Le tigri vanno in vacanza: i nostri consigli di lettura per l’estate

Anche le tigri, quando arriva il caldo, fuggono via dalla città. Ma mai senza una valigia in più per tutti i libri che leggeranno in vacanza. Se anche voi siete impegnati a riempire zaini, borse di tele e trolley di tascabili e riviste, quelli che seguono sono libri che abbiamo già letto e che vorremmo consigliarvi per i vostri ozi agostani. Ma ad agosto, a riempire i vostri pomeriggi, ci saranno anche gli articoli del numero 32, a tema La Solidarietà. Perché se è vero che le tigri vanno in vacanza, è anche vero che La Tigre di Carta non si ferma. Ci leggiamo qui, allora. E buon riposo dal branco!

Giulio Spagnol, Charlie Palla di cannone, Mondadori, 132 pagine, 18 euro (Federico Filippo Fagotto)

I bambini arrivano tardi in letteratura (grazie Dickens!). Hanno perciò dovuto accelerare l’ontogenesi, imparando a parlare in fretta. Alice si ripromette di scrivere un libro su di sé, una volta grande. Pascoli s’impegna a tornare fanciullino per riuscirci. Tom e Huck sono alfieri di un paese neonato e senza cultura, l’America, dove «è la cultura a fare gli uomini grandi». Kim e Mowgli piccole reincarnazioni di un gigante millenario, tornato alla minorità sotto il paternalismo inglese. Ogni Paese sceglie letterariamente i suoi frugoletti per fermare il progresso affidandogli armi diverse, a partire dalla crudeltà (Freud). Ma il piccolo Charlie non ha ali per ricordarsi uccello come Peter Pan. Non ha tamburi di latta da usare come oggetti-transizionali (Winnicott). Non sa dir bugie come la Briony di McEwan né andare a zigzag come il Nono di Grossman. Può solo tirar dritto sulla Verità, facendo arma di sé stesso e trasformandosi in palla di cannone. Senza gambe né braccia, porta tutto il sangue alla testa. Emisfero sinistro. Ruba così la lingua agli adulti e la dà in pasto tanto a coetanei incastrati fra onomatopee e filastrocche, quanto a Presidi e Segretari che le hanno ormai mascherate in apoftegmi, cascati in quel “metalinguaggio-degli-adulti” (Barthes) da cui Queneau sperava di salvare la sua Zazie. E, Charlie, cosa fa? Come empie il suo Grande Quaderno, penna alla bocca? Non col rasoio minimalista dei gemellini della Kristof, autodidatti di una lingua artificiale protesi di quella materna. Al contrario, Charlie sfoggia scioglilingue rococò, citazioni mistiche e digressioni alla Tristram fino a intonare quel “monologo collettivo” (Piaget) che stavolta non serve a scivolare nella società, bensì a innalzare il trampolino del suo ultimo tuffo. A prenderlo al volo, come un funambolo, il Capoclasse Giulio Spagnol. Pronto a prendersi nel finale il boomerang di questa palla da demolizione con cui ha finalmente infranto il muro dell’anonimato.

Oliver Sacks, L’isola dei senza colore, Adelphi, 334 pagine, 14 euro (Simone Coletto)

«Il dio Isoahpahu si innamorò di Dokas e comandò a Okonomwaun di farla sua. Di tanto in tanto, Isoahpahu appariva con l’aspetto di Okonomwaun ed aveva rapporti con Dokas, che con lui concepì bambini colpiti dal maskun, mentre generò figli sani con Okonomwaun. Isoahpahu amò anche altre donne di Pingelap ed ebbe da loro altri bambini, affetti da maskun. La “prova” di ciò è che gli acromatopsici evitano la luce ma hanno una visione notturna relativamente buona, proprio come il loro evanescente antenato» (pp. 76-77). Così racconta Oliver Sacks ne L’isola dei senza colore. A metà tra racconto autobiografico e resoconto etnografico, con il rigore medico-scientifico che contraddistingue tutte le sue opere, Sacks ci porta alla scoperta di Pingelap e Ponhpei – due isolette nella profonda Micronesia dove la popolazione è colpita da una cecità cromatica completa ed ereditaria: l’acromatopsia (o maskun nella lingua del luogo) – e di Guam, i cui abitanti chamorro sono devastati dal lytico-bodig, una paralisi progressiva ancora oggi inspiegabile.

Ferruccio Rossi-Landi, Ideologia, ISEDI, 520 pagine, 18 euro (Giuseppe Borri)

«Per ragioni inerenti alla sua stessa costruzione, questo libro è dedicato alla memoria di mia madre, Elvina Bünger Rossi-Landi. Nata gentildonna austro-ungarica, ella percorse senza mai stancarsi una lunghissima strada che la portò dall’ideologia originaria dell’Impero a una concezione egalitaria di tutti i rapporti umani in seno a una umanità unificata, per così dire ricostruendo la compattezza perduta col grande crollo nell’auspicio di una più vasta compattezza futura. La visione raggiunta suoi più tardi anni di un totale rinnovamento degli uomini e ancor di più delle donne – i diritti delle quali seppe rivendicare con passione raziocinante e a volte con stupenda ferocia –, e inoltre la sua fiducia nel valore pratico delle e idee e dei sentimenti, sono esempi politici cui guardo con un rispetto e una gratitudine che vanno ben al di là dell’affetto filiale». Dedica così alla madre, il semiologo Ferruccio Rossi Landi, il libro Ideologia, edito nel 1978. Un’analisi minuziosa e particolareggiata che affronta, si può dire, con stupenda ferocia analitica i vari aspetti dell’ideologia, dal mito alla falsa coscienza, dalla reificazione, al senso comune. Un opera, che attraverso un ampio confronto interdisciplinare, mette a nudo le molteplici forme di narrazione e auto-narrazione sociale.

Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn, Sellerio, 121 pagine, 8 euro (Francesca Fulghesu)

Era un bravo ragazzo. Minatore. Compagno. Anche dirigente del partito. Un po’ matto. Di persona non l’ho conosciuto. Di fama, sì. Sapevo ch’era comunista. Era un bambino vanitoso, l’ho scoperto molte volte che si specchiava nell’unico specchio di casa. Lo vestivano come un principe e gli insegnavano a scrivere e a leggere! Non ho un ricordo preciso di lui. Una notte ho pensato «Ora salto dalla finestra, prendo Tullio e lo bacio». Aveva gli occhi colore di buccia di nocciole, con piccoli spicchi verdi, dentro, colore di erba a maggio. Da quel giorno come usciva di miniera correva da me, per lui ero vino e osteria, cena e pane, ero tutto. Non lo ricordo, che vuole, sono vecchia. Era un parolaio, un arruffapopoli, uno dei peggiori. I fatti di quella notte dicono com’era: più temerario che coraggioso, più pazzo che savio. «A Stoccarda aveva quattro donne». Io in persona, con questi miei occhi, ho visto Tullio Saba tre volte, a Napoli, in tempo di guerra, tutte e tre le volte nei quartieri spagnoli. Fui io a licenziare quell’uomo, nel mese di aprile dell’anno 1950, ricordo perfettamente ogni particolare, ho sempre avuto un’ottima memoria. L’ho sentito, una volta, nel ’51, mi pare, quando cantava con Cesarino Cappelluti. Per me era un montato e non sapeva cantare. Quel guspinese che cantava con Cappelluti nel dopoguerra? Un figurino. Andavo spesso ai suoi comizi, spiegava questioni difficili con parole semplici. Aveva qualcosa di speciale, che attirava le donne come le mosche al miele. T’hanno detto che è morto a Cagliari? In una casa de Su Brugu? Balle! Aveva una risata strana, una risata che veniva dallo stomaco, gorgogliava, ruscello che scorre fra sassi tondi, un suono femminile, e non da donna perbene. Un uomo era al centro della rete sovversiva, pensava per tutti. Era il Saba di cui lei chiede. Se n’è parlato fin troppo quand’era vivo e tu vuoi disseppellirlo? In ogni capitolo una voce, in ogni voce le contraddizione della memoria e di una storia.

Maurizio Maggiani, La memoria e la lotta. Calendario intimo della Repubblica, Feltrinelli, 128 pagine, 12 euro (Jacopo Gibertini)

Consigliare un libro che parla della storia della Repubblica mi fa sentire un insegnante che assegna letture per l’estate. Che noia (a me piaceva, ero un secchione). Come averla vinta su Topolino o la Settimana Enigmistica? Non lo so. Quello che so è che Maurizio Maggiani è un cantastorie. La sua parola è dolce. Racconta come si fa intorno al fuoco, la sera in spiaggia o nel rifugio di montagna. È una storia che parla di partigiani, di Dante Alighieri, di Bakunìn. Racconta di chi lavora, di chi si prende cura, di chi costruisce. È la memoria che trova la strada del racconto. Che si rinnova come memoria di un popolo nel lavoro di uno scrittore che ha almeno un pregio. Di essere uomo di fronte a donne e uomini come lui. Non chiede altro e tu, suo pari, ti godi il racconto. Tende una mano tra generazioni, tra popolo e persona, comunità e individuo. Alla fine trovi anche un poco il coraggio di dirti italiano senza sentirti fascista. Ce ne vuole molto!

Kader Abdolah (pseudonimo di Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani), Scrittura cuneiforme, Iperborea, 352 pagine, 17,50 euro (Sara Nisoli)

Leggere la storia dei potenti è qualcosa che mi affascina da quando mio padre mi regalò Intervista con la storia di Oriana Fallaci. Non ho mai chiesto se l’avesse trovato tra le occasioni del mese o se avesse già capito qualcosa che io capii solo anni dopo. In scrittura cuneiforme la storia dei potenti viene zittita dal racconto autobiografico di Hossein Farahani. La limpidezza con cui la narrazione si svolge attraverso gli occhi di un protagonista che invecchia nello scorrere delle pagine mi ha trattenuta in una lettura lenta, desiderosa e mai soddisfatta. Sarà il formato Iperborea, sarà il mistero della scrittura – per l’appunto cuneiforme – con cui Aga Akbar trascrive i suoi indecifrabili pensieri di sordo su un taccuino, sarà la sensazione di entrare nella storia contemporaneamente più antica e più recente di un paese costantemente mal narrato come l’Iran a fare di questo un libro che vorrei dimenticare e rileggere domani.

Autore