Il pasto del bisogno e il cibo del desiderio 

L’invenzione della haute cuisine, da Carême alla cipolla caramellata 

«Questi sono gli ultimi soldi che spenderò per te», furono le parole che Marie-Antoine Carême si sentì rivolgere dal padre prima di essere abbandonato al finire di un pasto in una locanda di Parigi.

Su questa mancanza di attenzione e di cura inizia la carriera del fondatore dell’alta cucina francese, uno dei più brillanti interpreti della ristorazione mondiale. La carriera di Carême fu un brillante concatenamento di successi che lo videro percorrere rapidamente tutti i ruoli della scalata sociale, da lavapiatti a chef dell’aristocrazia restaurata. Accompagnato dagli sconvolgimenti sociali prodotti dalla rivoluzione francese in soli trent’anni di carriera rifondò il modo che l’Europa aveva di percepire la cucina e la stessa idea di alimentazione. Le innovazioni proposte dal cuoco francese furono numerose e di diversa natura. Innanzi tutto bisognava riformare il concetto stesso di servizio. 

L’allora menù alla francese, in una confusione di odori e una compenetrazione di contorni prevedeva che tutte le portate fossero opulentemente affastellate sul banchetto in un caotico horror vacui di forme e sapori che lottano per il loro spazio sulla tavola. 

Così come l’estetica soffriva di tracotanza, anche i sapori erano spesso ipertrofici. Carême perciò sentì la necessità di un ordine che potesse lasciare spazio alla qualità del singolo prodotto, insistendo sulla freschezza della materia prima e la semplicità dei piatti. Venne quindi introdotto il menù alla russa, ovvero il servizio a portate come lo conosciamo oggi, che alla stregua di atti teatrali focalizza sulla scena l’attenzione del commensale presentando i personaggi uno ad uno, favorendo perciò la creazione di quel climax di gusto che dall’entrée al dessert ci descrivere la visone che lo chef ha della ristorazione.

Sebbene il rinascimento gastronomico introdotto da Carême abbia favorito la commistione di creatività e tecnica, la cucina non si è mai levata di dosso la relazione che intrattiene con l’utile, rimanendo ancorata a quelle téchne umane simpaticamente associate a un abile espressione di eccentricità artigiana, alle quali mai fino in fondo viene riconosciuta la dignità di arte. Può esserci utile inquadrare ulteriormente la questione specificando che il problema sollevato di certo non ignora i celebrati e patrimonializzati piatti della tradizione popolare (che però in quanto tali risultano il più delle volte senza un autore), bensì tende a mettere in luce quell’autorialità non riconosciuta.

La presenza della figura di Carême in questo articolo è volta appunto a sottolineare che l’elemento di novità sta appunto nell’introduzione di un’etica legata a un’estetica personale, sintetizzata in un artefatto che lo chef propone attraverso le sue conoscenze, rendendo la degustazione un’esperienza narrativa capace di esprimere tramite un progetto intenzionale l’intima visione dell’autore.

Nonostante noti chef contemporanei come Bottura, Marco Pierre White o Nadia Santini godano di una fama notevolmente superiore ai loro predecessori, venendo celebrati attraverso i canali comunicativi contemporanei, questo non basta per rompere quella membrana reazionaria che impedisce alle loro creazioni di finire nei manuali di arte contemporanea affianco alla storia del design o all’archeologia industriale.

Se dovessimo analizzare la natura di questa incomprensione culturale si potrebbero individuare almeno quattro diversi elementi simbolici propri del mestiere culinario in conflitto con quell’insieme di valori che comunamente si associano all’artefatto valevole di patrimonializzazione museale o all’autore degno di riconoscimento: 

  1. Il piatto vive di una qualità estremamente effimera. Se non riceve le attenzioni a lui preposte, nel giro di pochi secondi passa dall’equilibrio alla decomposizione. Non servono guerre, terremoti o secoli, la giornata in poche ore vince sulla ricetta, togliendole la possibilità di diventare rovina. Instabile e precaria la pietanza della nouvelle cuisine ci ricorda della sua natura corruttibile privandoci della possibilità di esporla rendendola così fruibile ad un pubblico che attorno a lei possa costruire la propria identità storica. 
  1. Sebbene mangiare sia spesso mangiare assieme, il carattere squisitamente privato della degustazione nasconde la qualità dell’artefatto all’interno del gusto soggettivo rendendo ardua o soggettiva ogni descrizione che voglia spostare l’attenzione dal tecnico verso l’artistico.  
  1. Il legame che la gastronomia intrattiene con la consumazione non passa in secondo piano. Tagliare, svellere, bucare, strappare, bruciare, i gesti estremamente indelicati che la brigata compie nei confronti della materia urtano la psiche di chi crede che l’arte sia una disciplina candidamente spirituale. Non è di certo questa la sede per analizzare le ragioni per le quali non amiamo ricordarci di quelle attività riconducibili alla nostra condizione animale. Resta il fatto che per quanto raffinato possa essere il piatto, alla fine ciò che rimane sarà sempre un rifiuto da lavare via.  
  1. In fine il mestiere del cuoco è un mestiere servile, in uniforme. Sia lo chef che il cameriere risultano figure ostili all’idealizzata immagine dell’artista bohémien libero da ogni regola o commissione. Il ristorante non può permettersi di prendersi i suoi tempi, il cliente va servito subito, se costui necessita di variazioni al menù bisogna accontentarlo, sorridere, inchinarsi salutare sempre etc. 

Potrebbe sembrare un eccesso di zelo, porre sotto l’attenzione patrimoniale qualcosa che si ha sempre a portata di mano e che da tutti quotidianamente può essere replicato. Eppure la cucina gemellata alla dietetica è tra le prime e più antiche manifestazioni di cultura. Finalmente padrone della natura, l’uomo, emancipato dalla dimensione ferina è in primo luogo un uomo che cucina, che trasforma, raffina e corregge. 

Il creare, come il cucinare è perciò una testimonianza antropica esattamente come il gusto, e i suoi architetti sono un prodotto culturale che come tali richiedono gli venga riconosciuto un ruolo meritevolmente tutelato all’interno di quelle manifestazioni di civiltà che contribuiscono allo sviluppo umano. Come l’artista non può rimanere sordo nei confronti dei cambiamenti sociali, anche lo chef ascolta e ripensa costantemente il menù a partire dai mutamenti del territorio e del gusto contemporaneo.

Ne era perfettamente cosciente August Escoffier, altra fondamentale colonna della haute cuisine, che nella sua Guida Culinaria scrive: «L’Arte Culinaria dipende dallo stato psicologico della società e segue necessariamente e inevitabilmente gli impulsi che ne riceve». Esattamente come nelle arti figurative il mondo della gastronomia contemporanea ha in sé una vasta tipologia di approcci che oggi continua ad arricchisti e a diversificarsi.  

Quella lotta con la materia che Tapies considerava come prassi necessaria per l’artista contemporaneo non può che essere tra i primi pensieri di chiunque abbia anche solo sbirciato nelle cucine dei ristoranti. La risignificazione dei materiali a posteriori di una profonda conoscenza del mezzo, è un altro elemento in comune che gli artisti dal Novecento in poi hanno con i protagonisti della cucina contemporanea.

Ne è un perfetto esempio la consapevolezza simbolica di chef come Matias Perdomo, che con la sua  interpretazione della cipolla caramellata trasforma una materia prima spesso relegata ad accompagnamento (che in oltre porta con sé il ricordo sociale della sommaria alimentazione delle fasce più povere) nella  protagonista di un raffinata chiusura del pasto. Perdomo, su un cumulo terra nera al pan di spagna adagia una sottile ampolla rossa di caramello soffiato a vetro dove al suo interno vengono inserite una marmellata di cipolle di tropea e sifonata una mousse di latte di capra. 

Nonostante il richiamo all’immaginario contadino sia incontrovertibile, la dimensione agreste fatta di sapori e momenti decisi e tal volta violenti viene trasmutata nella delicatezza del cristallo, mentre l’acidità della cipolla si risolve pacificandosi nella dolcezza morbida del latticino. Il conflitto in cucina viene dunque sfruttato, fomentato, controllato e risolto, con un’abilità che nulla ha da invidiare alla produzione letteraria. La ristorazione oggi ci offre la possibilità di riconciliare la distanza che vede separata la dimensione corporale delle necessità da quella spirituale del desiderio. 

Nel ristorante siamo nel luogo del rito, e delle arti, del privato e del convivio, il luogo di una concessione intima e straordinaria che ci si regala a fine giornata, dove qualcuno per noi con misura e prudenza, oltre la scena, maneggia il fuoco, che come una passione adulta non consuma ma cucina. Nella gastronomia viene perciò dimenticata la gerarchia animale del bisogno in favore di quella umana del desiderio.

In fine la tavola imbandita eredita l’energia della comunità stretta attorno al focolare dove il ribaltamento simbolico della consumazione passa attraverso il silenzio della masticazione procedendo verso a quello dell’ascolto. Così la tavola imbandita diventa un fuoco che parla, dove il carisma del piatto come la fiamma consolida la festa degli uomini (Bachelard) verticalizzando in se un’attenzione tesa verso la cura del raccoglimento e dell’ascolto. 

di Francesco Pipitone 

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