Il problema del linguaggio è uno dei motivi più importanti del pensiero di Heidegger. Da Essere e Tempo alle conferenze degli anni Cinquanta, si tratta di un nodo essenziale, e per il buon esito della riflessione stessa, e per il modo di esprimerla, che non è indipendente dalla riflessione stessa. Infatti, il linguaggio non è soltanto uno di molti problemi da affrontare sulla via del senso dell’Essere, ma anche e soprattutto la questione originaria del luogo di tale percorso; il linguaggio ordinario, come quello tecnico della filosofia, non è adeguato alle esigenze del pensiero, e in questa inadeguatezza emerge l’essenza stessa del linguaggio, come dimora dell’Essere, irriducibile a un mero mezzo d’espressione. Questo saggio vorrebbe ripercorrere alcune delle tappe più importanti del pensiero heideggeriano, mettendo in luce il complesso rapporto tra Essere, linguaggio, uomo, e storia; in particolare, l’intreccio tra autenticità della nostra interpretazione e memoria linguistica, come memoria dell’Essere stesso che è prima di qualsiasi possibilità.
Il domandare intorno il linguaggio inizia dunque con Essere e Tempo, la prima grande opera del filosofo. Secondo il testo, noi viviamo in un mondo per nulla riducibile a una semplice cosa; al contrario, si tratta del luogo esistenziale che abitiamo, e all’interno del quale troviamole cose stesse. Per esempio, svegliandoci la mattina presto, non siamo ancora abbastanza lucidi da cogliere distintamente e in piena consapevolezza cosa dobbiamo fare, dove sono le cose necessarie alla routine, e nemmeno come ci sentiamo; semplicemente lo comprendiamo, immediatamente. Ecco, questo accade perché prima che si possa effettivamente articolare alcunché, il mondo come comprensione e situazione emotiva è già aperto; ci sta di fronte come pre-articolazione delle cose tutte, e come tonalità emozionale in cui ci muoviamo. Questi sono due esistenziali originari, categorie proprie dell’uomo in quanto Essere-nel-mondo.
Tra questi, Heidegger colloca anche il discorso, cioè l’«articolazione della comprensibilità». Il mondo è aperto nella comprensione, precedente a qualsiasi interpretazione, come una totalità di significati, intrecciati a formare una fitta rete di rimandi; l’essente è sempre originariamente compreso come utilizzabile, il cui senso si mantiene aperto nell’apertura del mondo, e viene appropriato dall’Esserci nell’interpretazione. Più semplicemente, le cose ci sono presenti anzitutto come strumenti per raggiungere uno scopo; in quanto tali, sono tutte unite da una rete di rimandi reciproci; questi dipendono dal nostro modo di comprendere e interpretare le cose, ponendole in un orizzonte più ampio che le contiene tutte senza essere a sua volta un utilizzabile. E questo orizzonte è il mondo: il mondo, che viene articolato ed espresso solo nelle forme di una certa lingua, con una grammatica, e delle strutture sue. L’espressione del discorso, da cui non può essere separato, è il linguaggio: in un certo senso, è la presentificazione del discorso, la cui parola può divenire un utilizzabile, un segno fonetico o alfabetico semplicemente-presente al pari delle mere cose, sebbene la sua essenza risieda nell’apertura del mondo stesso. Infatti, soltanto entro un linguaggio, la cosa è propriamente, e giunge a manifestarsi come tale.
Ora, il discorso ha quattro momenti costitutivi, per Essere e Tempo di uguale importanza: il sopra-che-cosa, ciò-che-esso-dice, la comunicazione, la manifestazione. Le parole fanno molte cose: indicano qualcosa, certo, ma sono anche un modo di indicarlo a qualcun altro, e allo stesso tempo ci danno direttive su come intendere quel qualcosa, e su cosa fare. Ma affidandosi a uno solo di questi significati, si cade nell’inautenticità e nell’errore. Per esempio, concepire il linguaggio come mero strumento di comunicazione concettuale significa precludersi qualsiasi accesso al fatto che esso abbia il potere di evocare con estrema vividezza un oggetto del mondo. Ora, per il Circolo di Vienna, contemporaneo di Heidegger, il linguaggio è nella sua essenza uno strumento di descrizione del mondo, composto da fatti esterni e indipendenti da esso e dall’uomo, e come tale deve esser adeguato a tale scopo scientifico purificandone l’uso, e rendendolo perfettamente adeguato alla comunicazione di contenuti concettuali. Se confrontata con la riflessione heideggeriana, dietro tale limpidezza si nasconde un oblio profondo dell’autentica essenza del linguaggio, che non è mai soltanto un segno a nostra disposizione per indicare, quanto più univocamente possibile, un fatto esterno ad esso. Tanto più che nulla è esterno al linguaggio e alla comprensione.
L’essenza dell’utilizzabile, il suo senso ontologico, sta nell’appagatività: l’utilizzabile è un mezzo-per fare qualcosa, serve ad ottenere un effetto che a sua volta trae il suo senso dai fini, più o meno cogenti, che è chiamato ad assolvere. Tutte le cose si manifestano intrecciate in un sistema di questo tipo; ciò rispetto a cui tutti attingono significato, la condizione del loro senso, è l’uomo come Esserci progettante, che ha bisogno di certe cose, e ne desidera altre. Per questo, utilizza strumenti che sono percepiti anzitutto come tali. Certamente, il linguaggio, come insieme di elementi fonetici o alfabetici, è anche uno strumento di comunicazione, un utilizzabile; ma è anche il luogo in cui il mondo stesso, e tutti gli essenti intramondani, raggiungono la parola, e si manifestano secondo la loro essenza. Infatti, si tratta di una delle condizioni di manifestività dell’essente, e in esso sono contenute le altre, in cui il linguaggio è fondato. Tuttavia, nella parola sta anche la possibilità della presentificazione dell’essente: esso è astratto dal sistema di rimandi cui appartiene, e pensato come semplice-presenza avente certe proprietà. Questo diventa possibile a prescindere dalla parola, e dalla struttura sintattica dell’asserzione: “x è y”. Ma la semplice-presenza, sebbene utile, non è che uno dei modi di essere dell’essente.
Nell’inautenticità, il linguaggio diventa mero strumento di comunicazione. Non a caso, è proprio nella chiacchiera che l’essente si nasconde allo sguardo distratto del Si, della gente in mezzo a cui siamo immersi, e che prende parte costitutiva alla nostra comprensione delle cose; deietto presso il mondo già aperto di fronte a sé, l’Esserci si ritrova disperso nel con-Essere inautentico del Si; il Si è il Chi dell’inautenticità. Questo è anzitutto un Si dice, in cui il linguaggio perde la sua capacità di ascoltare e comprendere autenticamente, e soprattutto si riduce a ciò che il discorso dice come tale, dimenticando l’essente che in esso si manifesta. Nel parlare secondo il Si, rimane oscurato il senso stesso di ciò che diciamo, e il discorso si chiude su sé stesso, oscurando la vera manifestazione dell’essente. Non si comprende più l’ente manifestato in esso, ma solo il discorso come essente presente di fronte a noi; è dimenticato il fondamento del discorso, la svelatezza dell’essente.
Ora, in generale l’Esserci è in quanto Cura. Siamo sempre chiamati a prenderci cura delle cose che ci circondano, ponendole nei nostri progetti, e ad aver cura delle altre persone. Per questo, siamo sempre esistenzialmente effettivi: siamo in continuo dialogo con le possibilità aperte di fronte a noi, sempre necessitati a scegliere. E, d’altra parte, tale scelta non può che rifarsi a quanto troviamo già aperto nel mondo: non siamo creatori, se non nella misura in cui stabiliamo qualche legame nuovo tra quanto troviamo nel mondo. Tale seconda caratteristica è detta gettatezza: siamo, da sempre e fino alla morte, gettati all’interno di un orizzonte che non controlliamo appieno, e che non possiamo evadere. Ora, è proprio su questo che si fonda l’inautenticità da cui sembra necessario partire in un’analisi dell’Esserci. Agiamo sempre cogliendo possibilità che ci sono sostanzialmente date, il cui richiamo, accresciuto dalle voci della moltitudine invisibile del Si, è talmente forte da farci spesso dimenticare chi siamo, e che siamo un particolare chi.
Come uscire da questa chiusura, e mettersi nell’autenticità? L’autenticità è raggiunta quando l’Esserci abbia interpretato sé stesso in maniera autentica, cioè a partire dalla sua possibilità più propria, che è la morte. Essendo sempre posti di fronte a possibilità aperte nel mondo, abitato da molti Esserci, solo questa si pone sempre come la propria per il singolo. Ma la morte non è semplicemente un fatto di cui prendere atto: è al contrario la presa di coscienza del nostro Esserci proprio, finito e per questo diverso da tutti gli altri. Tale possibilità è dischiusa nella decisione anticipatrice, in cui l’Esserci è-per la morte, comprendendo in relazione ad essa tutte le altre di fronte alle quali è gettato innanzitutto e perlopiù. Perché la morte è la chiave della comprensione autentica del mondo? Dall’indeterminatezza del con-Essere inautentico e dalla spaesatezza dell’angoscia, in cui ognuno è quel Nessuno ch’è vero soggetto del Si, l’Esserci si dischiude al suo senso ontologico, l’essere dell’Esserci, e il vero fondamento del principium individuationis: la Temporalità.
Effettivo e deietto, gettato-avanti-a-sé in un mondo di cui eredita le possibilità già aperte, si fa carico di tale colpevolezza originaria, a partire dall’ad-venire, in cui l’Esserci perviene sempre a sé stesso nella maniera più propria; in quanto esso non semplicemente è, ma finché è ha da essere, proteso verso possibilità aperte, le quali sono scelte o respinte in un rivenire sulle scelte precedenti, in uno sforzo mai concluso di corrispondere alla voce della coscienza che ci ha svegliato e cui vogliamo adeguarci. Il passato, come essere-già-stato, si temporalizza a partire dal futuro: è nel volere-avere-coscienza della nostra colpevolezza, che l’Esserci si apre a un’autentica scelta delle possibilità, ma soprattutto ci mette di fronte al “come” delle possibilità che ci sono davanti. E per questo noi siamo già sempre fuori di noi: irriducibili ad una caratterizzazione rigida e fissa, siamo estaticamente sospesi in un avvenire che ci chiama all’apertura originaria in cui siamo gettati: la coscienza ci richiama silenziosamente a essere-liberi-per la finitezza delle possibilità dischiuse di fronte a noi. In altre parole, il nostro futuro autentico è un ritorno alle radici profonde del nostro Essere-nel-mondo. E soprattutto ci riporta alla consapevolezza che ogni nostro progetto, e tutte le possibilità intrecciate nel mondo, sono da ultimo fondate e sospese sul Nulla, di cui noi siamo gli abitatori, estaticamente immersi in esso. Cosa sostiene infatti l’esistenza umana? Al di là di ciò che è puramente materiale, siamo, come detto, librati al di sopra di possibilità non ancora realizzate, e di un passato non più presente; eppure, da essi traiamo il senso della nostra esistenza. Che cosa è questo, se non Nulla?
Ora, raggiungere l’autentico progetto dell’Esserci implica reinterpretare il mondo stesso, ripercorrendo le tappe di Essere e Tempo;e nonostante gli accenni a una comprensione autentica di esso nella seconda, il linguaggio ricoprirà in essa un ruolo nuovo e centrale, che emerge in quella Lettera sull’Umanismo, ch’è allo stesso tempo una revisione dell’opera del 1927 e una porta sulla Kehre, la Svolta, della maturità. Infatti, è in questo testo che Heidegger da una parte ridimensiona il ruolo dell’Esserci nella ricerca dell’Essere, e dall’altra pone il linguaggio come luogo del rapporto tra i due elementi. Il pensatore dice: «Il linguaggio è la dimora dell’Essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. […] Mediante il loro dire, la conducono (la manifestività dell’essere) al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono». Il pensiero deve dire la verità dell’Essere, rivolgendosi ad esso senza lasciarsi irretire nell’ente; ma il pensiero non è mai pensiero dell’Esserci, che cerca di cogliere l’Essere: in verità, è sempre pensiero dall’Essere donato e all’Essere rivolto, finché resta autentico. Non che l’Essere sia qualcosa che può esser detto, come una mera cosa; è piuttosto la condizione di manifestazione, e quindi di dicibilità, di qualsiasi cosa, che in ogni parola e in ogni esperienza riluce come il lume da cui il mondo è reso visibile.
Dunque, corrispondendo alla propria essenza originaria, il linguaggio deve farsi luogo dell’evento dell’Essere, in cui si illumina la radura; e fa questo come pensiero e come poesia. Come già detto, nel linguaggio è contenuto il mondo, come compreso e interpretato; allo stesso tempo, nell’immediatezza della parola quotidiana, tale mondo si trova concentrato, immediatamente risuonante. Le parole sono il luogo dell’eventualizzarsi dell’Essere, cioè dell’inascosità dell’inascoso alla cui Cura siamo quotidianamente chiamati. L’Esserci invece è “pastore dell’Essere”. Non “padrone dell’ente”, che lo ordina secondo il suo progetto; piuttosto, «sta fuori nell’apertura dell’Essere, la quale è come tale l’essere stesso che, in quanto getto, si è gettata e acquisita a sé nella cura l’essenza dell’uomo». L’uomo è come sospeso al di sopra del mondo, di cui si deve prender cura rimanendo aperto all’apertura nella quale l’essente nella sua totalità si trova, apertura che è l’Essere stesso; ma la comprensione aprente, e il progetto autentico, sono gettati non dall’uomo, ma dall’Essere stesso che li fa essere. Nel linguaggio coabitiamo con l’Essere; e a partire da esso si articolano il suo dono e la sua chiamata priva di parola, che ci riporta al fondamento del mondo storicamente finito in cui abitiamo. E la sua finitezza non è che il linguaggio stesso. Per questa ragione, l’assenza di parole di fronte a certi eventi non è una mancanza a cui si possa sopperire: è un evento dell’Essere stesso, in quanto è la parola che si pone da medio tra Essere e cosa, è la parola che dà l’Essere alla cosa. E proprio nella parola portata sino ai suoi limiti possiamo toccare l’orizzonte storico in cui abitiamo.
Ma cosa vuol dire evento dell’Essere? Cosa significa farne esperienza? In Che cos’è metafisica?, Heidegger connota il farsi avanti dell’Essere come l’esperienza, nell’angoscia, della nullificazione della totalità dell’ente intramondano da parte del non-ente, Ni-ente. Il Nulla nientifica quel mondo ch’è aperto di fronte a noi, e che pure rimane imperscrutabilmente infondato. Le singole cose che ci troviamo di fronte sono nodi di un sistema di rimandi più ampio; e nulla di più. Il nulla che è di più in ogni circostanza è il Niente, che viene avanti quando le attività della vita di ogni giorno vengono meno, fino a mostrare la loro essenziale nullità; il fatto che esse stesse sono sospese sul Nulla della possibilità dell’Esserci. E infatti, se l’essente è, è in virtù di qualcos’altro, dell’Essere; ma l’Essere non è meramente essente; e questo, che dona l’essere all’ente, che lo mantiene nella sua luce, è così identico al Niente, come non-ente. Dalla radicale differenza tra Essere e essente, sorge l’identificazione del primo con il Nulla. Ma sempre all’interno di un orizzonte mondano esso si fa evento; ed è evento proprio perché in qualche relazione con l’essente intramondano. Nell’avanzare retrocedendo nel suo nullo fondamento del mondo, si eventualizza l’Essere come Niente. Ma che relazione è questa? L’Essere è quel fondamento che, proprio in quanto fonda, si nasconde, si vela, non si lascia cogliere; è Nulla. Evento rivelante-velantesi è l’Essere, evento che non può mai essere adeguatamente descritto nel linguaggio, ma che allo stesso tempo ci pone di fronte alla fonte del significato di questo stesso; ma anche origine che si lascia obliare e nascondere dall’essente che pone nell’inascosità della radura.
La radura stessa, in quanto inascosità dell’essente, è la verità. Che rapporto c’è tra verità e linguaggio? E quale tra essa e evento dell’Essere? Nella metafisica del passato, il linguaggio aveva con l’essere un rapporto speciale, nella misura in cui era esso, in quanto asserzione, il luogo della verità; questa sussiste nella misura in cui la proposizione corrisponde alla realtà esterna. Ma così viene livellata a correttezza dell’asserzione. Per Heidegger, la verità è essenzialmente la svelatezza dell’essente. La verità è la svelatezza stessa nel rivelarsi, che è sempre aperto in un evento linguistico. Ora, tale verità può esser intesa come la a-letheia del mondo, l’apparire delle cose, all’interno per esempio di una descrizione appropriata, o della costruzione di un muro, in cui l’utilizzabile, negli strumenti, nella calce, nel muro stesso cui si dà forma, appare; ma esiste una relazione ad essa più originaria, e radicale. Ne L’origine dell’opera d’arte, Heidegger prende in esame quegli oggetti reali, la cui essenza è l’arte: irriducibili a semplici cose, esse sono piuttosto il mettersi-in-opera della verità; sono l’accadimento della verità, cioè l’apertura della totalità dell’essente. Infatti, l’Essere si dona a noi aprendo un mondo a partire da un evento originario, a seguito del quale quanto era prima, e quanto è da venire, viene ricompreso in virtù di un’apertura nuova, che illumina l’essente riconfigurandone il significato; un mondo ci è aperto di fronte.
Come avviene questo nell’opera d’arte? Secondo il saggio, è l’evento stesso dell’apertura, che avviene; nella lotta tra Mondo e Terra, tra l’orizzonte di significatività aperto nell’opera, e «ciò verso cui il sorgere retroreconde tutto ciò che sorge, mettendolo al riparo proprio come il sorgente». Si tratta dunque del fondamento nascosto di tutto ciò che si manifesta, e della materia senza cui ogni forma sarebbe impossibile. È il fondo scuro su cui l’Essere proietta la scena del mondo. Tale Terra è nella quotidianità assolutamente nascosta, e dimenticata; nell’opera d’arte invece viene mantenuta nella luce in virtù della sua lotta con il mondo: «in ciò che sorge, la terra essenzia come la recondente». La roccia dell’acropoli e il vento che sferza la casa del dio sono la Terra del tempio greco; il colore ancora vivente, la Terra della pittura. Ma l’arte per eccellenza, in Heidegger, è la poesia, la poiesis nella sua essenza. E la Terra propria della poesia non può che essere il linguaggio stesso: la parola in quanto tale. Proprio questa, infatti, diventerà occasione per testi più tardi di ripercorrere i sentieri meno battuti alla ricerca dell’Essere; ogni parola è un’occasione per il mondeggiare di un mondo; per l’aprirsi di una totalità di significati, che in essa sono quasi implicati. Come una scatola nera storica, la parola richiama tutti gli elementi che concorrono alla creazione della cosa in essa manifestata. Infatti, l’evento in cui il mondo si mondeggia è dinamicamente orientato su quattro elementi fondamentali, il Cielo e la Terra, i Mortali e i Divini. Nella parola “vino”, il poeta greco includeva e Dioniso e il simposio, e la pioggia necessaria alla vite e la terra scotta dal sole da cui si produce.
Tale evento, che ha luogo nella parola poetica, apre un mondo irriducibilmente nuovo; è un cominciamento a partire dal quale la nostra comprensione deve esser riconfigurata. L’Essere si dà in un nuovo evento di verità. Cambia la luce entro cui vediamo le cose presenti intorno a noi; e in questa luce il carattere di tali cose è modificato. Ora, tale evento non necessariamente avviene nell’opera d’arte: esistono altre modalità del rivelarsi dell’essente, in parte accennate nello stesso saggio sull’Opera. Ma ognuno di essi è il cominciamento di un mondo: è il fondamento rivelante-velantesi di un’apertura nuova. E cosa sono tali aperture? In che modo si relazionano tra loro? Già nella Lettera sull’Umanismo, Heidegger dice: «L’essere è il destino della radura. L’accadere della storia è essenzialmente come il destino della verità dell’essere a partire da quest’ultimo». La verità è destinalmente messa-in-opera dall’Essere; il destino della verità, cioè il succedersi delle aperture in cui l’essente si svela nel vero, è l’accadere della storia. Il fatto puro che accada un mondo, entro cui si riarticola il significato di tutta la storia, non è opera di uomini, ma dell’Essere. E il destino di tali eventi rivelanti, il loro accadere imperscrutabile, è l’Essere stesso. In tal senso, la storia non è possibile se non radicata nella Temporalità dell’Esserci, e quindi illuminata dalla comprensione finita dell’epoca di quell’Esserci. Ogni epoca, e ogni rovina delle precedenti sia in essa rimasta intatta, viene illuminata da un evento nuovo e originario. Certo, la ricostruzione del passato spetta a noi, chiamati a prenderci cura anche delle rovine e dei frammenti dei nostri antenati; ma è il darsi dell’Essere a determinare la verità di un’epoca, a farci intendere una statua greca come un patrimonio da salvaguardare piuttosto che come un idolo pagano da distruggere; darsi, questo, che non consiste che in una chiamata silenziosa a cui corrispondiamo in maniera sempre diversa.
L’Essere è fondamento che fonda assentandosi: solo nel suo velarsi, nel suo assentarsi, l’essente è lasciato essere. La storia è la storia del corrispondere dell’Esserci all’Essere cui è vicino nel linguaggio, in cui le cose vengono all’Essere; all’appello silenzioso del fondamento che ci invita sulla strada dell’origine dello svelamento, e che però al medesimo tempo si sottrae sempre; si vela svelandosi. Il mondo, lasciatoci aperto, è il dono assolutamente asimmetrico che l’Essere ci destina, e l’apertura è il fondamento e la fine del mondo di cui l’umanità è di volta in volta chiamata a prendersi cura. Infatti, l’origine dell’Essere che ci chiama rimane memoria di un fondamento dimenticato, e irrecuperabile, in quanto sempre differente dall’essente di qualsiasi genere; e il suo destino ci rimane nascosto in un futuro indeterminato, dal quale però speriamo di ottenere una risposta. Similmente al modo in cui l’Esserci si temporalizza a partire dall’ad-venire, assumendosi la sua gettatezza, così la storia del pensiero cerca di comprendere l’Essere corrispondendo alla chiamata di un assente fondamento, a partire dall’orizzonte finito in cui storicamente si colloca. Il mondo, lasciatoci aperto, è il dono assolutamente asimmetrico che l’Essere ci destina, e l’apertura è il fondamento e la fine del mondo di cui l’umanità è di volta in volta chiamata a prendersi cura; e nel mondo soltanto echeggia la voce senza parole, che risveglia il pensiero.
Tuttavia, nel celarsi dell’Essere, risiede la possibilità del suo oblio. Deietto presso l’essente, l’Esserci volge le spalle all’apertura originaria, e, come nell’inautenticità di Essere e tempo, dimentica la luce in cui si trova. E il fondamento celato rimane dimenticato, l’assenza si fa essa stessa assente. Così, si apre la strada al nichilismo, autentico senso della storia dell’Occidente, significativamente esplicitato solo al termine della metafisica. Il senso dell’origine si esplicita al termine della storia, già prefigurata nel cominciamento. L’essenza della metafisica sta nella riduzione dell’essente tutto a semplice-presenza, e con questo nella misinterpretazione dell’Essere stesso, ridotto a Ente sommo. Così, la storia del pensiero, in nulla simile ad un progresso verso la verità assoluta, si configura piuttosto come un allontanarsi dal domandare originario, addentrandosi nell’oblio dell’Essere, che inizia con Platone, e termina in Nietzsche. Nel mancato riconoscimento dell’apertura in cui anche il nostro discorso resta aperto sulla strada verso l’Essere, Heidegger individua l’errore originario della metafisica. E tuttavia, è necessario ripercorrere anche la storia del pensiero: tornare sulle tracce dell’Essere, sulle orme che la sua apertura ha lasciato nei pensatori e nei poeti che ne hanno colto la chiamata, e vi hanno corrisposto secondo l’apertura che gli giaceva di fronte. E con questo comprendere sé stessi, sapendo di essere l’ultimo passo verso l’oblio dell’Essere; e così emergerà il sommo pericolo, contenuto nella tecnica moderna.
Ora, la tecnica, come la metafisica, è un’apertura storica dell’Essere, un modo di rivelarsi dell’essente, e, in quanto tale, appartiene di diritto al destino dell’Essere stesso. Dall’altro lato, per Heidegger è anche il pericolo supremo, in quanto vi viene precluso quel colloquio con l’Essere stesso, che costituisce il contenuto eminente della storia tutta. Per Holderlin, «noi siamo un colloquio»; ma la tecnica lascia dimenticare ogni interlocutore. Infatti irregimenta l’ente tutto, e l’uomo con esso, in una immensa intelaiatura entro la quale esso prende l’unico significato di riserva di potenza. È la potenza della volontà umana a dominare sul mondo della tecnica; la sua sfida contro la natura, e la sua vittoria, risuonano nelle grandi opere della contemporaneità; ma ponendosi come solo padrone dell’ente, l’uomo si ritrova infine espropriato da sé stesso, e, non secondariamente, dall’autentica sua dimora, che è il linguaggio. Infatti, si aliena dal rapporto con l’Essere, e riduce il tempo cui appartiene ad una mera successione di ora uguali. Così, dimentica il senso del suo esistere angosciante, e la verità in essa contenuta, e l’angoscia stessa si fa sterile, se non impossibile. La tecnica, radicata nella techne greca come modo specifico di rivelarsi dell’essente, è un modo della verità; soltanto nell’apertura del moderno, segnata dalla volontà di dominio e dalla totalità dell’essente ridotto a riserva di potere, si fa pericolo supremo. Dall’altro lato, solo perché da sempre ci troviamo nel lucore possiamo metterci sulla strada della sua origine, rendendoci conto dell’errore che avvolge la nostra storia; solo in quanto la tecnica stessa appartiene alla storia dell’Essere, essa ha trionfato; e proprio in essa possiamo trovare la via verso la verità originaria, da cui dipende. E questa strada porta sui sentieri della metafisica occidentale, la cui essenza deve essere aperta e compresa e per svelarne l’errore. In essa stessa è contenuto un potere salvifico, tale da rimetterci in un rapporto autentico con la verità. Proveniamo da essi, e per questo dobbiamo ritornarvi nella radura, in cui l’esser-stato dell’Occidente viene svelato nell’apertura, sempre irriducibilmente nuova, della verità.
L’essenza di quell’ente particolare che è l’uomo secondo Essere e Tempo è la Temporalità, interpretazione autentica della Cura. Da questo emerge un rapporto essenziale con il passato, e con la memoria in cui ci manteniamo: l’adveniente decidersi per l’autenticità è allo stesso tempo un ripetere, in quanto soltanto nell’origine nostra, nel fondamento celato e tacito sotto la chiacchiera del quotidiano, troveremo l’autentico compimento della nostra esistenza; e però tale origine, tale vero inizio, è anche l’ultima verità ad essere svelata. Ne L’origine dell’opera d’arte, l’origine è ciò da cui proviene l’essenza di qualcosa, cioè ciò che qualcosa è; ma per l’Esserci, esistendo, ne va del suo essere. La sua essenza dunque non potrà che esser cercata sulle vie aperte dall’Essere, secondo la costituzione del mondo in cui siamo gettati. E tale costituzione, nel suo carattere originario, ci è accessibile nel linguaggio. E che cosa ha a che vedere questo con la storia? Ho già detto del potere salvifico contenuto nella poiesis, che è la via d’uscita dal chiuso orizzonte della tecnica. Più in generale, si può dire che il destino dell’Essere, contenuto tutto nel suo principio, è custodito proprio nella parola poetica. E infatti, il velante fondamento della nostra, come di ogni altra, epoca, è celato e rivelato nel mistero della parola pensante e poetante la cui vera essenza si rivela soltanto da ultimo. E infatti, possiamo cercare e procedere in avanti soltanto in quanto e nella misura in cui sappiamo già cosa cercare; soltanto quando ci troviamo in mezzo alle tracce di ciò di cui siamo alla ricerca. E per questo credo che la memoria non possa essere sottovalutata, sebbene non sia forse la più appariscente delle nozioni heideggeriane: nella memoria, e in quell’archivio di memoria destinale che è il linguaggio stesso, dobbiamo cercare i semi della futura rinascita dell’Essere, e del futuro del nostro tempo, perlomeno se vogliamo comprenderlo autenticamente. E nei meandri della nostra memoria poetica esso va cercato.
Bibliografia
Il Concetto di Tempo, M. Heidegger, 1924, Adelphi, a cura di F. Volpi
Essere e Tempo, M. Heidegger, 1927, traduzione di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi
Che cos’è metafisica?, M. Heidegger, 1929, Adelphi, a cura di F. Volpi
Lettera sull’Umanismo, M. Heidegger, 1947, Adelphi, a cura di F. Volpi
Question Concerning Technology, M. Heidegger, 1954, Philosophy of Technology; the Technological Condition: an Anthology, R. Scharff and V. Dusek
In cammino verso il linguaggio, M. Heidegger, 1959, Mursia, a cura di A. Caracciolo
L’origine dell’opera d’arte, in Holzwege: Sentieri interrotti, M. Heidegger, 1950, Bompiani, a cura di V. Cicero
Essere, storia e linguaggio in Heidegger, G. Vattimo, 1963, Marietti
Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, 2005, Laterza
di Pietro Turinetti