L’Impero Bizantino, grande fama e conquiste. I suoi territori si estendevano sui Balcani tenendo sotto la sua influenza le popolazioni russe e il controllo del Mediterraneo orientale, ma come è arrivato a questa grandezza? Nei libri di storia se ne è parlato copiosamente, ma Sonia Aggio nel suo libro candidato nella dozzina del Premio Strega 2024 – Nella stanza dell’imperatore, pubblicato da Fazi editore – ce lo racconta con una sfumatura profondamente umana, tramite la voce di un protagonista di queste campagne belliche che hanno portato alla creazione del grande impero così come lo conosciamo.
La voce è quella di Giovanni Zimisce. Partendo dalle origini, con un Giovanni bambino che già con la promessa di partecipare alla guerra una volta raggiunta la giusta età – sogno di ogni bambino dell’Anatolia – con entusiasmo si allena al giorno promesso e, con lo stesso coraggio e impulsività che lo caratterizzerà nei suoi anni da soldato e condottiero, si mette all’inseguimento di Michele, il suo amico d’infanzia, anche lui poco più di un bambino quando viene rapito e ucciso dai predoni. Dopo la tragica perdita in tenera età, il ricordo di Michele accompagna Zimisce fin nell’età adulta e contribuisce a renderlo l’uomo che apporterà molte terre all’impero con le sue conquiste e che infine salirà al trono.
Si tratta di un romanzo storico che ci racconta il lato umano della guerra. Contemporaneamente si inneggia ad essa, alla violenza e al massacro come se fosse un merito di cui andare fieri, accompagnato dall’inevitabilmente orrore che ne segue: il disprezzo e la paura più profonda; ma gli eventi negativi non necessariamente oscurano quelli positivi, come gli amori: di una madre, Sofia, per il figlio Giovanni, che decide di affidare la persona per lei più importante al mondo alla custodia dei fratelli Foca, perché cresca al meglio delle sue potenzialità, avendo visto in lui il grande uomo che sarebbe diventato.
Questo figlio diventa a sua volta marito e padre, quando la sua famiglia è ormai nella presa tenace della morte, Giovanni nonostante l’incombente guerra e necessità di guida in campo di battaglia in quanto comandante delle truppe armene, lascia l’accampamento per raggiungere la sua famiglia arrivando in tempo per dare un ultimo saluto a Costantino, il figlio appena nato, ma non alla moglie Maria che ha già lasciato il mondo terreno.
L’amore di un uomo per il suo impero, il quale dopo aver raggiunto quello che credeva essere per lui il massimo grado di fama e potere continua a guidare i suoi soldati e a portare vittorie alla Città – così viene chiamata Costantinopoli – ma in questa frenesia non si accorge che battaglia dopo battaglia, togliendo centinaia, migliaia di vite in combattimento sta perdendo anche la sua umanità diventando una macchina da guerra. Macchina utilizzata per conquistare il maggior numero di terre per l’impero, ma che non appena diventa d’intralcio al nuovo imperatore – Niceforo Foca – viene allontanata causando una rottura dei suoi rapporti con la Città che ha servito così devotamente e che ha aiutato a riportare alla sua potenza originaria conquistando le terre che non erano più sotto il suo dominio. Ma forse non è stato questo il tradimento più forte, ma quello perpetuato dalle persone in cui Zimisce riponeva piena fiducia. Il tutto nel momento per lui più inaspettato, sentendosi quindi tradito e confuso. Nonostante l’accaduto, questo non lo porta ad arrendersi a quel destino crudele che sembra avergli portato via tutto, ma continua a lottare come il guerriero che è.
Un primo segnale di questa perdita graduale d’umanità viene riscontrata nell’eccessiva crudeltà che Zimisce riserba ai nemici e che fa dubitare i propri soldati della sua guida. Succede a Adana dove il comandante ordina l’uccisione dei nemici anche se essi si sono arresi con bandiera bianca, rompendo così una delle indiscutibili norme belliche: allo sventolare di quella bandiera da parte dei nemici, che segna la loro resa, si cessa il combattimento e gli sconfitti vengono fatti prigionieri. Zimisce invece li stermina perché “necessario” per non sprecare soldati ed energie a raccogliere i prigionieri e scortarli al campo, preferendo impiegare le sue truppe nella conquista delle prossime città riportando anche quelle sotto il dominio bizantino. È una scelta strategica, si dice Zimisce, seguendo così l’insegnamento Foca: freddo e calcolatore.
Con l’intero esercito a disposizione e ormai nessuna resistenza nemica, le truppe armene saccheggiano la città deserta: i civili rimasti, anziani, donne e bambini in lacrime sono già fuggiti nel mezzo della notte per avere salva la vita e cercare riparo nella prossima città perché gli invasori non hanno accettato la loro resa e, anzi, hanno sterminato le loro ultime difese e avendo ignorato la loro resa si sono mostrati tanto imprevedibili da chiedersi cosa avrebbero potuto fare se fossero rimasti. E così nel mezzo della notte, in preda alla paura, tra l’ululato dei lupi e i rumori della notte, si dirigono con quel poco di speranza che ancora risiede nel loro cuore verso la prossima città.
Dopo aver dato tutto all’impero, Zimisce viene tradito dall’uomo che considerava come un padre, Niceforo Foca, per gelosia. Esiliato per anni, quando l’impero necessita nuovamente del suo aiuto lui è pronto all’azione per un senso di dovere nei confronti della Città ma soprattutto per amore, un sentimento che ha guidato la sua vita parallelamente alla bramosia di vittoria. Amore per il suo impero tradito dallo stesso basileus che ha voltato le spalle a lui, e amore per la sua futura sposa Teofano e per i suoi figli che, nonostante non siano del suo stesso sangue, si impegna a proteggere perché sono i veri eredi al trono, che reclameranno raggiunta l’età consona alla carica.
La salvezza del regno si riduce a un unico atto: Giovanni deve uccidere un uomo, azione fatta mille e più volte in battaglia e che gli ha portato fama, gloria e ricchezze. Ma questo non è un uomo qualunque, perché oltre ad essere l’Imperatore d’Oriente, è lo zio che lui considerava come un padre, che lo ha preso sotto la sua protezione sin da bambino, quando i Curcuas, parenti del ramo paterno, lo deridevano e consideravano buono a nulla. Niceforo Foca lo ha cresciuto come un figlio, accanto al suo primogenito Costantino con cui Giovanni ha condiviso l’infanzia e l’educazione, fino a quando non hanno raggiunto età sufficiente per poter partecipare alla guerra in cui Costantino viene fatto prigioniero dai nemici e più tardi ucciso. Niceforo, quindi, ha prima riservato a Giovanni il riguardo che si deve a un figlio, e poi lo ha tradito per mera gelosia. Nonostante questo, per Zimisce togliergli la vita, anche se non era più il “padre” che conosceva, è contemporaneamente l’atto più difficile da fare e quello più semplice di tutti, talmente tante volte ha compiuto lo stesso gesto.
Zimisce, fedele alla sua famiglia, segue le orme che gli sono state predestinate: suo padre ha servito in passato nelle armate imperiali e così ci si aspetta dal primogenito, ma la fedeltà di Giovanni all’impero prevale facendolo andare contro quel legame familiare indissolubile, contro il “padre” Foca; non si limita ad un ruolo nelle truppe imperiali, raggiunge le più alte cariche ambite da qualsiasi soldato: strategos degli Anatolici e poi domestikos d’Oriente, per diventare egli stesso basileus ton Romaion, Imperatore romano d’Oriente. E così si carica sulle spalle l’onere e l’onore di guidare e proteggere la cosa per lui più importante, come gli è stato preannunciato dalle tre streghe, figure misteriose che gli sono apparse ripetutamente nel corso della sua vita per condurlo sulla giusta strada che, passo dopo passo, lo porterà a condurre la potenza orientale.
«Il nostro dovere nei confronti dell’Impero» sin da bambino gli è stato ripetuto come un mantra durante l’educazione ricevuta sotto la protezione Foca: nulla è più importante del voto che sceglie di prendere e onorare per l’interezza della sua vita. Un’istruzione ben diversa da quella che aveva ricevuto fin quando era sotto l’ala paterna: più impulsiva e a tratti sconsiderata, ma piena di coraggio; quella Foca era più cauta, si basava sulla strategia e sullo studio della storia passata, dei loro predecessori, per imparare a comportarsi con maggiore saggezza in futuro. Giovanni si porta dietro entrambi gli insegnamenti ed è questo che lo rende un grande soldato e comandante, che lo aiuta a conquistare terre per l’impero: un animo focoso con la sua tenacia ed impulsività, in equilibrio con la mente fredda e calcolatrice utile nell’abilità strategica.
Dopo aver coronato il sogno di ogni uomo, essere designato a guida del grande Impero Romano d’Oriente, Zimisce non è appagato né sereno come si potrebbe pensare, costantemente combattuto nell’animo come lo è stato sul campo di battaglia, tormentato dai sensi di colpa: in primis per il modo in cui ha conquistato la corona, ma non sono da meno la rabbia e la vergogna che ne sono seguite; per gli inganni e le bugie che ha dovuto intessere, anche contro le persone a lui più vicine come Teofano; per le vite che ha dovuto spezzare, compresa quella del “padre” Niceforo. Tutti ricordi (o tormenti?) che lo accompagneranno fino al momento ultimo in cui anche questo imperatore esalerà il suo ultimo respiro.
di Eleonora Motta