L’arte come esperienza di libertà

La 60a Biennale di Venezia



La 60a Esposizione Internazionale d’Arte, curata da Adriano Pedrosa e prodotta dalla Biennale di Venezia, è incentrata sul tema Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. In almeno quattro lingue (italiano, francese, spagnolo, portoghese), la parola straniero è etimologicamente collegata all’aggettivo strano, e proprio questo (strange) risulta essere il primo significato del termine queer. Ecco che questo nesso linguistico e lessicale diventa immediata opportunità di un ampliamento semantico ed ermeneutico, che conduce a ospitare all’interno dell’esposizione, come suoi principali contenuti, opere e artisti che afferiscono a entrambe le aree tematico-semantiche, e in verità a molte altre ancora. La sessantesima Biennale Arte si presenta infatti come un invito alla lettura dell’esperienza dello straniero vissuta su più livelli, da chi risulta straniero, in senso geografico, linguistico, culturale, a chi si sente straniero, in senso emotivo, interiore, corporeo, relazionale, sociale. Un’edizione della mostra dunque attualissima e coraggiosa, nonché spiccatamente e inevitabilmente politica (del resto, non è forse tutta l’arte intrinsecamente e sempre politica?)



Emergono numerosi temi e declinazioni di questi stessi temi: il discorso postcoloniale e multiculturale, la fenomenologia gender e l’universo LGBTQ+, l’attenzione al green e al digital (sia come forma espressiva che come metodo ecologista), il contrasto alle ideologie in tutte le forme e il trionfo concettuale di una conseguente posizione anti-capitalistica (schiavistica, estrattiva, ecc). Una potente e radicale proposta di decostruzione dell’egemonia occidentale ed eurocentrica, tradizionalmente bianca, eterosessuale, patriarcale e colonialista, a favore dell’emergenza (a questo punto, in tutti i sensi) delle culture e dei modernismi dei sud del mondo, sinora – è questa la tesi dell’intero progetto curatoriale e il motivo della frequente sottolineatura nelle didascalie della prima volta in Biennale di moltissimi degli artisti in mostra – oscurati proprio dal predominio culturale ed estetico delle ideologie di cui sopra. L’onda emotiva, che la fruizione delle opere esposte genera, conduce non solo alla profonda riflessione su tematiche di stringente e assolutamente urgente attualità, ma soprattutto all’insinuarsi di considerazioni inquietanti sulle motivazioni per le quali nel corso di decenni una presunta arte ufficiale occidentale abbia escluso le culture e le produzioni altre. Nelle lunghe ore, e anzi giornate, necessarie a esplorare tutti gli spazi e i padiglioni sia dei Giardini che dell’Arsenale, si insinua infatti lentamente un dubbio, si fa strada a poco a poco un atroce parallelo con passati e (forse) più radicali fenomeni di esclusione, come quello dell’arte degenerata, e comunque un sospetto strisciante che atterrisce e inorridisce sull’essere stati per decenni, se non vittime, senz’altro spettatori impotenti di un’invasiva e tentacolare logica di dominio e sopraffazione.

Alla sessantesima esposizione internazionale d’arte si respira insomma aria di libertà. Libertà di espressione e di opinione, di manifestazione delle proprie disposizioni e della propria quotidianità, libertà di inclusione e di accettazione, libertà da pregiudizi e preconcetti, libertà dalle categorie interpretative di una supposta maggioranza. A margine dei temi accennati, il messaggio di inclusione si va a estendere a tutte le categorie minoritarie o comunque costitutivamente fragili, dalle varie sfaccettature della disabilità umana sino alla difesa, protezione e considerazione del mondo animale. Nonché a una rivalutazione, quasi catartica, del trauma individuale e collettivo della guerra, della fame, della sofferenza, della morte, quando il vero straniero e il vero colpevole non è il migrante straniero in cerca di asilo o protezione, ma è l’invasore straniero giunto a conquistare e distruggere.

Molto forte, quindi, è il tema della de-colonizzazione, che a nostro avviso dovrebbe essere declinato come post-colonialismo. Il senso stesso dell’intera operazione curatoriale incarna una giusta rivolta, finalmente urlata a gran voce in una delle più importanti sedi dell’arte internazionale, contro il dominio coloniale e la mentalità colonialista, contro una più ampia mentalità – evidentemente di matrice occidentale – capitalista e consumista (conseguentemente anti-ecologica), contro le ideologie razziste, classiste ed elitiste, e per converso a favore dell’uguaglianza e della giustizia sociale, a favore della libertà di genere e di forme alternative di sessualità e di espressione dell’affettività, e anche – in maniera propositiva e lungimirante – a favore di forme alternative di famiglia, convivenza, organizzazione sociale e pratiche intergenerazionali di cura. Emarginazione, razzismo, xenofobia, sono qui sostituiti da inclusione e integrazione, anche nelle forme ancora forti e anzi intramontabili della denuncia, unico atto operativo davvero efficace e profondamente politico.



Il colonialismo emerge come il plurisecolare sinonimo dello sfruttamento delle risorse umane e delle risorse materiali, ovvero le pratiche dello schiavismo (simbolo ricorrente: la piantagione) e dell’estrattivismo. Politiche anti-estrattive non solo restituiscono dignità alle civiltà autoctone, indigene e aborigene, in luogo delle razzie compiute in passato, ma sono anche totalmente in linea con le più necessarie e improrogabili politiche di salvaguardia del pianeta e della natura. All’interno delle categorie dell’ecologia e dell’ambientalismo, potremmo far qui rientrare quello che Arne Naess definisce egualitarismo biosferico, ovvero una posizione che attribuisce pari dignità e importanza a tutte le forme di vita, dalla forma umana alla forma animale, da quella vegetale a quella minerale. Ecco che allora il dominio (stavolta nel senso di ambito, e non di egemonia) del naturale vede agire al suo interno l’abbattimento della tradizionale dicotomia natura/cultura, nonché prosperare, si diceva, lo spazio di attenzione riservato agli animali.

Riflessioni sulla guerra e le sue atroci conseguenze, con il relativo e insopprimibile bisogno di pace, scene dal mondo multietnico e queer, pratiche alternative di socialità, comunicazione, espressività, moda, emersione delle categorie spesso sommerse (o, meglio, rimosse) dei lavoratori sfruttati o a rischio di sfruttamento, dei migranti annegati o a rischio di annegamento, delle minoranze emarginate o a rischio di emarginazione, tutto questo attraverso un meticoloso e rigoroso lavoro critico e curatoriale in grado non solo di scandagliare il presente, ma anche di far rivivere il recente passato (come è ben evidente nella differenza tra nucleo contemporaneo e nucleo storico della mostra). È questa una Biennale della libertà, dei diritti, della giustizia, dell’equità, delle minoranze. Dare spazio alle minoranze significa accogliere e includere; anzi, la stessa definizione di minoranza è matematicamente giusta, ma concettualmente debole, e non dovrebbe esistere in questa forma: ogni gruppo sociale e ogni collettività di pensiero ha diritto a esistere ed esprimersi, non importa se minoritario o maggioritario. I numeri sono, in questo caso, solo un contorno, accessorio e ininfluente. È questa una Biennale della differenza. Della differenza tra chi è contro la guerra e chi è a favore degli armamenti, tra chi vuole accogliere i migranti e chi li vuole respingere, tra chi è per la sicurezza del lavoro e la giustizia sociale e chi mette in atto pratiche di sfruttamento e di schiavismo.



Tutto questo è profondamente attuale e autenticamente contemporaneo, essendo tra l’altro perfettamente in parallelo con le tendenze di ricerca di questo scorcio di XXI secolo (Postcolonial studies, Gender studies, Animal studies, etc). Al contrario di ciò che è stato recentemente scritto e sostenuto da più parti, tutto questo è, e, per assoluta autoevidenza, non può non essere, profondamente e autenticamente concreto, nonché concretamente ancorato alla realtà storica e sociale contemporanea, e non slegato da essa. Altra critica mossa di recente alle opere presenti in questa edizione della Biennale d’Arte è quella dell’opera d’arte vissuta e sentita come didascalia della didascalia: secondo questa visione, l’opera sarebbe qualitativamente non elevata e soprattutto comprensibile solo interpretandola alla luce delle didascalie dei curatori, che ne dischiudono il senso o ne spiegano l’origine; l’opera in sé, paradossalmente, diventerebbe nient’altro che una mera appendice della sua stessa descrizione.             Ma non è stata, sin dai suoi primordi, proprio questa la più rischiosa scommessa dell’arte concettuale? Non è stato sempre insito – rischio e sfida, azzardo e consapevole paradosso (quindi: paradosso sì, ma voluto) – nell’arte cosiddetta contemporanea, ossia nelle espressioni artistiche di tutti i modernismi, il suo rischiare di non essere compresa o di essere erroneamente interpretata? Non è ovvio e scontato, per sua stessa costituzione ontologica, per il suo stesso modo di essere, che l’opera d’arte moderna si possa presentare addirittura nelle forme della provocazione o del rompicapo, della sfida che lancia al fruitore per essere interpretata e compresa? Non è, quindi, l’opera d’arte di oggi – moderna o contemporanea che dir si voglia (più di mezzo secolo fa Theodor W. Adorno la definiva moderna, o nuova, o radicale, a seconda dei casi) – già costitutivamente un oggetto aperto alla pluralità potenzialmente infinita delle sue interpretazioni, o, volendo stare all’interpretazione ufficialmente codificata, un prodotto che può necessitare un apparato esplicativo o un supporto filosofico, al fine di coglierne i nessi più irraggiungibili?



L’arte, oggi, per essere esperienza di libertà, deve correre questo rischio, quello di non essere compresa, quello di non poter essere goduta secondo gli schemi concettuali e le categorie interpretative dell’arte classica e della storia dell’arte, di conseguenza quello di poter necessitare una spiegazione, da parte dell’artista, o del critico, o del curatore, o semplicemente una proposta di estensione dei suoi significati. Tutto ciò è dovuto anche al suo potente non rifiutare più i caratteri del brutto, del deforme, dell’antiestetico, del caotico, dell’asimmetrico, del disordinato, del disarmonico, e, al contrario, il suo tendere a farli propri, a inglobarli e a normalizzarli – non solo come contenuto della rappresentazione e quindi come pura figurazione, ma soprattutto costitutivamente e come tecnica stessa di realizzazione dell’opera. L’arte, oggi, per essere esperienza di libertà, deve correre anche questo rischio, quello di incarnare e rappresentare ciò che nessuno vorrebbe vedere, udire, toccare.

di Lorenzo De Donato

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