Il pane tra campagna e città 

Intervista a Davide Longoni 

Non possiamo raccontare la storia dell’uomo senza raccontare quella del pane, esattamente come non si può parlare del grano e dei cereali tralasciando quanto le vicende umane abbiano influito sulla loro evoluzione. 

Il grano il riso e il mais furono tra le prime forme tecnologiche di cui homo sapiens ha saputo circondarsi, diventando presto sia alimento che metafora. 

Il pane perciò, una vivanda intimamente connessa all’idea di civiltà, un alimento umano che per essere prodotto necessita di una cultura sufficientemente avanzata da saper dirigere i processi naturali a suo favore trasformando la materia prima in una preparazione della quale a oggi non si contano le variabili. 

La straordinaria duttilità dell’impasto infatti si adatta perfettamente alla complessità del tessuto sociale nel quale l’alimento si inserisce, coincidendo sia con le abitudini della famiglia che coi bisogni della cultura. 

Massimo Montanari sottolinea come nel pane si trovi la cifra simbolica dell’uomo uscito dallo stato bestiale di cacciatore raccoglitore per dirigersi verso la conquista della civiltà.  

Questo processo però non è solamente mosso da lente e anonime evoluzioni culturali, deve bensì la sua sopravvivenza all’interno della contemporaneità urbana anche ad autori e artigiani con nomi e cognomi. Abbiamo perciò scelto di dialogare con Davide Longoni, un panificatore milanese che ha cambiato radicalmente il modo di fare il pane all’interno della città, innovando e restituendo attualità al mestiere antico del fornaio e del panettiere. 

Davide, quale è stato il tuo primo approccio con questo lavoro e come lo hai visto evolvere nel corso dei decenni? 

La coscienza e il mestiere del panificatore è cambiata non solo rispetto da come si faceva il pane nell’antico Egitto ma anche rispetto a 50 anni fa. Io, ad esempio, sono figlio e nipote di panificatori e mi rendo perfettamente conto che il mio pane è decisamente diverso da quello dei miei genitori e dei miei nonni, sia nelle intenzioni che nelle materie prime. Loro non usavano né la pasta madre né le farine macinate a pietra, producendo solo michette, francesini, ciabattini, pugliesi e poche altre varietà. 

Se lavoravano per poter mangiare e soddisfare la domanda, io oltre a quello, sto cercando di avere innanzi tutto un impatto positivo sul suolo, provando a coltivare una connessione tra il territorio e gli agricoltori, tra i mulini e i mugnai.  

Quando nei primi anni duemila mi sono messo a pensare a questo pane di filiera di grande formato e ad alta idratazione, mi sono dovuto inventare una tradizione, partendo da quello che può sembrare un pane antico ma che in realtà non ha nulla di storico. Se ieri il pane bianco era per ricchi oggi è quello integrale e a crosta scura a incontrare i gusti di un certo ceto sociale.

Certamente anche noi siamo tornati a fare la michetta, però trattare un pane milanese, come questo e riattualizzarlo ha senso solo se si presta attenzione ai cambiamenti della conoscenza del cliente e all’evoluzione dei gusti dei consumatori. Inoltre, se confrontarsi coi colleghi un tempo era impensabile e i laboratori erano molto chiusi e privi di un dialogo professionale, ora tra panettieri italiani, europei e internazionali c’è uno scambio e una rete utile per confrontarsi e crescere assieme.

Scegliere quindi di valorizzare delle filiere agricole locali non è un discorso nazionalista, ma è per provare a rendere tangibile il rapporto vitale che la città intrattiene con l’agricoltura e i campi coltivati. 

Nella stessa parola filiera è inserito il concetto di rete e fratellanza che ricorda quello di philia, ed è proprio a partire da questa amicizia e vicinanza che proviamo a strutturare delle connessioni sia tra i produttori che con la città.  

Da cittadino, però, questa relazione è difficile percepirla. Per chi vive all’interno delle mura cittadine la campagna sembra un mondo alieno, che parla un’altra lingua e si muove con ritmi diversi. 

Diventa aliena se, sia la realtà della città che quella della campagna, continuano a non comunicare. 

Per capire questo divario culturale basta aprire i frigoriferi di chi abita tra i campi. In campagna ad esempio mangiano mediamente peggio rispetto alla città. Questo anche perché difficilmente chi produce grano in pianura padana mangia ciò che coltiva. Adesso le aziende agricole sono monocolturali e quindi c’è poco tempo e poco spazio per quelle altre attività capaci di sostentarti. Nelle campagne ha vinto la monocoltura, perciò chi coltiva il grano non ha polli o altro, ed è molto raro che le aziende agricole siano autosufficienti come potevano esserlo i contadini di cinquanta anni fa che avevano orto, maiali e vacche. Il grano viene raccolto con le mietitrebbie, viene venduto e subito distribuito. Mancando dunque il modo per fartelo macinare e panificare ti trovi a doverlo comparare altrove. Per questo abbiamo sentito il bisogno di stabilire connessioni nuove e più salde. 

Ma, quindi, come si può diversificare la coltivazione di un terreno riducendo quindi la produzione per ogni singolo bene alimentare senza far impennare i costi? 

Perché, se è vero che la monocoltura è dannosa e crea omogeneizzazione, è altrettanto vero che permette di soddisfare il fabbisogno di quell’ampia classe sociale che non ha i fondi per permettersi un prodotto di filiera. 

Il tema del prezzo è rilevante e spinoso perché non si può pensare di mangiare grano di filiera e pagarlo meno, in primo luogo perché costa di più produrlo. Questo però non deve essere visto come un vezzo borghese o bohémien, perché è da ingenui pensare che un pollo a 4 euro possa essere stato allevato in campagna. 

Bisogna ripensare la maniera di consumare e come destinare il proprio budget per il consumo. Il cibo insomma deve crescere. Oggi preferiamo spendere in tecnologia e abbigliamento, piuttosto che nella nostra alimentazione, ma il cibo orienta ancora la gran parte del mondo sia nella maniera di produrlo che in quella di pensarlo. 

Poi certamente ci sono contesti differenti come l’Appennino, le Prealpi e le Alpi, ma quella è agricoltura marginale. 

L’agricoltura delle città per la gran parte viene dalla pianura padana o dall’intensivo europeo, marocchino, ucraino e russo. Il cibo che arriva dalle campagne di Milano di filiera agricola sarà sotto il 5%. 

Il prezzo del grano non è fissato a luglio (il grano si raccoglie a luglio) ma si fa giorno per giorno, lo si monitora dalla borsa di Bologna per i grani teneri e quella di Foggia per i grani duri. 

Viene immagazzinato, stoccato e messo a commercio in base alla fluttuazione dei prezzi e mediamente dovrebbe stare intorno ai 28 euro a quintale. In sostanza va a finire che all’agricoltore costa molto più produrlo che comprarlo, e se oggi il consumatore può accedere alle farine da centro commerciale è perché l’agricoltura è sostenuta dagli aiuti dell’unione europea, ma in realtà il prezzo del grano è totalmente falsato e insostenibile dal mercato. 

Oltre il 95% del grano mondiale è prodotto ancora attraverso il vecchio quadro di selezione, meccanizzazione, diserbo e concime, insomma i quattro pilastri della rivoluzione verde degli anni Cinquanta. 

Poi chiaramente esistono delle nicchie che vanno a soddisfare quei pochi panificatori come “Crosa”, “Longoni”, “Polveri” etc., ma che tutti messi assieme produrremo all’incirca solo 2000 kg di pane al giorno. 

Andando a nutrire forse il 2% dei milanesi siamo insignificanti dal punto di vista delle quantità. 

Il pane però ha un valore simbolico importante, non è una merce come le altre, e coscienti di quanto si è appena detto se il cambiamento macroscopico è complesso, allora un’azienda come la nostra, che ha margine per fare solidarietà (anche interna, cercando di gratificare i dipendenti, pagando quindi tutte le ore lavorate) si deve dedicare anche ad attività che si spendono per il sociale. 

Migliorare il rapporto tra campagna e città significa promuovere un cambiamento a 360 gradi, non solo nella filiera. 

In una città come Milano, che è una città generosa, abbiamo cercato di avere un’influenza sul territorio anche partendo dalle periferie più problematiche come ad esempio le scuole di Chiaravalle e Corvetto o i bambini di “Madre Project”, o ancora con l’istituzione di corsi di formazione per coloro che escono dalle carceri o dalle comunità, collaborando con associazioni come la “Don Gino Rigoldi”. 

Ogni mattina doniamo il pane invenduto del giorno prima a “Pane quotidiano”, una realtà che da più di cento anni si spende per la distribuzione alimentare alle fasce più povere e vulnerabili. 

Fare il pane insomma, sia nella progettazione che nella vendita, può diventare un lavoro che ti riconnette a questa ecumene umana, scavalcando le differenze di censo o di interessi, portandoti a sentire che in fondo esiste una base comune capace di darci l’occasione di conoscere e rispettare quell’immensa varietà culturale che partendo dagli agricoltori e i mugnai, passa dal miliardario o il fashion blogger, fino ad arrivare all’immigrato minorenne che entra in negozio. 

di Francesco Pipitone 

LEGGI TUTTI I NOSTRI ARTICOLI DI GASTRONOMIA

Autore