Invernale è intenso grazie alle vette che non si concede


«La vita che non sa fare altro procede. Ciò che avviene intimamente in lui, inteso come soma, comincia a manifestarsi all’esterno. Un modo più circospetto di camminare, una cautela nel gesto, un’attenzione a cosa che altri non vedono». La malattia. Il corpo. L’affetto. Il dolore. A parlare è un figlio che assiste al progressivo deperimento del padre a causa di un linfosarcoma. Lo stile è puntuale, il narratore racconta con sincerità e quasi con compostezza. Sì, eppure. Eppure si sente una tristezza velata, una sofferenza ormai metabolizzata di chi evoca qualcuno che si è amato e che ormai non c’è. E più la memoria filtra, più quel non detto, che la spontaneità esclude, esonda nella nostra immaginazione. Invernale è un romanzo autobiografico di Dario Voltolini pubblicato per La nave di Teseo a febbraio di quest’anno e presentato da Sandro Veronesi nella dozzina del Premio Strega 2024:


«Ci sono libri così belli da sbalordire. Cos’hanno in più degli altri? Magari l’autore ha già scritto altri libri molto belli, è una figura nota, apprezzata, i suoi punti di forza sono ben conosciuti e la qualità della sua scrittura non dovrebbe sorprendere nessuno: eppure in quei libri lo fa, sorprende, sbalordisce. Perché? Perché tutt’a un tratto sembra che quell’autore sia nato per scrivere quel determinato libro, e che tutti gli altri che ha scritto prima non siano stati altro che un passo per arrivare a scriverlo? Io non so rispondere a queste domande, ma so che ogni volta che apro un libro, ogni santa volta, in cuor mio spero che si tratti di uno di quei libri, così da ritrovarmi ancora una volta sbalordito per la bellezza e confuso in questo mistero. “Invernale” di Dario Voltolini è uno di quei libri. La bravura di Voltolini è nota. La luminosità della sua scrittura è nota. La genialità del suo modo di raccontare il mondo è nota. Eppure nessuno dei suoi libri precedenti mi aveva sbalordito come questo – ed è per condividere il mio sbalordimento che ho deciso di presentarlo per l’edizione 2024 del Premio Strega».


«Sembra che quell’autore sia nato per scrivere quel determinato libro» ed è a tutti gli effetti vero. Voltolini dichiara di farsi portatore di una concezione della scrittura come condivisione, tanto che appunto lo stile è estremamente piano, anzi, nella prima parte del libro quasi asciutto. Non è velleità documentaria o afflato patetico quello che pare muovere la penna dell’autore, bensì una sincera volontà di dipanare a distanza di anni uno degli eventi probabilmente più sofferti della sua vita.

Invernale fa intimamente parte della storia di Voltolini e a ciò si deve la naturalezza con cui è scritto, la stessa con cui si potrebbe raccontare un evento della nostra vita che conosciamo e che campeggia nella nostra memoria come parte di noi. Per narrativizzare questo, però, ci vuole tempo e Voltolini pare abbia aspettato il momento esatto per scrivere, in cui il ricordo era ancora vivido, ma distante, e lui era pronto a oggettivare la perdita per condividerla.

Il titolo “Invernale” si deve in parte a una ragione compositiva. Di Voltolini è stato pubblicato nel 2001 per Einaudi Primaverile (uomini nudi al testo) e nel 2015 per Booksprint Autunnale. È un ciclo vivaldiano che trae radice dalle impressioni dello scrittore rispetto a queste stagioni, tanto che in una presentazione del suo libro ha scherzato sul fatto che Estivo non sia ancora uscito perché, se l’estate è la stagione della maturità, lui non sente ancora di averla pienamente raggiunta. Ritornando a Invernale, il romanzo nasce perciò dalla domanda: “Che cosa nella mia vita è inverno?”.

La risposta dell’autore è una sensazione di freddo in pieno luglio che, ventenne, provò quando suo padre morì in ambulanza a soli cinquant’anni. È questo il nucleo originario della narrazione, il prima serve a equipaggiare il lettore con gli elementi di contesto necessari a interiorizzare l’evento. La storia compositiva è particolare: Voltolini ha dichiarato che si è imposto di scrivere Invernale in poco più di un mese e mezzo, fra il 2 giugno, data del compleanno del padre, e il 24 luglio, quarantesimo anniversario della sua morte. Questo esalta ancora una volta il grado di intimità che l’autore ha maturato nel concepimento del romanzo.

Invernale ha una trama semplicissima. Voltolini colloca esplicitamente il libro nel genere di romanzo autobiografico in quanto fa riferimento alla sua storia personale e quindi a quella di suo padre Gino. Di lui si ritrovano infatti tutte le reali coordinate di vita, dall’effettiva professione di macellaio, all’autenticità dell’odissea medica, comprendendo anche la fervente passione per il calcio (trasmessa poi a Voltolini stesso, che ha giocato nella Nazionale italiana scrittori).

Il libro è suddivisibile in una prima parte legata al lavoro del padre e in una seconda che ruota attorno al linfosarcoma che fiacca progressivamente il corpo paterno. Il padre, filtrato dagli occhi del figlio, appare potente, quasi invincibile. Il suo mestiere è un’arte che egli rivendica con fierezza e il banco del mercato è il suo personalissimo palcoscenico. Attraverso la carne, egli si guadagna l’onestà di chi fa il lavoro sporco per garantirla agli altri che la mangiano senza doversi interfacciare con quello che effettivamente vuol dire “mangiare carne”, ossia sventrare un animale.

È un discorso estremamente attuale: il risveglio di coscienza su quello che vuol dire quella carne che egli vende, alludendo a un dietro le quinte che la gente al mercato non reggerebbe. L’anello di congiunzione con la seconda parte è un taglio sul pollice che sfugge a Gino e la conseguente infezione che minaccia di amputargli il dito. Questo non avviene, ma è il primo momento in cui la carne di Gino si sovrappone per un attimo a quella degli animali, essendo tagliata a sua volta. L’episodio è preambolo del linfosarcoma diagnosticato successivamente che gli sarà fatale. La morte del padre è solo prefigurata, non si tratta di una prolessi. È un libro di corrispondenze quasi inverosimili, che però in quanto tali pertengono solo all’imprevedibilità della vita reale.

La narrazione stessa si basa su un movimento a spirale progressivo che segue l’evolversi della malattia, proprio a partire analogicamente dal corpo degli animali che egli stesso da macellaio spaccava. La transizione è uniforme in quanto si mette in scena una sorta di grottesco contrappasso dantesco: così come in vita egli si è addentrato nelle carni altrui, ora la sua di carne viene sventrata dalla malattia. È una corrispondenza talmente beffarda che getta una luce di amarezza nella considerazione della natura di romanzo effettivamente autobiografico. Anche il tema calcistico è rilevante. La passione già menzionata del calcio accompagnerà il padre (e il figlio) tutta la vita e all’ascesa della Nazionale calcistica italiana – siamo durante i Mondiali dell’82 – corrisponde il movimento inverso del tracollo della malattia.

La memoria non è mai un’immagine immutabile di quello che è concretamente avvenuto nel passato, ma si basa sulla possibilità di riaprire un tempo concluso e rielaborarlo. Proiettiamo noi stessi nel nostro passato e la considerazione che un ritorno diretto a quel tempo non sia più attuabile genera nostalgia, proprio alla luce della distanza che ci separa da esso. In Invernale troviamo questo esatto meccanismo: la trama è lineare e la voce narrante è in tranquillo controllo della narrazione, ma quello che rende particolare il romanzo è il fatto che dietro una prova stilistica così pulita traspaia comunque una tensione, un accoramento, un pulpito segnato dalla perdita, dall’affetto per chi si amava e ora non c’è più. Il filtro della memoria di Voltolini avvolge una narrazione che parla di carne, di malattia, di deperimento.

È un libro che, oltre che sulla materialità (e caducità) del corpo, si sofferma sulla difficoltà di certi congedi e sull’impegno della ricostruzione a distanza di anni da un ricordo. La voce narrante mantiene infatti la dignità di chi ormai ha metabolizzato, è cresciuto e in qualche modo è andato oltre: l’autore riconosce ciò che è passato come caro e sofferto, ma, appunto, pertinente al passato. È questa compostezza a fare sì che chi parla riesca ad arrivare direttamente all’essenziale della narrazione senza strabordare in patetismi, perché per Voltolini la scrittura è primariamente condivisione e la sua ricezione è vincolata dalla necessità di aver rielaborato il trauma prima di restituirlo alle pagine. I primi capitoli infatti sono pressoché scevri di aggettivi e la componente emotiva viene ridotta ai minimi termini.

Il ricordo è stato razionalmente e limpidamente riproposto, eppure le ultime pagine sono strazianti, proprio perché trattenute dal filtro della narrativizzazione. Con il lettore, Voltolini ripercorre la spirale di sofferenza e morte annunciata del padre e più si addentra nella narrazione più fatica a trattenere quella stessa compassione che pure riesce in qualche modo ad arginare perché, in fondo, lontana, mediata dalla scrittura. La voce contiene e placa, ma si sente che dietro si cela un baratro di sofferenza atroce. È questo contrasto netto, fra il dolore inscritto nei fatti e la spontaneità con cui il narratore racconta tramite il filtro della memoria a trasmettere un immediato coinvolgimento.

Ci vuole coraggio. Ci vuole cuore. Nessun patetismo, quello che emerge è il trasporto di chi racconta di una persona che nella propria vita è stata fondamentale, ma comunque anche il riserbo di chi protegge questo suo privato e lo rielabora, consegnando quindi agli altri solo un distillato di quello che è stato, nonché appunto un ricordo. Il risultato è perfettamente ordinato, chiaro, pulito, eppure rimane un tono ovattato di fondo che non dice, che plana sopra quanto successo senza addentrarsi. È una narrazione pudica ed equilibrata, eppure intensissima proprio per le vette che non si concede.

di Chiara Del Corno

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