Il cervello fuori controllo

Annotazioni dal nuovo ciclo di neuroscienze

Da quando abbiamo virato impetuosamente verso la predicibilità totalizzante della realtà (umana e non), aleggia una certa convinzione che si risolverà l’umano, se non è già risolto. Cioè l’uomo in quanto uomo con i suoi ghiribizzi, la sua tanto sbandierata impredicibilità, un giorno, come Asimov prediceva e Philip K. Dick articolava, non sarà che un automa controllabile, regolabile, riposizionabile entro i limiti della curva della normalità psichica e fisiologica.

Dal momento che sarà decaduto dalla posizione di principino del creato, e in fondo non è altro che un animale (per quanto questo “non è altro che” sia più che discutibile), lo si scuoierà e taglierà a pezzi nel punto più interno del suo essere, come è già stato fatto per il mondo “fisico” (e, sia detto per inciso, le impasses non sembrano sul punto di sciogliersi in “pulita”, causalistica, comprensione). Tagliuzzato, atomizzato, guarderemo all’epoca precedente, cioè alla nostra epoca, come noi guardiamo ai cosiddetti uomini delle caverne; una scienza perfettizzata in altre parole, una sur-scienza, da cui il non conosciuto risulterà bandito. È curioso che scienze come la fisica siano meno soggette delle neuroscienze a un tale genere di trabocchetto filosofico. Ciononostante, resta che l’analisi, lo sminuzzamento, ha riscosso innegabili conquiste, quasi in ogni ambito si possa immaginare, comprese le neuroscienze (per esempio nella percezione e nella clinica). Rimane però il fatto che, ciò che hai fatto a pezzi poi dovrai rimetterlo assieme, dovrai ricomporlo, renderlo di nuovo circolante, operativo, rifarne realtà.

Esiste una simpatica coppia di parole nel discorso neuroscientifico, e non solo, per indicare l’antagonismo dialettico insito tra queste due necessità: ci sono i “lumpers” e gli “splitters”, ossia gli “ammassatori” (o “aggregatori”) e gli “spaccatori di capelli in quattro”. La disciplina dunque presagisce forse oscuramente in una tale tensione un potenziale punto d’arresto, mi verrebbe da dire: un irresistibile punto irriflesso che però ne rappresenta il postulato, leva per ogni riflessione.

Vorrei proporre un’ipotesi piccola, e diversa, che forse può organizzarsi su più piani assieme. Un’ipotesi che è più forse un punto d’aggancio per una somma di esperienze che paiono riflettere uno sfuggire della coscienza a sé stessa, una sua fuga su una linea prospettica che forse può portarci a un conflitto che si insinua anche nel cuore di questo totem moderno dello spirito del mondo – il cervello.

Primo, c’è un che di enigmatico nella concatenazione dei nostri pensieri che interviene quando chiudiamo gli occhi e dormiamo: un piccolo parassita pare entrarci nelle orecchie e mettersi a vaneggiare cose che hanno pure un che di irriguardoso, ma di cui, in fondo, come il bambino che guarda alla propria creazione nel vasino, non possiamo che dire: “L’ho fatto io!”. L’ho fatto “io”? Sembra presentarsi come un qualcosa di indubitabilmente nostro, eppure senza appartenerci.

Le neuroscienze si pongono ambiguamente nei confronti di un tale residuo, o scarto. Tutta una fazione tende a enfatizzarne l’assoluta insignificanza dal punto di vista del “senso”. Un altro lato ne sottolinea invece la funzione, l’“efficacia” psichica, potremmo dire: rielaborazione dei residui emotivi della giornata, consolidamento della memoria, sorta di nave scuola emotiva, sistema generalizzante della nostra conoscenza eccetera. Alcuni poi ne mostrano la somiglianza con lo stato di coscienza diurna, fino a studiarlo come esperienza “ecologica” di cosa sia la coscienza pura, slacciata dalle periferie sensoriali; e altri, e potete immaginarlo da voi ormai, sottolineano l’organica connessione col carattere del sonno e da cui deriverebbero (senza però spiegarli) i tratti bizzarri, incongruenti, i tagli, le assurdità del processo onirico.

Ciò che conta però, è che in rapporto al sogno, al perché non stacchiamo semplicemente la spina e non ci spegniamo come bravi robottini fino alla mattina dopo, ma viviamo esperienze che per vividezza possono competere, forse, con la vita da svegli (un professore dell’università, Spinicci, racconta: “Ciò che caratterizza il sogno è che da un sogno ci si sveglia”) siamo privi di una spiegazione convincente.

Al di là delle teorie, se si sogna tale sognare sarà pur mosso da qualcosa, dovremmo domandarci: e se a muoverlo fosse un’assenza, un meno anziché un più? Il sogno precipita non come una pietra mossa dalla gravità ma secondo traiettorie che ci impongono una considerazione significativa di questo pezzo di vita di vita, pezzo dimenticato, pezzo trascurato. Mi verrebbe di dire: i suoi movimenti non sembrano casuali. Ora, non è che di giorno i nostri pensieri siano sempre perfettamente allineati con quanto vorremmo facessero, anzi direi che lo sono raramente. I pensieri vagano. Ci pare di controllarli, di sapere da dove provengano, ma il fatto certo è che vagano. Anche loro, come i sogni, non sono mani che obbediscono alla nostra intenzione, ma piuttosto sono apparizioni fino a un certo punto, forse, controllabili. Una tale condizione, che è la condizione direi tipica dell’essere umano, è chiamata nella letteratura neuroscientifica “mind-wandering” (mente che vaga). Chi studia un tale fenomeno ha supposto una continuità tra sogno e pensiero della veglia – sono una cosa simile che avviene sotto gradi diversi di controllo cognitivo.

C’è perfino uno schemino che mette su due dimensioni diversi generi di pensiero, da più o meno “goal-oriented” a più o meno controllato. Ma rimane come un sottofondo lontano, come leitmotiv, almeno per me, la domanda: ma perché continuiamo a pensare, ad articolare discorsi e immagini quando non ne abbiamo letteralmente bisogno, anzi specie quando lo vogliamo di meno (notazione che a chiunque mediti apparirà lapalissiana nella sua banalità)?

È come se, anche da svegli, ci fosse un irrisolto, un qualche cosa che ci rinvia, un inciampo che ci fa fantasticare, deprimere ma anche poetare o forse, amare: un nodo che come la tela di Penelope imbrogliamo e poi sbrogliamo? Ma mi fermo: un’immagine è già un’ipotesi e forse anche di più. Dunque la modifico, leggermente: se invece di un garbuglio ci mettiamo un buco, un buco mobile ma sempre della stessa forma intorno a cui bordeggiano le intenzioni, i pensieri, le emozioni, i sogni, l’azione umana perfino: o è il contrario ed è dall’attrito con un tale vuoto, una tale differenza, che emerge la singolarità umana?

Da qualche tempo si aggira fra i laboratoridi eminenze grigie delle neuroscienze una ideuzza, un’ipotesi, un framework, lo si chiama, una cornice, una serie di principi, ideuzza germogliata in seno agli studi più fruttuosi delle neuroscienze, quelli di percezione, e che si formula pressapoco così: che il cervello non “percepisca” ma registri la differenza tra una propria ipotesi, tra la propria allucinazione, e lo scontro con il flusso oppositivo del reale, e la minima o grande differenza e il conseguente aggiustamento del cosiddetto modello generativo che ne risulta sia tutto ciò che circoli come moneta di scambio nel cervello. Predizione e propria invalidazione, come in una ricerca di neutralizzazione, di mimetizzazione, insonorizzazione del mondo.

In tale notazione, anche il “movimento verso” si rappresenta come l’inverso della predizione, come a dire che il movimento non è movimento verso uno scopo, ma disporre che lo scopo scivoli verso di me avverando una dopo l’altra la corrente delle mie predizioni, sì che quasi incidentalmente la pizza predetta si trovi nella mia bocca. Siccome il mio cervello, secondo una tale ideuzza, produrrebbe il mondo, o meglio “mi im-mondo” nella frattura istitutiva del mio entrarvi (si noti che in filigrana scorre una pulsione epistemofilica, sono guidato a chiudere questo buco) per mezzo della differenza, epsilon chiamiamola, tra la circolante allucinazione cerebrale e l’altrettanto circolante insistere di un flusso contrario, addirittura confliggente (e potrei dire che tanto mi ricordano queste due forze, che avevano il pregio nella teoria freudiana di non essere localizzate se non nello spazio ipotetico della psiche, il principio di piacere e il principio di realtà).

I due flussi poco conta dove abbiano origine: il contatto col reale è immediato e se si pensa al cervello nei termini di una gerarchia di aree ad astrazione sempre maggiore (cosa, sia detto per inciso, che non capisco del tutto e che soffre di problemi dal punto di vista filosofico per quanto riguarda il passaggio da formati rappresentativi ad altri) questo contatto col reale si propaga a tutta la struttura del modello, ripercorrendo i gradini da cui è sceso per portare giù da basso l’acqua della predizione, ritorna su col vino della differenza, epsilon: non male come miracolo. Tutto ciò che rimane del cosiddetto reale è quella povera differenza, epsilon, sola e ubriaca, a reggere il peso di tutto quel che accadrebbe dintorno, oppure, ciò che resta è l’errore tra l’allucinazione ostinata del mondo e la presenza salda di un che di resistente al nostro rivestirlo, tappezzarlo e tapparci occhi e orecchie – l’obbiettivo sempre un passo oltre il lumacone (o ACHILLE) è colmare quell’epsilon, impredicibile che si distacca dal nostro modello che vorrebbe procedere secondo una linea di sviluppo secondo la quale: “l’entropia non esiste”.

Devo ammettere che ho fatto, anche volutamente, un poco di confusione tra cervello ed esperienza; ma se dovessi formulare un’idea, forse solo suggestiva, noi potremmo trovarci in quello iato, noi in quanto soggetti, in quello iato costitutivo, esplosivo, che tentiamo con tutti i nostri sforzi incoscienti di chiudere ma che è ineludibile (e forse ci rassicura sulla presenza di un mondo oltre a noi?) perché forse siamo quella tensione, quel piccolo spazietto in cui un’enorme quantità di energia si convoglia per chiudersi ma che resiste (e da cui nascono sogni e pensieri e emozioni), pilastro da cui nasce la nostra esigenza di completezza, di chiusura, potremmo pensare, a cui potrebbe perfino, non so se in senso canzonatorio, riallacciarsi quel filo estratto da Freud e da lui chiamato desiderio indistruttibile; desiderio indistruttibile di colmare quella lacerazione, quello strappo cui nulla recherà sollievo se non momentaneo – perché il sollievo definitivo sarebbe la stessa cosa della morte.

Il principio di piacere come sottolineato da Freud stesso tende al minimo di tensione possibile, il che non è che raffinata parafrasi di, istinto di morte. Se non ci fosse la cara, cara (in tutti i sensi) realtà, a cui secondo la teoria non abbiamo che accesso per demarcatura, distinzione, saremmo come sonnambuli che camminano nel mondo (e forse metto la pulce nell’orecchio a qualcuno) camminando lungo questa perfetta giogaia, come nella nostra ora d’aria prima che il sipario sulla rappresentazione, sul fondo colorato della nostra storia “personale”, della nostra vita quotidiana, cali giù; ma è qui, in questo stacco-attacco, nella sorpresa, nel fuori-controllo, fuori-modello, unica preziosa strettoia in cui ci estenuiamo come Sisifo (il nostro cervello, almeno) che si trova forse uno dei segreti della nostra umanità?

Forse è una ideuzza e basta, ma almeno è un punto di partenza.

di Lorenzo Teresi

L’articolo accompagna il ciclo sulle neuroscienze tenuto da Lorenzo Teresi ogni martedì di dicembre 2024, alle 19:00, in Corte dei Miracoli

Autore

Lascia un commento