Il ristagno nella narrazione del progresso estetico
“L’intelligenza fiorisce soltanto nelle epoche in cui le convenzioni avvizziscono, i loro articoli e i loro precetti si allentano, le loro regole si ammorbidiscono. Ogni fine d’epoca è il paradiso dello spirito […] agonie della storia che precedono l’insania di ogni aurora…” (Emil Cioran)
La storia la scrivono i vincitori: nell’evoluzione del linguaggio musicale, si tratta di quelli che sono riusciti a manifestare d’imprimersi in maniera decisiva sul suo corso. Le considerazioni con cui annunciano il loro successo dicono di loro, della loro ambizione, ma fanno poco onore alle ricchezze del contesto che si proponevano d’adombrare. Alcune di queste considerazioni riguardano l’idea che l’estetica da loro superata avesse dei limiti espressivi al suo interno, limiti che andavano violati, liberando le possibilità che incatenavano. Ma è proprio così?
Alle volte con quell’ambizione qualcuno ottiene di lasciare accostato il proprio nome a qualche novità: così ancora oggi, quando un’orchestra raccoglie un numero di elementi piuttosto grande la si chiama “orchestra wagneriana”. Come tutti i bramosi di rivoluzioni, Wagner, definito da Nietzsche «il più scortese genio del mondo», apportò innovazioni in molti ambiti diversi. A lui risale l’estetica del suono spremuto «fino alla sua ultima goccia di sangue», o la concezione anche architettonica della posizione l’orchestra nascosta nel “golfo mistico” durante le rappresentazioni operistiche. Ma fra le cose che vennero vissute come più sconcertanti fu un utilizzo inedito di quella che si può chiamare “sospensione della gravità tonale”[1]: sospensione, ossia, di quel principio del quale il compositore Anton Webern alcuni decenni dopo avrebbe parlato come di una fiaba remota:
Un pezzo aveva un suono fondamentale, che rimaneva tale per tutta la sua durata: da esso ci si allontanava e ad esso si ritornava.
Da esso “ci si allontanava e si ritornava” come una forza gravitazionale dell’orientamento sonoro. Così che era possibile “raccontare” di equilibri in divenire, rappresentare l’esperienza con i sui conflitti, le sue risoluzioni: dato un principio, le deviazioni dalla sua forma essenziale rappresentano la possibilità di esprimersi, di raffigurare.
Con la sua “melodia infinita” Wagner contorceva il discorso musicale in un viaggio dal quale il “ritorno a casa” non era più una garanzia. Dopo Wagner si aprivano gli anni in cui tutti avrebbero giocato con quel senso di sospensione. In quella stagione fiorivano così tutte le soluzioni possibili di cantare all’interno di un flusso non più strettamente vincolato alle logiche trascorse, e ancora ignaro dei paradigmi di quelle future. L’intuizione musicale di compositori come Debussy, Bartok, Skrjabin, in quella décadence seppero dipingere all’infuori di logiche costruttive date a priori universi che univano il gusto per le sonorità delle tradizioni popolari esotiche e nostrane alle evocazioni sinestetiche più labirintiche.
Una certa varietà di mondi possibili, che proliferava sul decadere dell’antica tradizione: per uno spirito come Arnold Schönberg, un caos, a cui necessitava un ordine, che lui sarebbe stato in grado di imprimere.
Attraverso l’intuizione del “metodo dodecafonico”[1], pensò di poter restituire una superiore coerenza al linguaggio musicale, che non si era più dimostrata – a suo vedere – soddisfacente.
La sua nuova invenzione si proponeva di ristabilire un ordine che tutti potessero seguire, e a cui l’intera storia della musica tendeva inevitabilmente: una serie di note (dodici, senza ripetizioni) – ordinate primadella scrittura della composizione stessa – costituiva il suo materiale germinale, ripresentato attraverso le sue possibili varianti;così ne parla Webern, tra i suoi più vicini allievi e seguaci:
Io credo che da quando si è iniziato a scrivere musica, tutti i grandi maestri abbiano avuto istintivamente questa meta davanti agli occhi. […] un mezzo per formulare in musica la massima coerenza possibile
Il risultato fu una musica la cui coerenza era sì posta intrinsecamente alla sua strutturazione, ma di cui nessun ascoltatore possedeva la chiave: si coglieva solo l’uniformità generale che quella coerenza apportava. Non c’era nessun viaggio che si potesse apprezzare, nessuna evoluzione di carattere che si potesse avvertire con la stessa raffinatezza della musica che ancora faceva riferimento ai linguaggi condivisi: non perché non fosse in qualche modo formulato, ma perché non poteva essere recepito.
Cosicché l’idea stessa era rivolta ad una sua più attuata godibilità nell’avvenire. Questo è reso molto chiaramente dalle parole di Schönberg:
Credo nel nuovo, credo che sia quel buono e bello verso cui tendiamo con la nostra essenza più intima, altrettanto inconsapevolmente e inarrestabilmente come tendiamo verso il futuro. Ci deve essere da qualche parte, nel nostro futuro una magnifica realizzazione ancora nascosta, in quanto la nostra intera ricerca rimanda sempre verso di essa le proprie speranze.
Tornando più indietro nel tempo un altro caso eloquente è quello che ha visto il passaggio dalla musica rinascimentale, legata alla trasmissione dell’artigianato compositivo (espressione divenuta spesso quantomai dispregiativa!) all’estetica germinale dell’Opera: il passaggio ossia dalla “polifonia” – articolato intreccio di più voci che cantano insieme, dove perlopiù nessuna voce è di per sé subordinata alle altre – alla pratica del “recitar-cantando”[1], dove prevale l’uso della voce da sola, accompagnata da uno o più strumenti col ruolo di accompagnamento.
Questo passaggio veniva annunciato da un gruppo di intellettuali radunati attorno alla corte del conte Bardi, prendendo il nome di Camerata de’ Bardi. Il loro portavoce era il compositore e teorico Vincenzo Galilei, padre di Galileo – di lì a poco annunciatore di ancora più epocali rivoluzioni:
“La continua delicatezza della diversità degli accordi, mescolata con quel po’ d’aspro ed amaro delle varie dissonanze, oltre a mille altre soperchie maniere d’artificio, che con tanta industria sono andati cercando i contrappuntisti dei nostri tempi, quando usate per esprimere concetti e imprimere gli affetti nell’uditore, non solo sono di sommo impedimento, ma pessimo veleno.”
Quella “diversità degli accordi”, e “quel po’ d’aspro e d’amaro” sono parte di un complesso linguaggio costituito da figure retoriche ricercate, espresse in musica attraverso l’esperienza di generazioni di compositori, linguaggio che era un legame anche con i suoi ascoltatori, abituati a seguire nel discorso sonoro quelle ricorrenze: Dove nel testo compariva un richiamo ai baci d’un amante, una stessa breve melodia poteva apparire cantata da più voci come inanellata a creare una voluttuosa ciclicità[2]; il movimento di uno sguardo poteva essere reso dal rincorrersi fra le voci di un motivo rapido e fuggente[3], e anche il vento e le onde del mare[4], o il canto degli uccelli in primavera trovavano la loro forma sonora. Ma soprattutto, e in mille forme diverse, il dilaniarsi di un’anima sofferente[5], la cui imperitura immediatezza evoca ancora vividamente quel presente trascorso. Sono solo alcuni esempi di una quantità incredibile di nessi fra suono, parola e significato poetico di cui musicista e ascoltatore coltivati a quella sonorità potevano godere insieme. Spesso ci si riferisce a buona parte di questi espedienti espressivi con il termine “madrigalismi”, perché molto utilizzati dai compositori di madrigali del XVI secolo. Ed è verso la fine di quell’epoca, dove quel codice va arricchendosi di figure svincolate dalle regole della prassi che troviamo l’ultimo fiorire, nella sua decadenza, di un linguaggio inestimabile. Momento che precede sempre l’assalto dei “miglioratori del mondo”, pronti ad apportare una nuova chiarificatrice coerenza, una “più efficace” comprensibilità.
Ogni placida riproposizione è sì superflua, ma la sua ricchezza sta proprio in questo, nell’aggiungere sotterraneamente forza alla rammemorazione della bellezza delle forme, senza che sia necessariamente chiamata ad avvenire nel segno d’un rinnovamento programmatico.
Ed è nell’idea che ogni presente possa essere goduto nel canto che gli è proprio – senza confrontarlo o completarlo con l’evoluzione successiva – che viene in luce l’aspirazione sepolta dalle rivoluzioni prorompenti: l’aspirazione a coltivare, anche dove il progresso dello stile ristagna, il piacere nel dire attraverso il suono, fra le rive di quello stagno nel quale gracchiano le raganelle, dove l’assenza di forti correnti e impulsi tangibili fa proliferare la vita, disseminata ovunque, col suo insostituibile canto d’amore.
di Alessandro Guarneri
NOTE:
[1] Catartico in questo senso il dispiegarsi delle prime note del Preludio all’opera “Tristan und Isolde”.
[2] La cui prima applicazione risale ai sui 5 pezzi op.23, per pianoforte, 1923.
[3] Delle cui prime applicazioni ci resta la raccolta “Le Nuove Musiche di Giulio Caccini
[4]“Sovra tenere herbette” di Claudio Monteverdi.
[5]“Lumi miei cari lumi” di Claudio Monteverdi.
[6]“A un giro sol de’ begl’occhi lucenti” di Claudio Monteverdi.
[7] “Zefiro torna e il bel tempo rimena” di Luca Marenzio.