L’età fragile della letteratura

Donatella di Pietrantonio torna a raccontare la sua terra con un nuovo, esile romanzo entrato nella dozzina finale del Premio Strega. Si tratta di un ritorno per lei nella corsa al cenacolo di Villa Giulia, al quale aveva già preso parte con il precedente Borgo Sud. Il libro rappresenta, nella grande partita a scacchi che è lo Strega, la seconda freccia all’arco dell’editore Einaudi, che probabilmente punterà a convogliare i suoi voti verso il più forte Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi. Ma queste sono manovre di palazzo, intrighi di potere nauseabondi che hanno ben poco da spartire con la letteratura. O almeno dovrebbero.

L’età fragile comincia con la descrizione di una madre, la protagonista, che cerca di riabituarsi alla presenza della figlia in casa. È tornata nel suo paesino abruzzese per trascorrere al riparo la pandemia, fuggendo da una Milano che si è rivelata agra e chiusa alle sue speranze. La madre intuisce subito che la sua Amanda in quel ritorno ha celato qualcosa di impronunciabile. L’anno precedente era stata irremovibile nel partire per il Nord, nella scelta non negoziabile di proseguire gli studi a Milano, via dal paese e verso nuovi e sterminati orizzonti, con la fiducia intatta nel futuro prossimo. Da quando è tornata però Amanda è schiva, trascorre la maggior parte del suo tempo a dormire, non sembra che stia proseguendo gli studi (nonostante le sue rassicurazioni al riguardo) e più in generale sviluppa un’apatia che terrorizza la madre.

Una volta delineata questa situazione iniziale il racconto si sviluppa su una duplice linea, alternando il tempo presente con il passato in cui la protagonista ricostruisce un’estate fatale della sua giovinezza. Il filo conduttore della vicenda è un terreno che appartiene alla famiglia e che si stende sotto il Dente del Lupo, la montagna che governa il paesaggio del piccolo paesino. Sarà in questo spazio teso tra boschi e pascoli che i destini di madre e figlia finiranno per intrecciarsi.

Il tema centrale del romanzo è sfacciatamente esposto sin da subito. Amanda ha subito un trauma, la protagonista lo riconosce e alla sua mente riaffiora quello che anche lei aveva subito, alla sua età, simile nelle circostanze ma diverso nelle modalità e soprattutto nelle ripercussioni. Le differenze generazionali sono sottolineate spesso, come anche l’incomunicabilità tra le due parti, con la figlia che oppone uno strenuo silenzio a ogni tentativo della protagonista di portare un dialogo.

Uno dei loro rari scambi verbali avviene quando la figlia torna la prima volta da Milano, dopo la prova di ammissione alla Statale:

Ѐ tornata con le luci della città negli occhi.
“Sembra di essere in Europa” ha detto. [1]

Leggendo una frase simile penso alle tante persone incontrate lungo la via che “vorrebbero scrivere” e che possiedono una voce, un tema, un taglio e uno stile ma non abbastanza potere mediatico, un’insufficiente vendibilità o tendenza all’asservimento per vedersi pubblicato un testo. Per quel che mi riguarda, questa frase è un’offesa verso la realtà. Ho vissuto per qualche tempo a Milano e, come tutti, ho avuto modo di conoscere molti emigrati da piccole realtà di provincia verso la grande capitale della pianura, tutti con storie e aspirazioni diverse, un carico di umanità che in nessun modo è ammissibile ridurre a quello che l’autrice espone in questo passaggio. Certamente, scrivere è sempre un atto di coraggio, e ogni parola è allo scoperto di fronte al giudizio altrui. Ma il linguaggio non è puro, si può prestare alle più terribili aberrazioni come alle più sublimi altezze. In questo caso specifico si appiattisce quasi fino a disintegrare ogni fiducia in sé stesso. Sarebbe ridicolo però attaccarsi a una singola frase infelice, piatta o sciapa. Il libro in sé non procede – vivaddio – sempre su queste tonalità. Ma se da un lato può essere lodevole l’impegno profuso nel tentare di toccare tematiche complesse, dall’altro non si può che rimanere sgomenti di fronte alla pochezza con cui alcune di queste vengono affrontate.

Il malessere psicologico delle generazioni più giovani, come detto, vorrebbe essere uno dei temi portanti del libro. Prova a diventare un tema ma non esce mai da una rappresentazione paternalistica e limitante, scade in considerazioni ora riciclate e ora insignificanti, fino a ridursi a sterile stereotipo. In difesa dell’autrice va ribadito che il compito era davvero improbo. L’angoscia di chi oggi attraversa l’età fragile è particolare e insieme universale, riguarda tutti e allo stesso tempo non è riconducibile a un’eziologia unica. La tenuta mentale delle fasce di popolazioni più giovani, assediate da iperconnessione digitale, crisi climatica e instabilità politica globale, è forse la paranoia rimossa più inquietante dell’intero Occidente. Un’intera cultura si interroga sulla possibilità che il suo stesso prodotto si rifiuti di esistere, pur di negare l’abiezione che lo ha generato. Va da sé che sarebbe stato molto interessante giungere alle soglie di questi ragionamenti, spingersi quantomeno a sfiorarli.

Intendiamoci, sono temi immensi, che terrorizzano al solo pensiero, ma sono queste le battaglie di cui si dovrebbe far carico la letteratura per giustificare la sua esistenza. Invece il pensiero comune è che essa debba inserirsi nel circolo produttivo, creare consumo, generare ricchezza. E quindi si creano le correnti, i generi, le classi in cui catalogare e burocratizzare i testi letterari, assegnando a ciascuno un valore a seconda dell’indotto economico che è in grado di generare.[2] Un libro come L’età fragile, per esempio, non potrebbe esistere senza il contenitore entro cui è stato concepito, vale a dire la cosiddetta “letteratura del trauma”. Si tratta di una tendenza tematica che ha espresso anche risultati di altissimo profilo (si pensi a L’anno del pensiero magico) ma che nel medio periodo ha portato al proliferare di testi molto similari, legati dal medesimo motore narrativo e dalla morale piatta e semplicistica che li accomuna. Riguarda testi impregnati di dolore ma con una nota di ottimismo finale, una strizzata d’occhio alla retorica neoliberale che afferma che chiunque può superare qualunque difficoltà, se si impegna a sufficienza. E poiché la vita è ingiusta, costellata di disgrazie e insensatezze e ciascuno vuole sentire grande in sé la speranza di essere più forte delle avversità, questo tipo di narrazione attira, vende e si pubblica. Spesso a prescindere dal suo reale valore.

Il libro della Di Pietrantonio si radica su questo tema molliccio e riscaldato, incarnando a pieno tutti gli stilemi che lo caratterizzano. Cavalca la letteratura del trauma, la evoca sin dalle prime pagine, senza sforzarsi mai di evadere dagli schemi canonizzati del genere. Per di più utilizza una lingua che non si eleva mai davvero, con i suoi picchi stilistici che giungono in corrispondenza di qualche saltuaria descrizione della montagna, dove i paesaggi natii entrano in consonanza con l’autrice, come in fondo accade in altri punti della sua produzione. Ma in generale il testo non si smuove dalla corrente cui appartiene, non riesce a evadere dalle mura del genere del trauma, diventa quasi imbarazzante quando si scontra con temi generazionali e per il resto del tempo scivola via senza un sussulto.

Davvero troppo poco, specialmente per un libro entrato tra i finalisti del più prestigioso premio letterario nazionale. Certamente la selezione, come accennato, non riflette lo stato della nostra letteratura, mentre può dirci qualcosa sulle relazioni di potere tra i vari editori che si contendono l’agognato moltiplicatore destinato al vincitore. Negli ultimi vent’anni, escludendo alcune eccezioni verso l’alto, la media è stata di un solido raddoppio delle vendite. In un mercato asfittico come quello editoriale si tratta di un vero e proprio El Dorado e si è disposti a tutto pur di raggiungerlo, anche a scadere in alcune inquietanti e macchiettistiche gaffe.

L’ultima volta che mi è stato chiesto di recensire un libro finalista al Premio Strega, per pura casualità, il testo era nuovamente edito da Einaudi (per quanto nella collana romana Stile Libero). Di nuovo l’autrice era una donna, il tema era ancora il trauma ma soprattutto, e qui arriviamo al lato grottesco, presentava la stessa dedica iniziale di ­L’età fragile: “a tutti i sopravvissuti”. Il libro era Addio fantasmi di Nadia Terranova, lo Strega quello 2019, terminato con il prevedibile trionfo di Scurati e del primo tomo di M. Nello spazio di cinque anni la bulimia editoriale è riuscita a produrre due libri assurdamente simili, presentati dallo stesso editore in concorso allo stesso premio.

Nel penoso presente che ci è toccato in sorte è semplice abbandonarsi alla tentazione di prendere per vere le teorie critiche degli anni Novanta che affermavano la morte del racconto. E se da un lato non sembrano esistere più storie degne di essere raccontate, dall’altro la pubblicità ha colonizzato non solo il nostro tempo libero ma anche il linguaggio letterario, imbruttendolo e asservendolo alle logiche del mercato. Ma nonostante tutto non viviamo nel peggiore dei mondi possibili. La letteratura è ancora possibile e ogni tanto si affaccia dal buio di un vicolo per sussurrare qualche cosa all’orecchio di chi vuole ascoltarla. Dalle macerie emergono storie urgenti, espresse con uno stile nuovo ed elettrizzante e accade ovunque, anche nella nostra disastrata Italia. Ogni tanto se ne accorge perfino qualche istituzione inamidata come lo Strega e gli editori si lamentano, perché un moltiplicatore simile applicato a un libro senza potenziale commerciale è un attentato all’intera loro economia.

L’ultimo libro della Di Pietrantonio di certo non appartiene a questa categoria, ma si può dire che non si abbassa così tanto da divenire indigesto, non fa niente per meritarsi alcuna forma di risentimento. Probabilmente non vincerà, ancora più probabilmente non garantirà fatturati sfolgoranti. Solo resterà nel mare magnum delle pubblicazioni di questi giorni, destinate a sparire nel giro di qualche mese dalle librerie e dai ricordi. Certamente farà felice chi aveva amato Borgo sud ma forse si farà strada anche nel cuore di qualche nuovo lettore, e non sono piccolezze. Allo stesso tempo però potrebbe anche compiere danni, specialmente nelle speranze di chi chiede alla parola scritta di usare tutte le armi a sua disposizione, sfidando il potere, le consuetudini e le storture del mondo che abitiamo. In definitiva, la colpa principale di operazioni di questo tipo è quella di illudere il lettore medio, alimentando il mito della letteratura esaurita e valida soltanto come “classico” perpetuo, come canone letterario applicabile al passato ma incapace di dare una visione sul presente. In questo caso la responsabilità è duplice, da un lato l’editore dovrebbe rendere conto della natura reale del libro senza propugnarlo come sincera opera letteraria ma forse più come di consumo, di puro intrattenimento; dall’altro, gli amici della domenica che propongono e votano i candidati dello Strega dovrebbero evitare di alimentare il clientelismo e scendere a patti con la loro coscienza prima di magnificare le qualità di questa o quella opera. Per sintetizzare il tutto, si dovrebbe chiedere agli editori di essere meno avidi e agli intellettuali di abbandonare la vanità.

Sono utopie crudeli da manifestare apertamente, che si poggiano sulla speranza che ognuno di noi auspichi un mondo migliore. Ma in verità gli editori saranno i primi a trincerarsi dietro la narrazione che non esistono più i lettori e che la loro industria è minacciata da Internet, che loro devono difendersi e hanno il diritto di pubblicare quello che più gli aggrada nella modalità che ritengono più opportuna. Allo stesso modo gli intellettuali rivendicheranno sempre il diritto al libero pensiero, applicando la relatività del giudizio a contesti via via più desolanti, senza curarsi del ridicolo a cui fatalmente approderanno.

E intanto nel silenzio di una soffitta ferrarese o nel seminterrato di una pizzeria palermitana, al riparo dal Leviatano editoriale, qualcuno continuerà a rammendare i frammenti di un presente impazzito, impastandoli in una forma nuova, donandogli un significato prima sconosciuto. Così, indifferente ai capricci umani, distante da riconoscimenti e ospitate televisive, naturalmente allergica a tutto ciò non la riguardi direttamente, la letteratura continuerà indisturbata la sua corsa millenaria.

di Aldo Incubo

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[1] Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi, Torino 2024, p.10.

[2] In modi variegati e obliqui, non sempre riferendosi al mero venduto ma al prestigio, al posizionamento, al ritorno pubblicitario. In questo senso un editore preferisce andare in perdita, staccando assegni milionari per gli anticipi di un “grande autore” e non rientrare mai dell’investimento ma assicurarsi la credibilità del pubblico accogliendolo nella propria scuderia. Se questa può sembrare una pratica in fin dei conti nobile e lodevole, bisogna però parametrarla sui controaltari che richiede per sussistere.

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