Chi dice e chi tace è un romanzo sul desiderio

La letteratura è un fatto intimo, dove intimo è da intendersi come superlativo di interno e proprio perché è interno alle volte si ritrova a raccontare viaggi interiori: gite al faro che diventano cornici fattuali per permettere al testo di accogliere pensieri e riflessioni; madeleine mangiate che permettono reminiscenze di un infanzia che sembra ormai lontana. Chi dice e chi tace di Chiara Valerio, candidato al Premio Strega 2024, è un viaggio intimo dentro se stessi e dentro una comunità. Ogni narrazione intima esige però un luogo personale e Scauri è il paese in cui Chiara Valerio è cresciuta. «Affacciato sul Tirreno, è l’ultimo paese del Lazio, un posto né bello né brutto, con una sua grazie scomposta ».

È Scauri uno dei protagonisti di Chi dice e chi tace poiché Valerio, come precisa in un’intervista a Marino Sinibaldi, ha deciso di fare un omaggio al paese perché forse sta invecchiando e diventando sentimentale, ma soprattutto per fornire ai suoi nipoti che proprio a Scauri stanno crescendo una narrazione differente del paese del basso Lazio; inoltre Scauri diventa anche un mezzo per rendere grazie ai genitori che proprio a Scauri sono «cresciuti senza diventare sgarbati e senza perdere la curiosità per il resto del mondo».

Crescere senza diventare sgarbati, ecco un modo incantevole per descrivere chi grazie ai propri mezzi economici è riuscito a sopravvivere alla provincia, infatti la provincia uccide, fa tacere e ricopre ciò che la circonda di silenzi; opporsi alla provincia dunque significa cercare, domandarsi, interrogarsi costantemente, muoversi e parlare; tuttavia bisogna ricordare che non a tutti tale movimento è permesso, a volte la provincia paralizza pur non volendo fermarsi, ti costringe, ma la generazione dei genitori di Chiara Valerio è stata forse l’ultima generazione in cui esistevano delle possibilità aperte, o forse c’era l’illusione della possibilità, al contrario di oggi in cui anche l’illusione viene negata.


Non è casuale dunque che la protagonista del romanzo Chi dice e chi tace, Lea, appartenga proprio a quella generazione, la generazione che ha fatto la rivoluzione, che ha ottenuto il divorzio, che ha ottenuto le pensioni per le casalinghe e il diritto all’aborto senza che nei consultori fossero presenti i gruppi pro vita.

Ma andiamo con ordine, torniamo a Scauri. L’espressione ossimorica «grazia scomposta» è perfetta per descrivere questo paese in cui negli anni ’70 gli architetti non hanno fatto danni edilizi perché a Scauri ci sono solo geometri e dunque i palazzi non hanno più di due piani anche oggi. Il paese tuttavia non è solo una realtà geografica, ma rappresenta una vera e propria nota di realismo; infatti è stato quell’elemento affettivo che ha permesso a Valerio di dare concretezza alla storia interiore di Vittoria. Il paese non si interroga sulla morte di Vittoria, l’accetta in silenzio, accetta la verità che si racconta: la morte di Vittoria è stata un incidente.

Si oppone alla dinamica di Scauri Lea, che al contrario non riesce a credere alla narrazione della morte accidentale, ma non è in grado nemmeno di sviluppare una vera e propria accusa. Lea interroga il paese, cerca di scoprire, e dunque dà al suo viaggio interiore di scoperta i toni corali che solo una comunità e i suoi abitanti sono in gradi di conferire.

Lea cerca informazioni, cerca notizie su Vittoria ma non per risolvere la morte di quest’ultima, quanto per carpire dettagli e informazioni di vita sull’oggetto del suo desiderio. La morte di Vittoria non è infatti interessante né per il come né per il perché ma piuttosto per il quando.

La domanda che muove la narrazione parte dall’effetto che la morte ha nella vita di chi resta, cosa succede a chi sopravvive quando una persona di cui si credeva di sapere tutto e che si è caricata di aspettative muore? Quando ci si rende conto che la morte fa crollare tutta la narrazione vigente e l’idea che di quella persona abbiamo è falsa, cosa bisogna fare? Come ci si muove?

Chi dice e chi tace è la storia della ricostruzione di due identità: quella di Vittoria e quella di Lea. Si inizia da ciò che Vittoria era: una dottoressa, una donna lesbica con un precedente matrimonio; tutte definizioni che costringono Vittoria in una cornice che non le rende giustizia, poiché è un personaggio molto più sfaccettato e ricco di sfumature; e Lea, un avvocata, sposata con un fisico che vuole sempre avere ragione, madre di due bambine e innamorata di Vittoria.

La morte di Vittoria è il motore di un’indagine interiore, l’indagine sulla vita che sarebbe potuta essere se Lea e Vittoria si fossero realmente conosciute. La morte di Vittoria rappresenta la possibilità di Lea di essere altro rispetto a ciò che è se avesse avuto il coraggio di andare via, lontano da Scauri, quel posto dalla grazie scomposta che non è né bello né brutto.

È in luce di quell’aggettivo intimo usato in precedenza che è possibile forse definire il romanzo di Valerio un giallo esistenziale. Un’avventura interiore. Valerio però sostiene di diffidare dalle mere avventure interiori; dunque le era necessaria una cornice e «siccome è una che studia» ha scelto le modalità del giallo come sfondo.

Per una classificazione di genere letterario voglio rifarmi alle parole del nipote di appena dieci anni di Chiara Valerio: “Zia Chiara non è un giallo e te lo dico io perché. Io ho letto tanti Poirot e secondo me non ci possono essere i suicidi nei gialli”. “Ma tu sei sicuro si tratti di un suicidio?” “No, ma già il sospetto fa sì che non sia un giallo“.

Il romanzo segue due filoni narrativi che si incontrano: da una parte la storia e la ricostruzione dell’identità di Vittoria e dall’altro un caso giudiziario di rissa in cui è coinvolto un ragazzo di Scauri, difeso da Lea, e uno di Roma, assistito da Pontecorvo, legale romano che ha avuto in passato una storia con Vittoria.

È anche grazie all’intrecciarsi del viaggio interiore di Lea e della rissa che prende forma il processo di costruzione dell’identità di Vittoria. Il caso di rissa tra i due giovani è il perfetto espediente letterario che permette alle due vite di Vittoria – quella romana e quella scaurense – di incontrarsi, ed è grazie alle due figure dei legali che prende avvio un dialogo tra le due immagini di Vittoria.

Certo, si tratta di un dialogo difficile, arduo costruito più sulle reticenze e le supposizioni. Un dialogo che che spesso non chiarifica ma mette in dubbio Lea su se stessa e su Vittoria, o meglio sulla versione che Vittoria le ha concesso di conoscere.

Le sfumature di Vittoria infatti sono molteplici e solo la coralità del paese può ben restituire nel suo insieme l’idea di Vittoria, la quale nasce dalla somma delle percezioni di tutti e non di un singolo. L’immagine di Vittoria si costruisce grazie a Pietro il pescatore, al ferroviere Mimmo, a Mara, al parroco e all’avvocato Pontecorvo che è elemento esterno del paese. Sono le addizioni delle geografie di Vittoria e degli incontri della sua vita che restituiscono e delineano i contorni dell’identità misteriosa della protagonista.

Ma è proprio il personaggio di Mimmo il ferroviere che vorrei approfondire. Mimmo è un personaggio assolutamente marginale, quasi insignificante, ma di cui io mi sono innamorato e siccome la letteratura è un fatto intimo, ve ne voglio parlare. Non è solo per mero sentimentalismo, ma anche perché Mimmo rappresenta nella narrazione la coscienza popolare, la tenerezza e la contraddizione che è insita nel paese e nella sua capacità di amare e odiare, nella sua capacità di dire e di tacere.

«Avvocato, fino a che siamo soli vi voglio dire un fatto, anche se è un fatto che in paese sanno tutti, ma non lo dicono, o forse non è vero che lo sanno tutti, ma io c’ho mezzo polmone, Vittoria è morta, e voi siete di un’altra generazione, e siete riusciti a ottenere l’aborto, il divorzio, la pensione per Ie casalinghe, la sanità pubblica che la mia generazione nemmeno è riuscita a immaginare.»

Il discorso di Mimmo tematizza quanto detto precedentemente sulla generazione che ha fatto la rivoluzione, ma soprattutto inizia a mettere in scena la tenerezza, quella tenerezza sgarbata, diretta che è propria del paese, sopratutto di un paese di mare.

– Certo, Mimmo, voi siete una leggenda.
– Ecco, non è solo perché ero antifascista che mi hanno mandato a Cancello, è pure perché ero, e lo sono ancora, anche se ormai così, nella mia testa, ricchione.
– Ecco, avvocato Russo, io, in quanto ricchione, ero pure stato fortunato, perché molti facevano una fine peggiore.
[…]
– Ma pure per farle capire quanto ha contato Vittoria per me da quando è arrivata a Scauri. Io la guardavo come si guardano i film alla televisione, i film americani dove tutto va bene e c’è la musica e le case sono belle. Vittoria è arriva qua con Mara che sembrava sua figlia e l’ho capito subito, avvoca’, che non era la figlia, ovviamente.

Mimmo è il ricchione del paese e lui sa della relazione che intercorre tra Mara e Vittoria, forse per condivisione, forse perché in Mimmo, Vittoria ha trovato un alleato, un membro della comunità con cui si sente libera di raccontarsi, in cui è presente una comunicazione basata sul detto e non sulla supposizione.

Tutto il paese sa di Vittoria e Mara, o meglio tutti suppongono, tutti internamente sanno ma nessuno dice; così come tutti sanno dell’antifascista ricchione, di Mimmo, ma nessuno dice e parla; perché in fondo il paese è così: non accetta platealmente, non è possibile dichiararsi, perché nella manifestazione si trova l’opposizione, ma se tutto rimane nascosto il paese accetta senza domandare.

Mimmo nel gioco romanzesco è il rappresentante della tenerezza, abita il paese, ma è geograficamente lontano, non è dentro il paese, lo abita a latere, laggiù alle ferrovie. Il suo dislocamento è fatto psicologico oltre che geografico e non è casuale che per parlare di Vittoria metta se stesso e la sua omosessualità in posizione ancipitaria: si racconta per entrare in empatia con Lea, per farla sentire meno sola. Si pone in un piano di simmetria. Mimmo crea comunanza, crea una bolla all’interno della bolla-Scauri. Laggiù alle ferrovie si crea un angolo queer inconsapevole, uno spazio sicuro in cui giocare a carte e poter dire ricchioni senza la paura di essere allontanati.

Vittoria è accettata tacitamente come lesbica del paese perché non parla e non dice, tuttavia la verità è che Vittoria è anche accettata per una ragione di classe: Vittoria è ricca, è benestante e sebbene nessuno, o quasi, sappia da dove la sua ricchezza derivi, è un fatto assodato.

Vittoria e Mara arrivano da Roma, e nonostante Scauri disti solo un centinaio di kilometri da Roma, la Capitale è vista con esotismo: è la città. Per il semplice fatto di essere cittadine le due donne sono viste come divinità e le divinità non si criticano, non si giudicano, si ammirano e si venerano.

La ricchezza di Vittoria non si vede soltanto da ciò che possiede, ma sta nei suoi modi, nel suo stare al mondo, nel suo abitare la casa e passeggiare. Vittoria è elegante, all’apparenza perfetta, così come il giardino di Costantinopoli, espressione attraverso la quale il paese chiama la casa di Vittoria e Mara.

«Avevo visto in televisione un’intervista a Carla Fracci dopo una prima alla Scala, o al San Carlo, non me lo ricordo, un teatro, le mie figlie si sognavano in tutù rosa ma erano troppo indisciplinate. Carla Fracci esortava a danzare, una specie di monito che esulava per dalla danza e rientrava nella vita quotidiana. Silvia e Giulia fibrillavano attaccate al televisore e io avevo pensato che danza e vita quotidiana, in quanto rito e disciplina, singoli e collettivi, sono invece del tutto sovrapponibili, una la forma dell’altra.»

Carla Fracci diceva composta «Quando pensate alla leggerezza dei ballerini, guardategli i piedi. I piedi dei ballerini mantengono la memoria di tutti gli esercizi, tutti gli sforzi, tutto il peso, tutta la gravità delle ripetizioni, dell’equilibrio, dei salti, dello sforzo di fissare la vita, che è movimento, in una forma geometrica eterna ed eternamente riconoscibile. Mi chiedevo, guardando il giardino di Vittoria, dove fosse quel luogo oscuro e nodoso, nascosto, deformato dall’esercizio e dall’equilibrio, che per garantiva la leggerezza, la grazia, o la loro apparenza.»


Vittoria è il suo giardino, stupendo ma il suo essere elegante e perfetto richiede uno sforzo di occultamento, bisogna nascondere il piede nodoso, apparire e sembrare. Il nodo nascosto tuttavia non rimanda a una cattiveria insita della protagonista, non esiste alcun risvolto gotico della sua personalità, quanto a una parte di vita che Vittoria ha voluto cancellare perché dolorosa e forse ancora sanguinante, proprio come il piede di una ballerina che durante una piroetta sanguina, ma il sangue non deve vedersi, il dolore non deve palesarsi in volto, bisogna sorridere, mantenere la linea armonica della piroetta; solo alla fine, dietro le quinte, quando si è soli con se stessi, si può dare dignità a quel dolore, osservarlo e farci i conti. Da soli nella vasca da bagno che guarda il corridoio si può meditare sul proprio passato.

Vittoria dice e tace, cuce il proprio profilo, non vuole che si sappia, si concede in gradi diversi, ad ognuno in base a ciò che il suo interlocutore può tollerare. Sempre in una dimensione di medietas, di equilibrio: a tutti un po’, spezzare ciò che si è per ridurre le fuoriuscite di passato. È per questa capacità della protagonista di non dire ma di rivelare che Chi dice e chi tace è un romanzo sul desiderio.

di Mirko Di Meo

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