Alimenti protagonisti agli albori della fotografia
SALE.
Nel 1833 Henry Fox Talbot inventa un procedimento di stampa fotografica: la calotipia, bella stampa. Mentre il rivale d’oltremanica riproduce il mondo in argentei e preziosi pezzi unici, Talbot inventa il negativo su carta ovvero un foglio-matrice che permette di stampare più volte la stessa immagine a contatto su altrettanti fogli di carta fotosensibile.
Resta però insoluto, il problema del fissaggio. Così Talbot decide di andare a trovare John Herschel, astronomo inglese che già nel 1819 scopre come l’iposolfito di sodio riesca a sciogliere i sali d’argento: questo permette di arrestare l’azione della luce sulla superficie fotosensibile (un foglio di carta) e di fissare l’immagine su di essa.
Problema dissolto. Ecco la ricetta del procedimento di stampa su carta salata.
Preparazione della carta.
Immergete la carta in una soluzione di cloruro di sodio. Una volta asciutta, spennellatela con una soluzione di nitrato d’argento (in questo caso l’immersione va evitata per scongiurare il pericolo di macchie e striature).
Esposizione.
Il nitrato d’argento, dopo aver trasformato il cloruro di sodio in cloruro d’argento, resta in eccesso sulla carta favorendo l’annerimento diretto tramite l’azione della luce.
Ponete il calotipo in un torchio, a contatto con la carta salata ed esponetelo alla luce solare controllando di tanto in tanto lo stato di annerimento della carta sbirciando dal lembo del dorso incernierato.
Terminata l’esposizione, risciacquate il foglio in acqua per eliminare l’eccesso di nitrato d’argento, fissate l’immagine nella soluzione di iposolfito di sodio e lavate nuovamente il foglio.
Presentazione.
La stampa presenta una tinta bruno-rossastra che, a causa di processi di solforazione e ossidazione, potrebbe scivolare verso il giallo-verde o marrone. La distorsione cromatica si accompagna inoltre allo sbiadimento dell’immagine soprattutto nelle zone chiare e nei bordi.
Quercia in inverno. Stampa su carta salata di W. H. Fox Talbot 1842-43, Getty Museum, Los Angeles
ALBUME.
Poiché il procedimento di Talbot non permetteva di ottenere un negativo molto nitido, Herschel suggerisce di sensibilizzare una lastra di vetro anziché il foglio di carta. Serve però trovare una sostanza densa, trasparente e insolubilizzabile, per far aderire i sali d’argento sulla superficie del vetro.
Nel 1847 Claude Félix Abel Niépce, nipote di Joseph Nicéphore Niépce, identifica nell’albumina il legante perfetto dopo aver tentato con il miele che, come qualsiasi liquido denso, può fungere da emulsione per rendere una superficie fotosensibile.
Preparazione della soluzione.
Montate l’albume a neve, lasciatelo riposare per ore in modo che l’albumina vischiosa e limpida si depositi sul fondo del contenitore mentre le altre proteine restano nella schiuma in superficie. Ogni uovo fornice 30 cc. di albumina.
Preparazione della carta.
Fate galleggiare il foglio in una soluzione di cloruro di sodio e albume sbattuto. Aggiungete nitrato d’argento per rendere insolubile lo strato di albumina. Più l’albumina è fresca, più la stampa risulterà lucida. Ripetete l’albuminatura due volte per una superficie più lucida e uniforme.
Esposizione.
Usate la carta sensibilizzata entro pochi giorni perché tende a ingiallire velocemente, soprattutto nelle zone chiare. Per contrastare questa tendenza, dagli anni Settanta la carta all’albumina veniva colorata artificialmente con coloranti blu o rosa. Se la stampa risultasse troppo lucida, potete coprire il foglio di fette di patate per assorbire l’albumina in eccesso.
La carta all’albumina è stata impiegata soprattutto per la stampa di cartes de visite, invenzione di successo del ritrattista André-Adolphe-Eugène Disdéri (1854). Per velocizzare le sedute, Disdéri costruì un apparecchio dotato di 8 obiettivi per un’unica lastra.
Bastava aprire un otturatore alla volta per ottenere in pochi minuti altrettanti ritratti in pose diverse da sviluppare, stampare e vendere a un prezzo popolare. Le piccole fotografie, incollate su un cartoncino con impresso il nome del fotografo, venivano scambiate come biglietti da visita, custodite gelosamente o collezionate in album.
Ma l’uso del termine album per indicare un contenitore di fotografie deriva da queste collezioni di stampe all’albumina? Sarebbe una spiegazione affascinante, ma per onestà intellettuale devo stemperare l’entusiasmo citando l’enciclopedia Treccani: [dalla locuz. lat. album amicorum] usata nel sec. 18° in Germania per indicare un libro rilegato in cui si raccoglievano autografi di conoscenti.
The photographer. Carte de visite all’albumina dalla serie The Brighton Cats di Henry Pointer, Brighton 1870-1884 (sinistra). Self-portrait with cats. Carte de visite all’albumina di Hanry Pointer, Brighton 1880 (destra).
AMIDO.
Nel 1907 i fratelli Lumière lanciano sul mercato le diapositive a colori Autochrome. Il procedimento si basa sulla sintesi additiva dei colori, ottenuti grazie a un mosaico di minuscoli granelli di fecola di patate colorati in verde, blu e arancione. Il sottilissimo strato di granelli steso sulla lastra di vetro, forma un vero e proprio filtro (come i pixel rossi, verdi e blu negli schermi di televisori e computer o nei sensori delle fotocamere).
Preparazione della lastra.
Mettete tre cucchiai di fecola di patate in tre ciotole diverse e aggiungete rispettivamente il colorante verde, blu e arancione. Mescolate il contenuto di ciascuna. Prendete un recipiente più grande e riversatevi tutto l’amido colorato. Mescolate fino a ottenere una distribuzione uniforme dei colori. Stendete infine i granelli su una lastra di vetro avendo l’accortezza di non farli sovrapporre perché ostacolerebbero eccessivamente il percorso della luce. Spennellate infine l’emulsione fotografica in bianco e nero sull’altro lato della lastra. Guanti alle mani, usate una manciata di ortiche per pulire perfettamente la lastra di vetro prima di spargervi emulsione e amido.
Esposizione.
Esponete la lastra con il lato del filtro rivolto verso l’obiettivo in modo che il mosaico colorato filtri la luce prima che arrivi sul lato dove avete steso l’emulsione di gelatina e bromuro d’argento. Avrete un negativo a colori.
Presentazione.
Per ottenere un’immagine positiva, eliminate le zone esposte dell’emulsione risultanti dopo lo sviluppo e riesponete la lastra, ma questa volta dal lato emulsionato per impressionare l’emulsione rimasta. Sviluppate nuovamente.
Le lastre di vetro vengono soppiantate dalle pellicole a colori nei primi anni Trenta, ma la loro produzione continua fino al 1955. Oggi siamo autori e spettatori di uno spreco di immagini ancora più incalcolabile dello spreco di cibo.
Particolare di un’autocromia, ingrandito 14 volte, in cui è visibile il mosaico cromatico dei granelli di amido.
Nel capitolo Dalla civiltà dell’immagine alla società dello spreco iconico, Ando Gilardi evidenzia come lo spreco produca nuovo spreco: per dirlo con un gioco di parole, esso rende i segni insignificanti e si cerca di rimediare al vuoto che la miriade produce all’interno delle sue stesse unità, accumulando immagini su immagini.1
Vi segnalo una mostra gustosa. O meglio, il catalogo2 di una mostra gustosa perché quando leggerete sarà già terminata. Gli spazi dell’ex ghiacciaia più grande d’Europa, rigenerati grazie all’intervento dell’architetto Mario Botta, ospitano oggi la sede veronese di Eataly.
Qui è stata allestita la mostra Photo&Food. Il cibo nelle fotografie Magnum dagli anni Quaranta a oggi, a cura di Walter Guadagnini in collaborazione con Costanza Vilizzi. L’esposizione si articola in cinque sezioni: Dalla guerra al boom (la fame negli scatti di Werner Bischof e David Seymour e il benessere nelle immagini di Elliott Erwitt, Inge Morath, George Rodger e Martin Parr), Il cibo delle star (Marilyn Monroe e Ronald Reagan, Alfred Hitchcock e Muhammad Ali), Dal produttore al consumatore (preparazione locale e vendita in mercati e supermercati), Cibo estremo (coltivazione intensiva, OGM, colture idroponiche, consumismo del junk food), La tavola sacra.
Raramente le fotografie di cibo rappresentano soltanto il cibo. Non dimentichiamoci di assaporare le immagini dei grandi maestri: le forme nitide, ma indefinibili quanto le macchie di Rorschach, dei monumentali Peppers di Edward Weston; il Camembert da deliquio di Irving Penn; le fragranze inebrianti delle nature morte di Christopher Broadbent; la contrastatissima mela-galassia di Paul Caponigro.
1 Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, Bruno Mondadori 2000, p.325
2 Photo&Food. Food in Magnum photographs from the 1940s to the present day, catalogo a cura di W. Guadagnini, Ediz. italiana e inglese, E.ART.H. 2023