Daniele Rielli è uno dei figli prediletti del mondo post-social media in cui viviamo, salito all’onore delle cronache più di 10 anni fa quando – sotto lo pseudonimo Quit The Doner – una serie di articoli sul suo blog gli valsero un’esplosione di popolarità e l’inizio della sua carriera da scrittore professionista.
Da lì in avanti Rielli ha collaborato con numerose riviste e giornali ed è probabilmente la penna più dotata, insieme a Daniele Manusia, uscita da quella mandata di autori definibile come Vice e Post-Vice. La sua scrittura molto diretta e spigolosa, che mischia riferimenti alti ai videogiochi anni ‘90, ha spesso permesso ai suoi reportage di acquisire un ottimo ritmo e avere un tono molto riconoscibile, mentre quando si è dedicato al romanzo i risultati non sono stati della stessa qualità.
Il suo libro del 2023, Il Fuoco Invisibile, candidato nella Dozzina del Premio Strega 2024, è un meccanismo composto da diverse parti mobili che funziona eccezionalmente bene proprio grazie alla sua natura giornalistica e che lascia molto poco spazio a qualsiasi velleità romanzesca. Nonostante questo, il racconto della scoperta e della diffusione della Xylella Fastidiosa in Puglia non segue sempre le logiche del reportage classico, muovendosi da un personaggio all’altro e tra diversi piani temporali, cercando le contraddizioni – interiori e non – dei suoi protagonisti, al fine di far luce su una serie di fallimenti istituzionali spesso più simili a vere e proprie teorie del complotto che diventano reali. Il libro sembra avere anche l’ambizione di essere il seguito spirituale del reportage “Io che ho attraversato l’Alto Adige”, contenuto nella raccolta Storie dal Mondo Nuovo (2016, Adelphi). In quel reportage, mai uscito su riviste e giornali, Rielli raccontava il fenomeno del terrorismo alto-atesino e dell’evoluzione della scena politica in Alto Adige. Il racconto di questo pezzo dimenticato di storia italiana contemporanea acquisiva forza proprio perché fatto dal suo punto di vista: Rielli è nato a Bolzano, ma è figlio di immigrati pugliesi, e convive costantemente con una sensazione di spaesamento che si riallaccia in modo chiaro con una parte della sua storia familiare raccontata nel suo ultimo libro.
Benché il racconto del disastro ambientale e dell’abbattimento di milioni di alberi si intrecci con la storia familiare, coprendo un arco temporale di circa 10 anni, il libro riesce a fornire in modo asciutto tutte le informazioni scientifiche e di contesto necessarie. Per facilitare questa separazione, alla storia personale e familiare di Rielli sono riservati dei capitoli dedicati in ognuna delle parti in cui il testo è diviso, in modo da lasciare sufficiente spazio ai numerosissimi personaggi che popolano il racconto.
Ciò permette alla narrazione, che correva il rischio di sprofondare in una dimensione romantica e mitologica sulla storia dell’olivicoltura in Puglia, di virare invece verso una razionalità quasi crudele. È nell’apertura del vaso di pandora dovuta all’epidemia di Xylella che emergono le contraddizioni di un’agricoltura arretrata, di una società che rifiuta profondamente la scienza e dell’opportunismo delle classi dirigenti sia locali che nazionali. Intrecciando a ritroso i fili della storia della coltivazione dell’Olivo in Puglia, Rielli riesce anche in un’altra operazione importante ma dolorosa: smitizzare il legame, quasi da realismo magico, che questa pianta ha con un territorio, in particolare con quello salentino. Fino all’introduzione dell’elettricità nel tardo Ottocento, infatti, l’olio veniva prodotto quasi esclusivamente utilizzando olive vecchie e marce, in frantoi sotterranei e in condizioni di lavoro spesso disumane, con il solo scopo di essere esportato come olio lampante in tutta Europa. L’olio per uso alimentare era raro e riservato ai ricchi latifondisti, spesso nobili, che sul commercio dell’olio lampante avevano costruito le loro ricchezze. Per questa ragione nel XVIII secolo i grandi boschi salentini vennero quasi completamente distrutti per far spazio a due specie di olivo molto poco produttive rispetto a quelle moderne, ma molto resistenti e in grado di fornire una grande quantità di legna.
Alla decostruzione del mito fondativo di una terra e alla sua storia familiare, l’autore sovrappone però anche altri due punti di vista: quello degli agricoltori e quello degli scienziati. Leggendo le parti dedicate a questi ultimi diviene chiaro chi siano i veri protagonisti del libro: gli scienziati del CNR di Bari. Agricoltori e scienziati formano così le ideali maschere di una tragedia che appare da subito inevitabile, in cui il coro è composto dal sistema politico e giudiziario italiano.
Attraverso gli occhi e il lavoro degli scienziati, il libro ci permette di comprendere meglio il funzionamento dell’epidemia e la complessità del loro ruolo, spesso svolto in una quasi totale mancanza di fondi e sostegno politico. Seguendo le loro vite quasi noiosamente ordinarie nel corso di tutto un decennio, li vediamo passare da persone comuni con qualche amicizia in una ristrettissima cerchia internazionale di colleghi a figure controverse a livello nazionale. Durante questo percorso ne comprendiamo i caratteri umani e le contraddizioni – molte delle loro stesse famiglie possiedono piante che dovranno essere abbattute – e riusciamo ad empatizzare con loro nel momento in cui l’intero sistema istituzionale li attacca in un meccanismo surreale di negazione del disastro che potrebbe distruggere una parte rilevante dell’agricoltura dell’intero continente europeo. È proprio trattando le indagini che hanno coinvolto i ricercatori del CNR di Bari che il libro raggiunge il suo picco di tensione, quasi da Legal thriller, quando vengono effettivamente accusati di aver volontariamente importato la Xylella all’ordine di un non meglio precisato interesse straniero.
Opposti agli scienziati, che vengono raccontati come un gruppo unito e completamente concentrato in una missione vitale, gli agricoltori e i produttori di olio presentano molteplici sfaccettature. Tra loro emergono profonde linee di faglia dovute alla frammentazione della proprietà dei terreni: troviamo chi si è posto all’avanguardia e produce un prodotto di altissima qualità, mentre molti altri vivono al limite della sussistenza non credendo alla versione della scienza ufficiale. Nel raccontare la ricerca di soluzioni astruse o rimedi importati dall’estremo Oriente, Rielli scrive alcune delle sue pagine migliori, anche rivelando come il movimento negazionista sia stato supportato e foraggiato da una pletora di personaggi famosi, tra cui spicca un Al Bano che non avrebbe sfigurato in Strade Perdute di David Lynch.
Le tre dimensioni del racconto – intimo, di cronaca e storico – viaggiano quindi parallelamente per tutto il libro, coinvolgendo un gran numero di personaggi più o meno bizzarri, ma riuscendo sempre a incidere grazie ad alcune scelte stilistiche autoriali che non appesantiscono quasi mai la narrazione. La prima è di mantenere i capitoli molto brevi e concentrati, mentre la seconda è un ritmo che parte piuttosto compassato, per poi accelerare significativamente nella seconda parte del libro, quando ormai la pallina del disastro ha cominciato ad accelerare su un piano inclinato.
Il libro è quindi particolarmente riuscito: Rielli non si risparmia quando deve essere caustico e diretto, ma riesce sempre a bilanciare questi momenti dimostrando un’affezione particolare per tutti i personaggi di cui racconta un pezzo importante di vita. Il più grande difetto di questo libro è che non si pone come una narrazione neutrale degli eventi: sposa infatti fin dall’inizio un approccio scientifico, che potrebbe far storcere il naso a chi vorrebbe avvicinarsi all’argomento in modo più laico. Forse, però, non c’era un altro modo per raccontare questa storia, soprattutto per chi tra quegli olivi ci è cresciuto e li ha visti morire.
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