotti locali al solo scopo di confermare una realtà che essendo sempre stata, sempre sarà. Con ciò non si vuole negare la qualità o la complessità della cucina italiana né sostenere che qualunque tentativo di redigerne un compendio o un manuale sia un esercizio privo di valore storico, ma sottolineare che quest’ultimo non è il pretesto per giustificare il conservatorismo.

È la nevrosi protezionista e identitaria a impedire al dibattito di crescere meticciandosi con altre tradizioni che possano arricchirne le conoscenze. Ammettere un’influenza vorrebbe dire compromettere la purezza dei propri miti d’appartenenza rendendo pericolosamente confuso il confine tra il sé e l’alterità. Questa necessità di differenziazione assume modelli di pensiero vicino al magico quando la vulgata nazionalista riconosce all’italianità una forma di mana capace di rendere automaticamente il cuoco, la ricetta o il prodotto un gradino al di sopra di chiunque altro non condivida le stesse origini. Ne consegue che se basta un’appartenenza statale o regionale per far sì che chiunque sia in grado di contribuire al dibattito culinario, le voci dello chef e del benzinaio si equivarranno, e sia lo studio che la preparazione risulteranno ininfluenti di fronte al fatto che “mia nonna è siciliana quindi so come fare un arancino”.

Questo porta nel migliore dei casi a una stasi, mentre nel più probabile andremo incontro a una spirale discendente nel quale verranno progressivamente dimenticate le tecniche e il bagaglio di conoscenze necessario per distinguere un buon prodotto da uno scadente, facendo finire la nostra giovane cultura gastronomica (che è tale dagli anni Cinquanta) in un pantano di carbocreme e finti pistacchi di Bronte.

Il fenomeno del foodporn che oggi dilaga è la diretta conseguenza di questa tendenza che sta rischiando di affondare la cucina italiana.

Una cultura imprenditoriale da milioni di visualizzazioni che si fonda su una discussione alimentare che fa dell’esagerazione e della novità provocante le sue bandiere.

Un modello di business che trae profitto dalla sponsorizzazione e dalla patinatura di prodotti di infima qualità, a basso costo e che facciano leva sull’endiadi di eccesso e stranezza, mettendo in primo piano il fritto, la grassezza e la peccaminosità dell’alimento.

L’ipercaloricità e la stravaganza di queste montagne di cibo sono meccanismi di triggheraggio attraverso i quali il consumatore più vulnerabile si sente attirato dalla possibilità di essere finalmente un lucignolo capace di trasgredire a qualche presunta norma.

L’esibizione dell’eccesso e della trasgressione sembra voler comunicare uno stato di prosperità opposto alle miserie della povertà, dipingendo di sé l’immagine di qualcuno che fregiandosi di una disimpegnata libertà può permettersi di valicare il limite del buon senso e del galateo. L’avanzo che rimane nel piatto diventa la misura del tuo benessere.

Se tendenzialmente questa moda attecchisce in una fascia di popolazione con scarse conoscenze in materia, è altrettanto inquietante quanti ristoratori che avrebbero le capacità per offrire un prodotto di livello si stiano piegando alle lampare del foodporn.

Tutto questo segna la drammatica separazione tra il produttore locale e il dibattito gastronomico contemporaneo, che altrove sta riflettendo su temi quali la riduzione dello spreco alimentare, la fusione tra la ricerca scientifica e la dietetica o l’arrivo di nuovi alimenti dall’est e dal sud del mondo, cercando di integrare il tutto con la complessità dei traguardi dell’alta cucina e l’evoluzione del gusto dei consumatori.

Senza riferirci all’universo dei ristoranti stellati che possono sembrare realtà separate dalle filiere quotidiane, anche la trattoria o il ristorante di medio livello sono consapevoli di quanto la loro sopravvivenza sia legata alla sintonia e all’ascolto del territorio, e quanto questa sia una necessità che non possa fare a meno sia di una conoscenza profonda degli alimenti sia di una fidelizzazione che renda il ristorante non solo un posto di svago ma anche un luogo dove si possa incontrare il racconto intelligente delle materie prime attraverso cui lo chef compone il suo discorso.

Cosa aspettarsi invece da una ristorazione dove la stima nei confronti del senso critico dei cittadini è inesistente, incapace di sviluppare un’aggiornata rete di confronto professionale e che invece trova giustificazione unicamente nella trasgressione? Ubriacate dai numeri iniziali dovuti a qualche foodifluencer ben retribuito, tutte le iniziative che seguono questo modello finiranno per mancare di quell’opportuno sistema di feedback utile per garantire all’impresa la capacità di resistere ai mutamenti del mercato. Nemmeno il turismo, per quanto sia innegabilmente un motore economico a stretto contatto con la ristorazione saprà mantenere ancora a lungo quella che rischia di diventare la cosmesi forzata di qualche gloria passata, in quanto anche quest’ultimo viene sfruttato nel modo meno rischioso possibile, ovvero attraverso una spinta musealista utile solo a sorreggere l’immagine che ci viene riconosciuta invece di usare le potenzialità di un territorio che possiede ancora le energie per diventare un luogo di sperimentazione e di ricerca internazionale.

In conclusione se affidiamo il patrimonio della cucina italiana alle mani del conservatorismo o se lo lasciamo in preda alle pastoie del foodporn mancheremo l’occasione di consolidarci come una realtà all’altezza delle sfide della contemporaneità. Starà perciò alle istituzioni e alle future generazioni di chef garantire una sensibilizzazione economica e culturale nel mondo delle arti e delle scienze culinarie capace di insegnarci che conservare non significa mantenere bensì innovare.

di Francesco Pipitone

Autore

Lascia un commento