Chi dice e chi tace, il fraintendimento come una spinta anti-morte

I romanzi si reggono anche su ritagli e pretesti, Chiara Valerio lo sa. Ecco perché la struttura apparentemente noir di Chi dice e chi tace non deve trarre in inganno. La scomparsa di una donna imprendibile, Vittoria, diventa il motivo per cui le persone intorno a lei iniziano a chiedersi chi fosse realmente, e a farsi domande su di sé. È un’indagine sulle relazioni e le relative dinamiche di potere, anche e soprattutto tra classi sociali differenti; l’immersione nella provincia, formicaio operoso ma a rischio marcescenza. I punti di fuga distribuiti in orizzontale e su onde mutevoli: l’acqua, il mare, il non sapere qualcosa di importante.

È possibile ottenere la verità nelle relazioni umane? Ed è certo che si debba chiamarla così?

Qualcuno lo definisce un incidente, altri come un evento avvenuto in circostanze sospette. Sta di fatto che Vittoria viene ritrovata morta nella vasca da bagno di casa sua, in una giornata estiva. L’autopsia non lascia ombra di dubbio, è morta per annegamento pur essendo una nuotatrice provetta. Lea Russo, la vera protagonista del romanzo, viene a saperlo da una chiamata di Mara, la donna che vive con Vittoria, molto più giovane di lei.

Chi dice e chi tace di Valerio, copertina

Ci troviamo nel 1993 a Scauri, uno dei paesi più a Sud del Lazio e poco distante da Formia, lungo la Via Appia. Paese di provincia e in quanto tale facente parte della periferia generale del mondo civilizzato, senza un centro. Paese di lidi sul lungomare, piccoli quartieri e ville borghesi, dove «Tutti sapevamo tutto di tutti. Tutti ci accontentavamo di ciò che avevamo davanti agli occhi. [..] Tutti facevamo sempre la stessa cosa. Era facile trovarsi, e facilissimo evitarsi»¹.

Paese di tanti geometri e pochi architetti, dove le case rivelano l’assenza di un piano regolatore e «le abitazioni non vanno oltre il secondo piano. E questo dona al paese una grazia incongrua»². L’impronta autobiografica è evidente poiché la stessa Valerio è nata e cresciuta a Scauri. I “close-up” sulla vita quotidiana, sulle piazze, sulle suore e sulle bambine di Lea che guardano “Pomi D’ottone e Manici di scopa”, rivelano un’intenzione che sa di ritorno, familiare e rassicurante, proprio come risulta essere Angela Lansbury a cavallo di una scopa mentre ci libera dai nazisti.

Contrapposta ad immagini familiari risuona la stagnazione degli ambienti provinciali, l’attenzione spasmodica allo scandalo del giorno, in questo caso un cadavere ritrovato in una vasca da bagno. La somma di tutti questi fattori consegnano fin dalle prime pagine gli elementi fondamentali della narrazione: un mistero su una donna che ­ ‒ secondo leggi non scritte ‒ ha vissuto in modo misterioso, la distanza siderale tra la provincia e Roma ‒ tra il “popolo” e l’alta borghesia­ ‒, l’affaccio dei primi laureati, Lea in primis, in una nuova dimensione della società che progredisce per generazioni oltre la fattualità e la praticità dell’esistenza, sull’avvento di quello che poi sarebbe stato il Berlusconismo.

Lea, voce narrante, ha fatto avanti e indietro da Scauri a Roma per anni, per diventare avvocata. Sta con Luigi dai tempi dell’università, un militare che le piaceva³, hanno due figlie, un cane e non sono sposati. Il cane, che si chiama Madama, diventa occasione del primo incontro tra Lea e Vittoria, nel 1974. Una delle ville fatiscenti della zona un tempo più borghese di Scauri viene abitata da Vittoria, appena trasferitasi dalla grande città, in cerca di un’altra vita. Una donna di età matura ma indefinibile, con un qualcosa di alieno, un’aura magnetica e accentratrice, riservata ma seduttiva. Con lei convive Mara, legate da un supposto legame di parentela che Lea ipotizza come un rapporto madre-figlia, prima di rendersi conto che il sottotesto tra loro non sia strettamente amichevole, di certo non definito dal sangue.

La trama prosegue svelando con ritmo regolare sfaccettature inedite di Vittoria: conosciuta da tutti come l’assistente del farmacista, la si ritrova in aneddoti che la dipingono come una medica ostetrica; ha il brevetto per guidare una barca, grande giocatrice a carte ‒ esperta di piante e dei loro poteri curativi, dove il limite tra il bene e il male è dato dalla dose. Gradualmente, la sua figura assume una carica prepotente ed enigmatica. Una donna che non si scompone, immersa in un rituale quotidiano di mare, lavoro e lunghe passeggiate. Nessuno sa veramente da dove provenga, quale sia stata la sua vita prima di Scauri e il motivo per cui Mara l’abbia seguita a vivere con lei, in una grande casa adibita a pensione per cani.

L’ambiguità coinvolge, in modo direttamente proporzionale fa fare un passo indietro, per timore o reticenza. Eppure il paese la adora, anche se tiene l’I Ching sotto braccio e si presenta in chiesa solo in occasione del Natale e della Pasqua. Tutto quello che Lea può sapere o sospettare nel corso del tempo di Vittoria lo apprende da lei, dai gesti e dalle conversazioni che ha con altre persone. Una specie di sciamana che unisce la scienza alle pozioni magiche, la sapienza terrena e quella celeste, che ammalia chiunque senza il minimo sforzo. È evidente, nonostante il suo eclettismo generale, che non vuole essere simbolo di nulla.

Le persone sono incuriosite laddove si pone un velo a una comprensione chiara. Non ci si scosta di molto da una visione totalmente erotica della trama dicendo che la seduzione portata da Vittoria è involontaria nella sua leggerezza; unendo la sfera della sua sessualità all’immagine promiscua che proietta, ci sono respiri che riportano a un’aura salvifica del Teorema pasoliniano. Il lato deflagrante, poi, sta nel portare una carica di piacere, non tradizionale e non procreativa, nel contesto sociale di Scauri. Un contesto nel quale anche Lea ha seguito la strada “classica”, vivendo con Luigi e crescendo due figlie.

Il momento determinante nella trama corrisponde ai pensieri che Lea inizia a farsi su di sé, nonostante la sua intenzione iniziale sia quella di chiarire solo il perché di questa morte. Si dice che forse Vittoria le è sempre piaciuta, che Mara è gelosa di lei per un motivo. Ripercorre i momenti di prossimità avuti con lei e si imbarazza al pensiero di averla sempre trovata attraente senza rendersene conto. Sa di essere innamorata di Luigi ma sa anche che Vittoria è un suo capriccio, una sua tensione, anche dopo la sua morte. Che, tornando indietro, avrebbe potuto fare sua questa capacità di agire, rispetto al solo pensare di poterlo fare.

Diventa lampante che la dipartita o, più in generale, l’assenza di una persona, non impedisce mai di scatenare congetture sul ruolo e sulle dinamiche dell’interesse che nutriamo verso di lei. Anzi, significa poter creare un sistema di valori senza nemmeno il fastidio del contradditorio. Se ci sono domande a cui non può esserci risposta, si fa strada la consapevolezza che nelle ossessioni e nella patologia di una interazione amorosa il nostro amore è unicamente nostro, ci si risponde da soli come in una lettera tornata al mittente. E si è soddisfatti ma mai abbastanza, perché l’esigenza è quella di seppellire le persone amate con una fame inesauribile di corrispondenze. Anche quando sono già morte. Degli altri, in questo genere di interazione, ci importa ben poco.

Vittoria non è una donna di potere solo perché possiede le qualità di chi non ha bisogno di faticare per garantirsi la simpatia e l’amore altrui. Vittoria è una donna ricca, in una dimensione post-denaro, una persona che ha raggiunto gran parte degli obiettivi che si era prefigurata nella vita ben prima di piombare a Scauri. E in questo essere ricca c’è tutto quello che uno scaurese non può comprendere, quel genere di “leggerezza senza sforzo” che sembra derivare unicamente da una somma di privilegi.

Più in profondità, si cela in Vittoria il desiderio di regalare la leggerezza che lei non ha mai avuto per sé, rincorrendosi senza incontrarsi mai, ritenendo che il benessere e il malessere dipendano unicamente dall’esterno. Ed è qui che si presenta l’altro lato della fascinazione: l’inquietudine del controllo. Vittoria sa di esercitare grandi forme di potere sugli altri e il suo amore è una macchina controllante. Lei può permettersi di essere sempre diversa da sé , in un flusso che elude qualsiasi posizione fissa, anche perché gli altri sono soggiogati dallo stare fermi per decifrarla. Per lei la vita interiore è un pretesto per trattare male le altre persone e anche se stessi, quindi vale sempre la pena fare “la ruota del pavone” e lanciarsi in risate che iniziano con tono basso e finiscono acute. In tanti piccoli dettagli si intravede il riferimento allo charme dei personaggi femminili di Simenon.

Valerio, in occasione della presentazione del romanzo al Salone del Libro a Torino, intervistata da Elena Stancanelli, sottolinea che «l’unica differenza che distingue le persone è la classe sociale» e, riportandosi a una citazione da lei consumata di Lessico Famigliare, la cultura è un vestito e non ha nessuna attinenza con il sangue ‒ nello stesso modo in cui le relazioni e l’appartenenza ad un luogo o ad un sentimento non sono stabiliti da esso.

Che si parli di classi sociali o di relazioni, il tema rimane sempre il Potere, ovvero la possibilità maggiore delle classi privilegiate di evolversi ed essere diverse da se stesse , perché ‒ in qualsiasi senso lo si voglia intendere ‒ se lo possono permettere. Valerio sa che il suo punto di vista come autrice si accolla anche il suo privilegio, in quanto donna bianca e di istruzione maggiore. La scuola pubblica, in generale l’istruzione, è il luogo dove la differenza delle classi sociali dovrebbe azzerarsi, in uno spazio sicuro e scevro da giudizi di sorta.

L’impostazione “orizzontale” di Chi dice e chi tace, partendo dai legami che si stabiliscono al suo interno, si rafforza ulteriormente nell’orizzonte del mare, che accompagna tutti gli eventi. Il mare, più avventuroso della montagna perché non ha una vetta a cui fare riferimento, invita a una fatica ondosa, la fatica che ha fatto vincere i romanzi dell’Ottocento – dice Valerio durante l’intervista – perché avventurosi giorno per giorno nello spostamento attivo dei personaggi e delle trame; nello spostarsi da dove si è senza pensare di essere arrivati da un’altra parte.

Lo spostamento, che può essere declinato nell’accoglienza di nuove idee su di sé e sul mondo, è la forza rivoluzionaria che salva Lea e gli altri personaggi dalla marcescenza delle loro certezze dopo la morte di Vittoria. Se manca ancora la capacità di agire e di rendere visibile ciò che è verità assoluta per qualcuno, nel frattempo il mondo intorno è già cambiato, orientato sul mare. La verità, quindi, non significa cestinare o cancellare quello che non crediamo più certo o vero per noi, significa saper lasciare spazio a un nuovo ordine in aggiunta a quello pre-esistente, un ordine che dimostri ‒ in mancanza di razionalità ‒ una forma di coerenza, anche nei confronti del prossimo “spostamento”, senza poterlo prevedere.

Forse verità è la parola che utilizziamo impropriamente per dare un peso maggiore ai nostri spostamenti nel tempo e nello spazio, nei nostri “spostamenti” relazionali. In questi termini si evince una necessità generale di sapere molto più forte della necessità di stringere la verità, o di quella che consideriamo tale. Siamo assoggettati al contatto, allo scambio, alla conferma della nostra esistenza attraverso gli altri. Questo non significa voler avere la prova di una verità assoluta nelle nostre interazioni personali, significa esistere nei cinque sensi e nei nostri pensieri, nel nostro desiderio di conoscenza empirica. Perché voler sapere vuol dire essere prima di tutto curiosi, avere una postura verso il nuovo, il presente e il futuro. E se per verità possiamo intendere tutto ciò che continua e si muove allora siamo curiosi e molto vicini alla verità.

Il voler sapere a tutti i costi ogni perchè sulla vita di Vittoria e sul suo mondo interiore è per Lea il riflesso della perdita, un tentativo di controllare le sue mosse post-mortem, di tirare le fila. Non ha niente a che fare con la verità né con la curiosità, ma con un’esigenza ossessiva, con lo stesso controllo che Vittoria operava sugli altri. Di ossessioni che portano verità ne esistono poche, e non è questo il caso.

Valerio, in conclusione al suo intervento al SalTo, taglia corto e dice: «Quando ti definisci la morte ti coglie.  Vittoria è l’anti-morte che ti coglie». E rispondendo ad una domanda sulla letteratura che è tutta esatta e tutta mentita⁵: «Il fraintendimento è la parola chiave, si campa nel fraintendimento. Si sta entrando nel capitalismo dell’accettazione delle etichette necessarie per definirsi, ed è un fattore di consumo. Siamo sulla soglia di un cambiamento semantico grandissimo – vogliamo essere definiti con precisione dalle parole.»

In campo linguistico e semantico, quindi, non è sbagliato e impossibile declinare lo spostamento – assunto come una spinta di verità – in una possibilità naturale di fraintendimento, cioè, nello spostarsi da una definizione senza pensare di volersi identificare subito in un’altra, in una possibilità di uno spazio neutro e con meno certezze, ma non per questo negativo o confusionario. Vittoria, come l’acqua e come la fluidità che caratterizza tutto ciò che è vivo, rappresentano un antidoto alla morte, nello stesso modo in cui il fraintendimento può sviare da qualche “verità” insostenibile e farci vivere nella leggerezza che tanto invidiamo, ma senza manie di controllo.

Il fraintendimento, di fronte al muro dell’assenza e della morte, può diventare una spinta vitale che ci solleva verso nuovi ordini di proporzione e di grandezza, e quindi, verso quella verità che non ha bisogno di seppellire il nostro oggetto del desiderio. Bisogna accettare di poter essere fraintesi e di fraintendere, perché è una conseguenza naturale e possibile dell’essere tra qui e lì.

Chi dice e chi tace è sicuramente una storia di suore, di lesbiche, di una sfida provocatoria alla morte e al linguaggio, ma non è un romanzo d’amore. È un romanzo sulla curiosità, sul tormento, sul femminile vicinissimo ma inafferrabile, sulle verità invisibili che studiano codici migliori per rivelarsi all’esterno, mentre lo spazio e il tempo si evolvono impietosi.

Chiara Valerio, classe 1978, rappresenta ad oggi una delle voci più promettenti della saggistica e della narrativa italiana. Scrittrice, curatrice editoriale, direttrice artistica, conduttrice radiofonica e amica di Michela Murgia. (Per i detrattori o ammiratori, Valerio non è Murgia e non lo sarà mai. Io dico che come avevamo bisogno di Murgia ora abbiamo bisogno di Valerio, esattamente per quella che è.) Il suo ultimo romanzo, “Chi dice e chi tace”, edito da Sellerio Editore, è candidato tra i finalisti del Premio Strega.

Note

  1. Chiara Valerio, “Chi dice e chi tace”, Sellerio Editore, 2024, p.43
  2. Ivi, p.41
  3. Ivi, p.18
  4. Cfr. Natalia Ginzburg, “Lessico Famigliare”, Einaudi, 2014
  5. Cfr. Giorgio Manganelli, “Letteratura come menzogna”, Adelphi, 2004

di Sara Cerati

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