La cultura come forza produttiva in Hans-Jürgen Krahl
È opinione comune, almeno in Occidente, che l’andamento storico non sia omogeneo e che i popoli conoscano periodi di fulgore alternati a momenti di crisi, decadenza e, come recita il titolo di questo numero, di ristagno.
Sotto la scorza di un pensiero apparentemente banale, in quest’affermazione è possibile rinvenire una delle tante forme che può assumere la filosofia della Storia, ossia il tentativo di interpretare gli avvenimenti e i fatti storici in modo che questi assumano un senso più o meno compiuto.
Un’operazione teorica, questa, che negli ultimi decenni ha suscitato non pochi sospetti. Accusate di imporre i propri schemi precostituiti ai fatti, infatti, le filosofie della Storia sono state liquidate come il residuo di un passato destinato a venir superato.
Nel fare ciò tuttavia si è finito per buttare il bambino con l’acqua sporca.
Sebbene infatti certe interpretazioni risultassero triviali ed eccessivamente semplificatorie (pensiamo alla concezione positivistica della Storia come cammino verso «meravigliose sorti e progressive» dell’umanità), il tentativo di interpretare razionalmente, di darsi una ragione ossia di comprendere e ricercare le cause dei fenomeni, non è un male.
Anzi, come notoriamente affermò già Aristotele, l’essere umano è un animale razionale, e l’esercizio della razionalità dovrebbe essere un titolo di merito più che un’accusa.
Non solo. Il rifiuto per principio della filosofia della Storia ha prodotto paradossalmente risultati peggiori di quelli a cui intendeva porre rimedio.
La filosofia della Storia – ogni filosofia della Storia – contiene infatti in sé una tensione insopprimibile verso la totalità.
È l’insieme della realtà umana che si tenta di comprendere, a cui si tenta di dare senso. «Il vero è l’intero» (Hegel 2008,p. 15) scriveva Hegel, non a caso uno degli autori più negletti negli ultimi decenni.
La rinuncia alle cosiddette «grandi narrazioni» e a ogni forma di filosofia della Storia in quanto «grande narrazione», condanna allora la filosofia e in generale il pensiero critico a rinunciare contemporaneamente anche alla totalità.
L’oggetto della filosofia nella storia
La filosofia, al pari di ogni altra disciplina, diviene quindi portatrice di un sapere tecnico, specialistico, separato dagli altri saperi e, quindi, autoreferenziale.
Almeno negli intenti perché, mentre per gli altri saperi sia pur con immensa fatica, è possibile definire un oggetto specifico di indagine e quindi un campo di applicazione, con la filosofia questo stesso sforzo risulta sostanzialmente vano.
Non perché la filosofia non abbia un suo linguaggio tecnico e un suo strumentario teorico raffinati nel corso della sua storia – storia che per altro può essere ricostruita (e viene fatto) in quanto storia della filosofia appunto.
Ma perché, se la medicina studia il corpo umano, le malattie che lo affliggono e i modi per evitarle o curarle, se l’economia pretende di occuparsi delle ferree leggi scritte nel bronzo degli scambi tra merci e capitali e la disciplina storica indaga gli eventi del passato, la filosofia cosa fa?
Hegel, sempre lui, direbbe che il suo oggetto è la Verità ma è proprio questa risposta oggi rifiutata, perché il sentore di «grande narrazione» qui si farebbe granitica certezza.
Così, in questo vuoto di senso, chi studia filosofia si trova a riciclarsi come tagliatore di teste nelle aziende o professore precario nelle scuole.
Un destino tutt’altro che ineluttabile, ma a cui è possibile sottrarsi solo a condizione di metterne in discussione i presupposti storici e quindi, innanzitutto, a condizione di comprenderli criticamente.
Storia e produzione del sapere
Nel 1969, Hans-Jürgen Krahl rilevava che la scienza – e più in generale l’ideologia e la cultura – era da considerarsi a pieno titolo una forza produttiva (Krahl 1973, p. 322). Era questo l’esito di un processo che affondava le proprie radici nel passato.
Già nel XVII secolo, la scienza moderna aveva mostrato il nesso sempre più insolubile tra sviluppo capitalistico (e quindi della società) e conoscenza (Hessen 2022). Tuttavia, lo sviluppo del neocapitalismo europeo negli anni Cinquanta e Sessanta ne rappresentava un logico compimento.
A quell’altezza storica, infatti, il capitale non si limitava più ad appropriarsi del prodotto culturale “dall’esterno”, per metterlo al servizio dei propri bisogni. Un’appropriazione che potremmo definire “sussunzione formale”, per sottolineare i margini di autonomia che tale produzione culturale riusciva a mantenere.
Piuttosto, esso interveniva direttamente nella produzione e riproduzione di cultura, piegando quest’ultima ai propri scopi. La produzione di sapere diventava così parte integrante dello sviluppo capitalistico, creando un binomio apparentemente impossibile da scindere.
Tanto il capitale si legava al progresso scientifico per potersi valorizzare, quanto la scienza diventava dipendente dal capitale per poter progredire.
Questo processo di sussunzione reale non si limitava a trasformare la funzione della cultura e il suo rapporto con il capitale. In corso vi era un radicale mutamento anche del rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e, quindi, della funzione dell’intellettuale.
Ormai parte integrante e attiva del processo di riproduzione sociale, l’intellettuale era costretto a dismettere i panni di titolare di un sapere universale e perciò continuatore di una tradizione culturale “disinteressata”, la Kultur per usare sempre le parole di Krahl (Krahl 1973, p. 323).
L’intellettuale diventava piuttosto il portatore di una conoscenza tecnica, specialistica e immediatamente spendibile (pensiamo all’insistenza odierna sulle cosiddette “competenze”): forza-lavoro “specializzata” da mettere al servizio del capitale, vuoi in una funzione dirigenziale, come facente funzione del capitale stesso (il manager), vuoi in una funzione diretta, come lavoratore sfruttabile e sfruttato.
La filosofia, in quanto studio critico del reale in tutte le sue sfaccettature, ha subito il contraccolpo più deciso. Non è stato l’unico sapere a essere entrato in crisi. Anzi potremmo dire che in generale tutti i saperi umanistici hanno subito gli effetti deleteri di questa trasformazione.
E tuttavia proprio il carattere totalizzante che ha sempre contraddistinto la filosofia ne ha impedito la trasformazione in una disciplina tecnica, specialistica. E il filosofo vaga in cerca di un suo posto nel mondo, riciclandosi in lavori che con l’afflato per la ricerca hanno ben poco a che fare.
Praticare la filosofia
Di fronte a questo triste stato di cose si è tentati di rimpiangere i tempi andati, quando la filosofia e in generale la cultura erano attività autonome e “pure”. I tempi in cui gli intellettuali “tradizionali” potevano rinchiudersi nella loro torre d’avorio alieni dalle preoccupazioni mondane. Sarebbe però un’operazione destinata ad avere vita breve.
Non solo la locomotiva della Storia non procede mai verso il passato, ma a ben vedere ciò non sarebbe nemmeno auspicabile. Il superamento della scissione tra lavoro manuale e intellettuale ha infatti reso possibile a larghi strati di popolazione, prima tenuti ai margini dallo studio, di accedere al sapere.
Uscire dalla palude in cui ci troviamo immersi è possibile, non rimpiangendo quindi le epoche in cui “chi sapeva” era altro da chi “chi faceva”, ma valorizzando la sintesi tra sapere e fare.
E questa valorizzazione significa anche trasformazione della filosofia stessa.
Se la cultura è infatti una forza produttiva e l’intellettuale è divenuto organico alla produzione e riproduzione sociale, se «la diaspora positivistica delle singole scienze […] permette all’intellettuale di intendersi come produttore sfruttato» (Krahl 1973, p. 323), allora la filosofia deve rinunciare una volta per tutte a collocarsi sul mero terreno speculativo.
La filosofia deve, in altre parole, farsi filosofia pratica, ovverosia politica: critica dell’esistente, capace di andare alla radice delle cose per trasformarle.
Bibliografia
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008.
B. Hessen, Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton, trad. di G. Rispoli, Castelvecchi, Roma 2022.
H.-J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, trad. di S. de Waal, Jaca Book, Milano 1973.