L’immagine solidale di Kaurismaki
«Il primo passo nell’evoluzione dell’etica è
un senso di solidarietà con altri essere umani»,
(Albert Schweitzer)
Se dovessi inventare una parola singola per definire l’estetica dei film contemporanei il termine che userei è «liquidarietà». Questa (brutta) parola per me ha due accezioni. La prima è in riferimento alla «modernità liquida» di Zygmunt Bauman. Confesso di non conoscere granché del sociologo polacco e non so se abbia mai scritto di «immagini liquide», tuttavia il concetto di «modernità liquida» è ormai, nel dibattito pubblico, sinonimo della tendenza generale verso quell’individualismo radicale che ha come corollari la precarietà esistenziale e l’impossibilità, ma talvolta anche il rifiuto, di punti fermi; siano essi politici, economici o psicologici («l’uomo senza legami è l’individuo plasmato dalla modernità liquida»). Va da sé che tale spinta epocale all’instabilità non può non coinvolgere vari ambiti culturali o le arti, cinema compreso.
La ragione forse meno evidente ma profonda della «liquidarietà» del cinema attuale è la sua natura digitale. Che c’è di più individualistico d’un pixel o d’un numero? Che c’è di più esteticamente liquido di un’immagine modificabile a piacere, persino dallo spettatore? Con un’impostazione del proiettore o del telecomando, ad esempio, si può saturare il colore d’un film e rendere inutile il lavoro del direttore della fotografia. Non solo. L’estetica liquida si nutre della possibilità di copiare, modificare e riciclare immagini e clip video. Similmente a ciò che avviene nella musica possiamo aggiungere o togliere suoni e immagini a piacere. Magari far parlare per sollazzo Darth Vader da ciociaro. Nella modernità solida del vecchio cinema in pellicola la personalizzazione delle immagini o il loro riutilizzo creativo erano semplicemente impossibili, oppure appannaggio di artisti.
L’estetica digitale non riguarda quindi solo il consumo o lo spettatore, ma chiama in causa il primo spettatore del film, cioè chi il film lo fa: il regista. Il cinema liquido è liquido fin dalla produzione. Il digitale ha semplificato e reso più economica la realizzazione di film e questo, in teoria, al di là della qualità in sé delle opere, avrebbe dovuto tradursi in una maggiore sperimentazione, in una più copiosa offerta di film personali se non culturalmente eccentrici. Invece, a scorrere i cataloghi delle piattaforme online, il risultato è quello d’una maggiore proposta di film convenzionali nel linguaggio e nello stile. Film il cui modello è l’algoritmo produttivo del «fumettone» Marvel. Dalle formule per realizzare film commercialmente perfetti alla destabilizzante possibilità di produrre filmati grazie all’intelligenza artificiale il passo è stato breve. Il cinema in CGI, il cinema liquido, dissolve il problema dell’autorialità estinguendo l’autore in favore dell’automa. Fine dell’Uomo come essere creativo. «Directed by A.I.» presto potrà essere il titolo di testa prima dell’inizio d’un film.
Bauman non sarebbe sorpreso. Era conscio che la risposta banale alla modernità liquida è quella, un po’ schizoide, del rifugio nel tratto opposto: il conformismo (anzi persino nell’intolleranza verso il differente). Nelle società ed economie globalizzate, più si spostano le merci da un luogo all’altro, comprese le merci umane chiamate turisti, meno s’accetta che a cambiare di posto siano veri esseri umani. Così la «modernità liquida» ci spinge (nel complesso) ad agire verso i migranti con «liquidarietà», intesa qui nella seconda accezione: il negativo della solidarietà. «Liquidarietà» è riduzione dell’altro alle differenze etniche, linguistiche, religiose o di genere, non per riconoscere in lui la specificità culturale, propria di ogni essere umano, ma per evidenziare la distanza con un «noi», persino, per qualcuno più che razzista, con quel «noi» che è l’Umanità.
Similmente, anche se in maniera complementare, il cinema liquido si rivela sempre di più come un’arte che scioglie, per ragioni di marketing e produttive, l’immagine stessa dell’Umanità in mille rivoli, in moltitudini di personaggi differenti per etnia, età, genere o censo. Si pensi al successo avuto dai tanti Spiderman del multiverso Marvel. Tanti Peter Parker (o Miles Morales) tutti diversi eppure dannatamente simili. L’immagine liquida, prodotta per piacere al numero maggiore di individui, finisce con annichilire lo specifico dell’individuo: essere la singolare ma totale immagine dell’Umanità. Il cinema della «liquidarietà» sembra aver rinunciato a raccontare un protagonista universale, come lo è stato il Vagabondo di Chaplin, in cui ogni spettatore vedeva riflessa la propria umanità, indipendentemente dall’età, dalla latitudine, dal portafoglio, forse persino dal sesso ed è condannato a raccontare, in un’unica storia, non l’Uomo, non l’Eroe, ma una moltitudine di eroi (l’eroe bianco e l’eroe nero e l’eroe donna e l’eroe giovane…) in modo che ciascun spettatore possa ritrovare quella parte che interessa a lui e si riconosca in questo o in quel personaggio.
Cito Chaplin non a caso. Il cinema, arte del movimento e potenzialmente fluida, tuttavia ai tempi del muto era un’arte molto «solida». La cinepresa tendeva all’immobilità, le inquadrature erano fisse e ciò che era in moto, in moto alla ricerca di solidarietà e simpatia umana, era solo il protagonista.
Si dirà che non ha senso essere nostalgici di quel cinema ormai scomparso. Invece il cinema della solidarietà è ancora vivo, resiste, lotta insieme a noi ma, soprattutto, per un altro «noi» e ha uno dei suoi massimi interpreti, nell’estetica prima ancora che nell’etica, in Aki Kaurismaki. Il più grande regista di film muti (benché parlati) in attività.
Kaurismaki ha in effetti realizzato, a cento anni dalla nascita del cinema, uno fra i più godibili film muti della storia recente: Juha (1999) ma non è questo il punto, bensì che il tema della solidarietà attraversa un po’ tutto il suo cinema. In una scena di Ombre nel paradiso il protagonista, finito in prigione per una sbronza (dopo la morte d’un caro collega) incontra in cella un disoccupato. Giusto il tempo di presentarsi e gli «offre» il posto di lavoro appena liberato. In Ariel un anziano minatore regala l’auto al più giovane collega prima di uccidersi. La miniera è stata chiusa e il ragazzo si consumerebbe nel macero dell’alcolismo; questo gesto di solidarietà mette in moto la storia. In L’altro volto della speranza, invece, la solidarietà che s’instaura tra un ristoratore e un rifugiato siriano (dopo che i due hanno fatto a cazzotti) è il punto di svolta del racconto.
Si potrebbero citare innumerevoli altri film di Kaurismaki in cui il tema della solidarietà è palese, ma il più esemplare è uno dei suoi tre film non ambientati in Finlandia: Miracolo a Le Havre, un film dal tono fiabesco di Miracolo a Milano (altro film sulla solidarietà). Nelle intenzioni di Kaurismaki questo film avrebbe dovuto far parte di una trilogia sui porti ma, per ora, fa tripletta con Vita da Bohème e Ho affittato un killer. Il protagonista di Miracolo a Le Havre è un ex scrittore bohémien che fa il lustrascarpe. Prima solo, poi assieme a tutto un quartiere e a uno sbirro buono, deve aiutare un ragazzino africano, braccato dalla polizia, a raggiungere la madre, clandestina in Inghilterra. Guarda caso la stessa Inghilterra dell’immigrato francese Jan-Pierre Leaud protagonista di Ho affittato un killer epresente anche in questo film. Ciascun personaggio è scritto qui, come in ogni film di Kaurismaki, per essere umano a tutto tondo. Lo stile di Kaurismaki, fatto di inquadrature fisse, d’immagini rarefatte, di tempi dilatati, di dialoghi scarni, di recitazioni stereotipate e d’una dinamica dei campi che dal totale arriva al primo piano, ricorda il vecchio cinema muto. È grazie a questa scrittura registica molto «solida» che nel suo cinema ciascun suo personaggio, buono o cattivo, è un campione d’Umanità, solidale con qualsiasi spettatore.
di Amedeo Liberti
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