Sandra Gilardelli (99 anni il 1° luglio), milanese, ha militato nella Resistenza del Verbano, collaborando con la brigata Cesare Battisti come staffetta
«Non parlo solo di quello che penso io, ma di tutti noi della Resistenza», spiega seria Sandra Gilardelli, (Milano, 1° luglio 1925), testimone della collettiva esperienza partigiana. «A un certo punto, dopo l’8 settembre, si è dovuto fare una scelta. Io ho dovuto scegliere», racconta, spiegando come sia arrivata, all’età di 18 anni, a prendere parte, come staffetta, alla Brigata Alpina Cesare Battisti nella zona del Verbano (Verbano-Cusio-Ossola). «Per me è stata una cosa naturale: figlia di un antifascista, sfollata a 800 metri in montagna, abbiamo visto subito che si formavano questi gruppi e mi sono inserita. Quando mi sono presentata e ho detto che volevo partecipare, mi hanno chiesto cosa mi sentissi di fare. Io ho risposto ‘tutto’».
Alla staffetta partigiana era assegnato il compito di garantire i collegamenti tra le varie brigate: «Sono diventata principalmente una staffetta per il comando di Premeno. Mi davano dei biglietti che io dovevo portare ai vari comandanti capi del Comitato di Liberazione Nazionale di Intra». Un’altra funzione fondamentale nella Liberazione, spesso coperta dalle donne, era quella di aiuto al medico, una funzione svolta anche da Gilardelli: «A qualsiasi ora il medico mi mandava a chiamare e io ero presente. I primi tempi mi muovevo al mattino molto presto e alla sera molto tardi, quando nessuno mi vedeva».
«Eravamo antifascisti. Qualsiasi ideale avessimo, in quel momento eravamo uniti dall’antifascismo: era lo scopo primario di tutti», aldilà delle divisioni politiche. E a costo di rinunciare alla propria vita, alla normalità, alla scuola: «Ho dovuto lasciare gli studi, una delle cose che mi dispiacciono. Non ho finito neanche la seconda liceo, frequentavo il classico Parini».
I bombardamenti costringono infatti Gilardelli, e un’intera generazione di studenti, ad abbandonare i banchi di scuola: «Noi abbiamo perso anche la casa. Eravamo a Gorgonzola e per andare al Parini dovevo attraversare tutta la città, tra cui la stazione centrale, e se c’era un bombardamento era probabile fosse lì. E allora per un po’ l’ho fatto, ma poi era diventato impossibile, anche perché mi faceva tardare: se c’era un allarme mi dovevo fermare e purtroppo ho smesso. Ho dovuto smettere».
Ripensando agli anni del liceo, Gilardelli non ha dubbi: è stata fortunata. «Non abbiamo mai dovuto partecipare a una sola riunione fascista perché la nostra professoressa di ginnastica era antifascista. E allora nella nostra classe, in cui c’erano tanti antifascisti, aveva creato un un gruppo atletico e così, dovendoci preparare per il gruppo, non eravamo tenuti ad andare alle riunioni». «Per cui sono stata fortunata, anche rispetto alle mie compagne: in moltissimi eravamo figli di antifascisti, era un ambiente antifascista».
Un ambiente antifascista che sapeva contro cosa stava lottando, ma che prefigurava, declinandolo nelle varie ideologie, anche un futuro alternativo: «Le prospettive erano tante, avevamo molte speranze. La priorità condivisa, però, era ridare la libertà a tutti. Avevo il papà antifascista e fin da bambina mio padre mi ha insegnato proprio che la libertà è il valore più importante». Una libertà che, illuministicamente, gli insegna ancora papà Gilardi, «deve finire dove comincia la libertà dell’altro».
E se è vero che, come sostenuto da Marx, «non è libero un popolo che ne opprime un altro», lo sguardo non può che spostarsi sul presente, per interrogarlo alla luce degli attuali conflitti e di alcune speranze tradite: «Ci abituiamo a un po’ di cinismo, volente o nolente. Le illusioni che abbiamo avuto, subito dopo in parte si sono realizzate: c’era la democrazia, c’era la libertà…», ricorda Sandra. «Ma con il passare del tempo, con le guerre e le lotte politiche che ci sono state, che forse erano al di fuori di quelle che erano le nostre speranze e previsioni, altre speranze sono state tradite. Non che si auspicasse a un unico partito, perché la democrazia comprende tutti i partiti, però speravamo ci fosse collaborazione, che c’è stata credo per 30 o 40 anni, e poi non più».
Perché l’auspicio, in fondo, è lo stesso di 80 anni fa: «Spero soprattutto nei giovani ed è la stessa speranza che avevano tutti nel 45: volevamo passare il testimone ai giovani. Io forse sono vecchia, ma lo penso ancora adesso. Io amo molto i giovani, vado molto volentieri a parlare con loro nelle scuole proprio perché spero in loro». E spera, Sandra Gilardelli, soprattutto nell’essere ancora partigiani, inteso nel senso gramsciano del termine: «Io odio gli indifferenti. L’indifferenza è quasi peggio del non pensarla come me».
Un’indifferenza che, nel caso del Fascismo e dei fascismi, deriva dall’ignoranza: «Io credo che da parte loro ci sia molto ignoranza. Cioè non sanno come sono andate veramente le cose perché io faccio anche una differenza tra i fascisti che sono stati dei fascisti durante il ventennio e i fascisti del presente. Molti dovevano essere fascisti per poter lavorare… I fascisti veri erano veramente delle bestie, della gente senza nessun principio, ho visto fare delle cose in guerra… Si muore, ma non ci si accanisce sui cadaveri come hanno fatto con alcuni miei amici», ricorda, con la stessa rabbia di un tempo Gilardelli, commuovendosi.
«Sono cose che non ammetto: non vai in guerra illudendoti di non ammazzare o pensando che non ti ammazzino, ma offendere l’uomo è una cosa che io non potrò mai perdonare». Ma non è solo l’ignoranza ad alimentari i nuovi fascismi, spiega: «C’è anche un vuoto che purtroppo riescono a riempire quelli che ti cominciano a dire che l’immigrato viene qua a rubarti il lavoro, a portar le malattie, a violentare le donne, o quelli che ti dicono che l’omosessuale è un vizioso che travia i ragazzini, o che lo zingaro ruba».
Un vuoto invaso dai populismi. Soprattutto, secondo Gilardelli, dal berlusconismo in poi: «Dal berlusconismo in poi c’è stato un crollo dal punto di vista culturale: sono stati bravi a giocare sulla pancia dei cittadini, andando a stimolare la pancia più che la testa. Anche i giovani spesso credono a queste narrazioni, ed è una brutta cosa, che purtroppo ci siamo anche un po’ andati a cercare come sinistra, e non abbiamo saputo evitare».
E così, nell’epoca del postideologismo, sono proprio la perdita di un reticolato di ideali saldo e la mancanza di cardini etici le cause della deriva populista: «Secondo me molti giovani vivono la disgrazia di non avere degli ideali, ché gli ideali possono essere anche delle cose piccole, ma ti aiutano ad avere interessi e a non avere la vita vuota, come l’hanno adesso molti giovani».
Cardini che indirizzino le scelte personali e politiche: «Io per esempio ho cercato di lavorare con gli ultimi, con chi era disperato, per cercare di capire il perché: era anche una lezione di filosofia che ci avevano fatto di capire. Perché dietro a queste carenze, a queste mancanze, a queste brutture c’è sempre un motivo e io ho lavorato 25 anni proprio in questo, con un servizio di accoglienza milanese per avvicinare e cercare di avvicinare queste persone e conquistare la loro fiducia». Il fil rouge, dall’esperienza partigiana alle scelte di vita nel sociale, è la solidarietà: «La solidarietà è una cosa che deve toccare tutti, e i più sfortunati sono quelli che ne hanno più bisogno».
Sandra Gilardelli ha quasi 99 anni. Ne sono passati 81 da quando decise di diventare partigiana, e in 81 anni a essere mutata profondamente è la cognizione stessa di quel periodo storico. Le nuove generazioni, purtroppo, non avranno più il privilegio di conoscere i testimoni diretti della Liberazione. Inoltre, a rendere più frastagliata la consegna delle memorie e delle testimonianze ai cittadini di oggi e di domani, è un radicale cambiamento linguistico e culturale.
«Bisogna imparare dei linguaggi nuovi, se vogliamo arrivare ai giovani. Va benissimo ed è sacrosanto fare il corteo il 25 aprile, andare a commemorare le lapidi… Però se vogliamo coinvolgere i giovani, soprattutto quelli che magari non hanno avuto la fortuna di avere genitori che già partecipano alle iniziative e hanno quel tipo di sensibilità, bisogna cambiare registro. Ma a farlo dev’essere a sua volta un giovane: io spero che un giovane si avvicini a questo mondo, a questi ideali, e conoscendo già la stessa lingua possa avvicinare altri ragazzi». Perché è fondamentale che la staffetta della memoria non si interrompa: «Il problema è che a un certo punto, per motivi anagrafici, non ci sarà più nessuno che racconterà queste storie e quindi bisogna trovare nuove modalità di racconto e nuove voci».
Ma se i principi possono, e a volte dovrebbero, valicare i confini generazionali, certi ricordi restano privati, parte di una storia con la esse minuscola che solo una testimone diretta del suo tempo, come Gilardelli, può ricordare e condividere: «Tra gli universitari c’era molto antifascismo. Nel 1938 è venuto a Milano un rappresentante del Führer. Dalla stazione centrale è sceso a piedi, e c’era tutto il cordone dell’università che lo accompagnava sino in piazza del Duomo. Allora gli universitari portavano tutti il berretto, erano in fila, e avrebbero dovuto cantare gli inni fascisti. Lui era in piedi sulla macchina scoperta e salutava, e loro cantavano ‘Torna al tuo paesello, che è tanto bello’… e lui salutava tutto contento».
L’antifascismo, insomma, era capillare e radicato, e sovente animato da protagonisti e protagoniste dimenticate. «Non si parla abbastanza di tutte quelle donne che sono state la base della Resistenza, che hanno lavorato per aiutare la resistenza. Ma anche tanti altri ultimi sono stati dimenticati, come i contadini. Pensa a quello che hanno fatto e rischiato i contadini nel silenzio più assoluto». Spesso figure fondamentali che hanno permesso il salvataggio e la liberazione degli stessi partigiani: «Due dei miei amici, quelli proprio del mio gruppo, si sono salvati perché nascosti in un fienile. Era tutto pieno di fieno e i fascisti sono arrivati e per tutto il tempo i contadini hanno giurato che non c’era nessuno, salvandoli. E non li conoscevano nemmeno».
E ad essere dimenticate, per molto tempo, sono state soprattutto le donne. «Gli stessi Partigiani hanno sempre detto che senza le donne non sarebbero riusciti a fare tutto quello che abbiamo fatto. E invece sono scomparse, dimenticate. Io, come altre con un ruolo attivo, sono ricordata di più perché ero dentro, ma tutte quelle donne che hanno lavorato a casa, che magari non facevano la staffetta, ma ad esempio cucivano le calze, le bende, sono state altrettanto importanti». Un ruolo solo apparentemente marginale: «Strappa le lenzuola, accorciale, falle bollire. E col ferro e la stufa asciughi, poi li arrotoli stretti stretti e prepari le scatole. Tutte queste donne lavoravano per la Liberazione, e va riconosciuto. È grazie a loro se a chi ha lottato non si sono congelati i piedi, è grazie a loro se c’erano bende per i feriti».
Ma forse, se non si vuole tradire questa memoria, è necessario abbandonare la retorica degli eroi e dell’eroismo: «Io non credo nel coraggio, nell’eroismo. Sì, è vero, c’è stato, però c’era anche incoscienza, a me sono capitate episodi per cui se sono qui è perché sono stata fortunata. Episodi vissuti con un incoscienza che se mi fossi resa conto a pieno di quello che stavo facendo forse mi sarei fermata. Uno non nasce con la voglia di dire ‘mi sacrifico’, io non ho mai pensato di sacrificarmi, ma di fare ciò che mi sembrava giusto. E spero che questo sia il senso di ciò che abbiamo fatto, e l’esempio che andrebbe seguito: schierarsi dalla parte della giustizia».
Intervista realizzata da Giacomo Trentini
Scritta e curata da Francesca Fulghesu
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