Premiato come miglior sonoro e miglior film internazionale agli Oscar 2024, ‘The zone of interest’ (La zona d’interesse, ndr) di Jonathan Glazer ci conduce nel fondo dell’orrore concentrazionario, ove ogni traccia della memoria potrebbe sparire lasciando scampo all’oblio. «Prima le orecchie!» insiste il regista, lasciando atterrito lo spettatore di fronte alla poderosa inversione messa in opera dalla pellicola che, mentre restituisce sonorità permanente all’orrore interno ad Auschwitz, riserva solamente al teatro totalitario la policromia e il movimento tipici dello spettacolo della società di massa.
Alla visibilità dell’ordine fondato sulla negazione dell’alterità fa da contraltare il rumore confuso della ‘fabbrica della morte’ per antonomasia. Assuefatti dal ronzio del filo spinato e della ventilazione che seguiva per una ventina di minuti le carneficine delle camere a gas, costante per tutta la durata del film, a stento distinguiamo, tra il rombo dei forni crematori e gli spari, le urla e i pianti dell’annientamento che ha steso un velo d’assoluto anonimato sulle vittime.
Misurare il grado di prossimità al nulla meticolosamente progettato dagli artefici dello sterminio è forse inevitabile, tanto più quando una lettera aperta denuncia il discorso tenuto in sede di premiazione dallo stesso Glazer che, rivolgendo la memoria del film al tempo presente, avrebbe minato l’ebraicità del genocidio[1]. Non sono mancati dunque toni critici che farebbero della non-visibilità dei deportati un motivo per smarcarsi dall’oneroso compito della rappresentanza delle vittime e, finanche, un ricercato occultamento che gli permetterebbe di tenersi scaltramente entro i confini della vantaggiosa zona neutrale[2].
Più prudente e forse meno politicizzato è il giudizio secondo cui il pluripremiato cineasta, per non arrischiare in scelte artistiche che, complice l’incapacità dello spettatore, potrebbero ridimensionare l’orrore dello sterminio, avrebbe toccato con la sua pellicola il punto estremo dell’Holokitsch, un genere che comunque, per la stessa definizione del suo coniatore – Art Spiegelman –, tradirebbe la hybris dei suoi artefici[3]. Il legame tra l’estromissione di ogni parola soggettiva e l’impossibilità di dire il tutto della Shoah va qui da sé. Dopo dieci anni dal suo ultimo lavoro cinematografico (‘Under the skin’, 2013), Glazer ci pone di fronte a tracce stilistiche in grado di condurci entro la radicale messa in discussione di quella rappresentabilità omologante che, astraendo e circoscrivendo l’esperienza dell’orrore, ne minaccia la riduzione entro i confini della visibilità immaginifica. «A cosa serve far provvista di colori a chi non sa cosa deve dipingere?»[4].
La continuità in movimento dello spettacolo risulta continuamente intercettata. Le redimenti incursioni notturne di un’ignota bambina all’interno della zona di lavoro dei prigionieri di Auschwitz, riprese in bianco e nero dalla fotocamera termica, sospendono «il tempo omogeneo e vuoto»[5] della narrazione per attuare un prodigioso scambio, unico seppur indiretto contatto con i concentrazionari. Tra le pale e i cumuli di macerie presso cui lavorano i detenuti, mentre ella dissemina dei frutti per gli ultimi, ne raccoglie un doloroso canto di liberazione che, impresso su un foglietto sciupato, potrà suonare alla luce stantia del mondo assopito.
Anche il progressivo scadimento della continuità narrativa dai colori freddi nella visione di uno schermo rosso e, sopratutto, lo schermo monocromo, nero e carico di confuso terrore per l’udito, posto come inizio assoluto del film, sono sintomatici della contestazione al riduzionismo contemplativo dell’immagine. L’assenza di principio luminoso dell’esordio sembra in particolare voler attivare la memoria, condurla a farsi carico dell’oscurità elusa, fino alla sparizione annichilente, da ogni comprensione che si pretende ultima, forse proprio perché ‘radicata’, come volevano i Lichtmenschen del nazionalsocialismo, in una presunta origine ineludibile.
‘The zone of interest’ porta la memoria a farsi carico dei detriti attraverso quel montaggio avanguardistico che, sottraendo lo scarto dalla continuità scenica della rappresentazione ‘totale’, ne rovescia l’oblio distruttivo nell’attiva contestazione di un perenne straniamento dell’origine.
Limitrofa alla recinzione in cui si trovavano coloro che erano stati conformati a ‘pezzi’ (Stücke) o, quando cadaveri di cui dovevano scomparire persino i residui ultimi, ‘figure’ (Figuren), si palesa l’abitazione coniugale che invera il progetto di Rudolf Höß – «E questo scopo, di avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e per i nostri figli, rimase un punto fermo anche negli anni che seguirono»[6]. Comandante di Auschwitz fino al 1943, fu ideatore di quegli strumenti che permisero l’estromissione dell’annientamento da qualunque impiego utilitario, sancendone così il carattere assoluto: le ‘unità combinate speciali’ (strutture dotate di un’anticamera, di una camera a gas e di un forno) e l’impiego dell’acido cianidrico, lo Zyklon B, al posto del precedente monossido di carbonio nelle gassazioni dei deportati.
Proprio sull’oblio dell’altrove si erge imbelle la famiglia Höß, mossa dal mito del ritorno alla comunità originaria, riprodotto tanto nelle escursioni naturalistiche quanto nelle contemplazioni festive del giardino edenico, e dall’implacabile desiderio di riscatto socio-economico che vorrebbe arginare entro i confini del teatro organicista. L’ambiguità è evidente nell’idea di Lebensraum sguainata dalla signora Höß in difesa del suo prepotente desiderio di benessere, allorquando il radicamento dell’intera famiglia ad Auschwitz viene minato da un’inaggirabile trasferta di lavoro del consorte. Trincerata ideologicamente e di fatto in una sezione domestica dei territori conquistati, Edwig rivela le contraddizioni di una concezione oscillante tra l’identificazione dell’individuo col Terzo Reich, orientato all’espansione verso est, e la privatizzazione dell’interesse comune.
Dalla riduzione dello ‘spazio vitale’ a dominio coniugale – «questo è il nostro Lebensraum!» -, in un crescendo, dichiara di non voler in alcun modo seguire Rudolf nel suo trasferimento a Oranienburg, rivendicando per il suo personale regno a conduzione femminile l’isolamento d’elezione che la Volksgemeinschaft riservava alla nazione e alla razza biologica. È la stessa «regina di Auschwitz», come Edwig si definisce compiacendosi della domus di fronte alla madre, che al culmine della sua fede nazionalsocialista si fa interprete della volontà del Führer, rendendoci esplicito lo scadimento della presunta universalità dello ‘spirito del popolo’ nell’indaffarato e frenetico perseguimento degli scopi quotidiani. L’affermazione del dominio individuale sulla zona domestica contigua al campo, se da un lato acuisce l’opposizione tra pubblico e privato sulla base della tradizionale differenziazione dei sessi, dall’altro ci mostra l’inarrestabile frammentazione a cui va incontro «l’isolamento della trascendenza».
Quando Rudolf Höß, dopo oltre tre anni di feroce attivismo in cui era ormai divenuto un «tutt’uno con Auschwitz»[7], diviene capo dell’Ispettorato dei campi, inizia a soffrire lo sguardo esterno e generico del burocrate. Impossibilitato a guardare dall’interno la sua zona d’interesse, l’ex comandante si aliena in rappresentazioni immaginifiche dello sterminio che, confondendosi con la malinconia degli affetti privati, segnano la completa separazione dalla sfera pubblica.
… vedo una folla innumerevole di individui simili e uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziare il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente…[8]
La pellicola mostra la contaminazione dell’indifferenza separatrice che attraversa la società di massa fino al residuo ultimo dell’alienazione, la museificazione dell’orrore. Rudolf, in un primo istante verosimilmente entusiasta di aver comunicato per telefono alla consorte la possibilità di attuare nuovamente il sogno concentrazionario, scende scalini alternando conati di vomito fino a voltarsi, sulla soglia di un pianerottolo, verso gli spettatori. La vicenda storica di Höß viene soffocata da uno schermo nero puntellato al centro da un foro luminoso, ma lo spioncino, presumibilmente quello della porta delle camera a gas attraverso cui l’SS verificava che i deportati fossero tutti morti, ancora una volta, ci estromette dalla personificazione dell’orrore.
Se la continuità col vissuto è l’esclusiva del primato accordato all’immagine visibile, che pretende di restituirci l’eterogeneità reale esibendola secondo differenti mezzi tecnici, Glazer ci conduce attraverso il medesimo medium, lo spioncino di una porta, nelle attuali sale museo di Auschwitz, dalle ‘barelle’ dei forni crematori su cui venivano posti, due a due, i cadaveri fino agli utensili da lavoro dei detenuti, ora vetrinizzati. Là dove i prigionieri del Sonderkommando addetti alla pulizia delle camere a gas erano obbligati a negare i residui ultimi dell’annientamento, il personale attuale del museo tira a lucido, lavando vetri e pavimenti, «l’affermazione di ogni vita umana come semplice apparenza».
Portandoci ad osservare gli effettivi oggetti dello sterminio di fronte cui lo spettatore rimane comunque assopito, ‘The zone of interest’ rinfocola l’annosa questione sulla rappresentabilità dell’olocausto, posta sullo schermo la prima volta dal film documentario di Claude Lanzmann, ‘Shoah’ (1985). «L’immagine non è “né tutto né niente”»[9]. Glazer mette in opera l’ascolto dell’orrore avendo alle spalle un ampio repertorio d’immagini sedimentate nella memoria, sono infatti oltre due milioni le fotografie disponibili che ci sottraggono dal rinnovare la ‘profezia’ hitleriana sul nemico invisibile, stereotipo per eccellenza dell’ossessiva topografia antisemita.
Nell’agosto del 1944 furono proprio alcuni prigionieri del Sonderkommando di Auschwitz II a strappare coraggiosamente quattro scatti dal processo d’annientamento industrializzato, i negativi furono poi nascosti in un tubetto di dentifricio e incredibilmente giunsero alla resistenza polacca. Il regista non sembra ignorare la vicenda, né l’esigenza di visibilità che successivamente portò le quattro fotografie ad essere manipolate al fine di perfezionarne la resa, finendo così per rendere l’esperienza terrifica di quegli scatti uno scarto eliminabile, una deformità riducibile alla più nota rappresentazione scenica del reale. Sicché, nel mezzo del vociferare delle amiche con cui la signora Höß si diverte a scegliere tra vestiti ed effetti personali di cui sono state spogliate le detenute, emerge un diamante nascosto in un tubetto di dentifricio e, assieme al prezioso contenuto, la smania di possederne sempre più – «Nell’incertezza li ho svuotati tutti!».
Dislocando l’insospettabile oggetto dal vissuto storico dei prigionieri del Sonderkommando e reinserendolo nelle brame delle mogli dei comandanti, Glazer restituisce all’immagine il suo valore dislocante mentre lancia un monito contro l’assuefazione dello spettatore. Una certa insistenza topografica e avidità ottica si ripercuotono infatti nelle descrizioni dialettiche del potere, fino ad esigere l’esclusiva rappresentazione dell’orrore in quanto soggetto visibilmente riconoscibile. Inconfondibilmente incarnato e stereotipato nella sua divisa, il presenzialismo dell’orrore reificato, arginando l’attuazione dell’orrore presente, conferma la nostra effettiva assenza da una realtà per noi inestricabilmente legata alla disponibilità visiva dell’immagine.
Cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l’orizzonte, è illusoria. Più poetico è il film, più questa illusione è perfetta. La sua poesia consiste nel dare allo spettatore l’impressione di essere dentro le cose, in una profondità reale e non piatta (cioè illustrativa). La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un «altrove» fisico per sua natura «profondo» – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita[10].
Se l’invisibilità come limite negativo del campo del rappresentabile può facilmente scivolare in quelle forme di negazionismo mascherate dietro l’impossibilità di dire propriamente l’unicità della Shoah, assimilata e ricondotta ad altre forme di massacro tramite comparazioni omologanti, così non è per la non-visibilità in cui è il suono dell’orrore a divenire preminente. L’ascolto di Auschwitz spossessa l’assenza della dimensione ottica dal suo potere annichilente, poiché la lontananza da cui proviene non è sintomo d’indifferente distacco, bensì apertura della memoria all’altrove dell’esperienza, sovversione dell’orrore ‘indicibile’ in ciò che deve, proprio in quanto scarto di ogni comprensione definitiva, essere ininterrottamente «strappato al silenzio».
Al dovere del ricordo (zakhòr), Glazer affianca un’ulteriore attività della memoria, l’ascolto (shemàh), termine che nella Torah include il latino ob-audire in quanto attenzione posta sulle parole, i rumori ed i silenzi che l’udito può cogliere. Porsi in ascolto significa allora far intercettare la pretesa continuità del vissuto dall’intromissione di quegli influssi stranianti, non per questo irreali, capaci di distanziarci dall’adesione irriflessa ad un’apparenza verosimile. «La vera immagine del passato passa di sfuggita»[11], riattivarne il ricordo significa rivolgere la memoria contro l’alienazione immaginifica che, astraendo i detriti dal loro intimo altrove, ne sospende ‘l’indicibile’ in un’iconodulia silente. È dal fondo sonoro dell’orrore concentrazionario che emerge un assordante «no all’oblio».
di Sara Bruciamonti
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Bibliografia
- La notizia del 19/03/2024 è riportata da differenti testate – https://variety.com/2024/film/
news/jonathan-glazer-oscar-speech-zone-of-interest-open-letter-1235944880/. - Vedi, ad es., Ben Shapiro: Jonathan Glazer’s evil Oscars display, Grands Forks Herald, 17/03/2024.
Pareri analoghi sono stati espressi su X da Michael Freund, Batya Ungar-Sargon e Abraham
Foxman. - Richard Brody, “The zone of interest” is an extreme form of holokitsch, New Yorker, 14/12/2023.
- M. Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano 1992, 1. II, p. 434.
- «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello
pieno di attualità» in W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Milano 2012, XIV tesi, p.
19. - Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 2014, p. 43.
- Rudolf Höss, cit., p. 141.
- A. De Tocqueville, La democrazia in America, Utet, Milano 2019, p. 812.
- G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005, p. 89.
- P. P. Pasolini, La musica nel film, 1972.
- W. Benjamin, cit., V tesi, p. 12.