Solidarietà e responsabilità in E. Lévinas

I fondamenti della relazione etica in Totalità e infinito



In Totalità e infinito, opera centrale all’interno della produzione filosofica di Emmanuel Lévinas, il tema della solidarietà non appare tratteggiato in modo esplicito alla stregua delle principali tesi che vi trovano luogo e che costituiscono gli assunti sostanziali della proposta speculativa del Filosofo. Eppure, a guardar bene, la solidarietà, come nucleo concettuale e semantico, è senz’altro uno dei fili conduttori a partire dal quale poter avanzare una lettura dell’opera che dal rapporto tra il medesimo e l’altro giunge al concetto di fraternità, trovando nel principio della responsabilità un gancio imprescindibile.

Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità vede la luce nel 1961, dopo circa un quindicennio dalla fine della seconda guerra mondiale e dallo sterminio nazista del popolo ebraico, di cui lo stesso Lévinas, di origini ebraico-lituane, fu vittima, perdendo quasi tutti i suoi congiunti nei campi di concentramento e sperimentando egli stesso gli orrori dello Stalag come prigioniero di guerra dal 1940 al 1945. Punto di partenza del filosofo è la denuncia della filosofia occidentale – leitmotiv di tutta l’architettonica dell’opera nonché fulcro essenziale del suo pensiero – in quanto fautrice della riduzione della metafisica a ontologia, ossia della relazione metafisica, che è sempre relazione con l’essere, a rapporto di assimilazione dell’Altro come ente di possesso e dominio del Medesimo. Secondo Lévinas, sin dalle sue origini l’ontologia si è rivolta all’Altro sfuggendo la sua natura di individuo, l’unica dotata di reale esistenza, attuando la pretesa di coglierlo nella sua generalità e di appiattirlo in un processo di identificazione al Medesimo, ossia all’Io. In questo senso, conoscere l’Altro equivale a impossessarsene e a polverizzarlo in funzione di una Ragione, quella eretta dalla tradizione filosofica occidentale, che ha finito per assorbire e neutralizzare ogni espressione di alterità. L’ontologia, in quanto filosofia prima, non ha fatto che (im)porre tale imperio della Ragione, decretandone il primato e, in parallelo, soffocando la peculiarità dell’ente a favore dell’impersonale essere dell’ente, mettendo a tacere dunque l’Altro nella sua indipendenza, nella sua estraneità, nella sua resistenza.

L’Altro metafisicamente desiderato, tuttavia, non può essere com-preso allo stesso modo del pane che mangio o del Paese che abito o, ancora, del paesaggio che contemplo: l’Altro in quanto oggetto di desiderio metafisico è desiderio senza soddisfazione, è situato al di là della soddisfazione stessa, è distanza, esteriorità, alterità irriducibile. L’atto del desiderare l’Altro non trova coincidenza nel consumo, né tantomeno nella carezza o nella liturgia. L’Altro è esteriorità assoluta, trascendenza, infinità eterogeneità: nella pretesa di inglobarlo all’interno di un sistema totalizzante governato dall’ipseità dell’Io, consiste la tirannia tramandata dalla filosofia occidentale sin già dall’esperienza socratica. Imperialismo ontologico lo definisce Lévinas, intendendo con ciò l’autarchia affermata dall’Io che si mantiene contro l’Altro e che lo annulla nella sua soggettività. La filosofia, dal punto di vista lévinasiano, non sarebbe altro che un’egologia.

Ora, in tale espressione di potenza, l’Io ha posto le condizioni per legittimare il suo esercizio di libertà: libero è l’Io che quando afferma se stesso, riconducendo l’Altro a sé, non fa che annientare l’Altro, negandolo nella sua indipendenza, nella cifra che gli è più propria. La libertà finisce per concretarsi in atto di violenza, comprimendo ogni possibilità di relazione autentica con Altri. In tale prospettiva, la libertà non soltanto subordina a sé la giustizia, ma vi si oppone persino: la giustizia infatti implica degli obblighi nei confronti di un ente che rifiuta di darsi, nei confronti di Altri che in questo senso sarebbe ente per eccellenza. Mentre la libertà garantisce uno spazio di azione illimitato e assoluto, nel quale diviene preponderante l’incontrollato esercizio di potere da parte dell’Io, la giustizia si pone a fondamento della relazione etica, l’unica in grado di accogliere l’Altro e di lasciare che il suo essere sia senza privarlo della sua identità. Essa infatti, contrariamente alla libertà, circoscrive l’agire umano entro criteri che si traducono in obblighi nei riguardi d’Altri. Ed è in ciò che si fa portatrice di una modalità di riferirsi all’Altro, quella solidale, la cui prerogativa è invero quella di rimanere umana, di avvicinarsi sì all’Altro ma senza toccarlo.

“Solidarietà” viene dal latino solidum, che significa moneta. Nel diritto romano arcaico la locuzione in solidum obligari si riferiva all’obbligo assunto da uno o più debitori a sanare il proprio “passivo”, a pagare dunque la somma per la quale ci si fosse impegnati – e per la quale altri si fossero “esposti”. Solidum abbracciava altresì l’area semantica relativa alla compattezza, all’interezza, alla solidità: “integro”, “solido” era dunque, anzitutto giuridicamente, il cittadino capace di assumersi una responsabilità economica nei riguardi di qualcun altro e di assolverla. Lungo il Medioevo, poi, il combattente che si metteva “al soldo” di qualcuno, era il soldato che accettava di prestare servizio militare – quindi di impegnarsi in termini di fiducia e lealtà – in cambio di denaro. Soltanto alla fine del XVIII secolo con la Rivoluzione francese, il concetto di solidarietà cominciò ad affrancarsi dalla sfera giuridico-economica dalla quale era stato in primo luogo connotato, per accostarsi a quello di fraternité ed entrare in un più ampio contesto di significato. Nondimeno, la fratellanza, pur centrando nella sua evoluzione linguistica un campo semantico a carattere prevalentemente etico, continuò a conservare l’originario rimando all’assunzione di responsabilità – dal latino respònsus, participio passato del verbo respòndere, ossia impegnarsi/dare la propria parola/obbligarsi a rispondere a sé stessi e agli altri circa le conseguenze delle proprie azioni – nei confronti degli altri come elemento focale.

Solidarietà è dunque capacità di vincolarsi in una relazione di reciproco sostegno con gli altri, che includa, a ben vedere, la condivisione di interessi, idee, scopi, ma soprattutto di obblighi e responsabilità. In Totalità e infinito, emblema terrestre del legame verso Altri e della responsabilità che all’altro eticamente mi unisce è il volto. Presentazione ed epifania dell’Altro, il volto è ciò che non posso sfuggire nell’incontro con Altri. Non appena si manifesta al mio sguardo, esso ha già sancito il mio limite. È nel volto d’Altri infatti che si inscrive il suo rifiuto a lasciarsi afferrare, la sua intrinseca resistenza alla (mia) presa. Nella sua apparizione, esso si è già opposto alla possibilità del suo possesso, ha già ridimensionato il mio potere, pur senza negarlo: il volto d’Altri non opera violenza sul Medesimo, al contrario è non-violenza per definizione; nel suo limitare l’arbitrario terreno d’azione dell’Io, ri-chiama quest’ultimo e lo innalza alla responsabilità. Lo esorta dunque alla relazione etica, in cui né il Medesimo né l’Altro finiscono per rimanere schiacciati, ma dentro la quale permangono nella pluralità. Il volto attraverso cui l’Altro si presenta è invero varco di accesso all’umanità tutta, incitamento alla bontà, presupposto al superamento della violenza e all’instaurazione della pace. Nella nudità priva di difesa del volto è il terzo che mi parla, ossia l’umanità intera. In particolare, nel volto del povero, della vedova, dello straniero, dunque nel discorso posto dalla miseria, dal dolore, dall’esilio l’Altro si fa comando. Col suo appello – rispetto al quale “io non posso rimanere sordo” – egli mi ordina anzitutto di «non uccidere». L’omicidio, che non coincide col dominio ma con l’annientamento, è infatti possibile solo nei confronti di un ente totalmente indipendente da me, in grado di porsi al di là del mio stesso potere, di dirmi di no. Nella sua assoluta trascendenza, l’Altro è pertanto l’unico ente che posso desiderare di uccidere; ma al contempo, perciò, è anche l’unico capace di inibire tale desiderio.

È in tale distanza tra me e l’Altro, secondo Lévinas, che si innesta la possibilità della fraternità, ossia il fenomeno della solidarietà. L’uguaglianza è possibile solo laddove sussista in prima istanza una separazione costitutiva, che mi obblighi a farmi carico della responsabilità verso l’Altro che mi è assolutamente estraneo. La fratellanza umana non poggia su un sostrato di somiglianza tra gli uomini, bensì su un insieme di unicità poste l’una di fianco all’altra. La relazione etica, anteriore a qualsiasi ontologia, in grado di rendere vera la libertà dell’Io solo a patto che essa si fondi su un principio di giustizia, è allora una relazione asimmetrica: soccorrere e dare sono azioni che assumono un senso reale solo se esercitate in un contesto, quello sociale, che sia disomogeneo e fondato sulla sostanziale alterità dell’Altro. Solidarietà è accettare e accogliere l’identità dell’Altro come diversa dalla mia e rendere lo spazio che intercorre tra me e l’Altro condizione di impegno e di cura.

di Mariagrazia Gambino

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