Prolisse creature

Non sarò breve, anche perché volendo commentare Povere creature! sarebbe difficile riuscirci. Il film di Lanthimos è un buon film che merita i riconoscimenti ottenuti agli Oscar 2024, ma ha almeno un difetto, evidente quanto le scarnificazioni di Godwin (personaggio chiave nella storia). È un film prolisso.



Per chi non lo avesse ancora visto Povere Creature! è una rivisitazione e, al contempo, una sorta di doppelgänger di Frankenstein o il moderno Prometeo, il noto romanzo di Mary Shelley. Doppio deviante, doppio capovolto persino.

Innanzitutto la creatura questa volta è femmina, bellissima e adorabilmente infantile (il sogno paternalista d’ogni maschio seduttore) mentre a essere orribile e segnato da cicatrici deturpanti è colui che, in altri tempi, sarebbe stato definito “lo scienziato pazzo”.

Il film è denso di temi e aperto a vari livelli di lettura anche se questa ricchezza di interpretazioni è forse dovuta più al romanzo della Shelley che al film stesso. Un tema evidente nel film è quello dell’emancipazione femminile che infatti è presente anche in Frankenstein.

Se, però, quel che balza agli occhi nel romanzo è la marginalità del femminile, sfruttato e piegato agli interessi maschili, tanto che le donne sono private persino d’una voce (il romanzo è scritto dal punto di vista di tre uomini) nel film di Lanthimos si ribalta la prospettiva e si mette al centro la donna al costo però di mostrificarla.

Non nel corpo, come si è già detto, ma negli atteggiamenti. La protagonista, Bella, manifesta infatti una sessualità famelica, apparentemente anormale; dico apparentemente perché il corpo e la sessualità sono nel film non tanto una via verso il piacere quanto il campo e la metodologia privilegiata per la conoscenza del mondo (e non c’è nulla di anormale nel voler conoscere).

Nel film si tocca poi ripetutamente un tema che è quello dell’etica della conoscenza scientifica e della conoscenza tout court.

Anche questo tema, naturalmente, era già presente in Frankenstein e, come già suggerisce il riferimento a Prometeo del titolo, nel libro si affronta il tema classico della conoscenza come atto titanico, eccessivo, gesto di hybris destinato quindi alla punizione.

Il film di Lanthimos al contrario sembra partire dall’assunto nicciano che il Dio crudele dell’antico testamento (evocato nella figura del padre di Godwin a sua volta scienziato) è morto e, ad esso, s’è sostituita una scienza umana anche se, magari, troppo umana (incarnata da Godwin) in cui sperimentazione e osservazione sono sempre in bilico tra orrore e incanto, tra sfida a una natura matrigna e salvezza data dal sapere.

A proposito di conoscenza. Quella “biblica” non è affatto disdegnata nel film, anzi. Se Bella finisce in un bordello in cui si sottopone a pratiche sessuali grottesche con clienti che sono quasi figure mostruose, si ha l’impressione che, più che in un lupanare, ci si trovi di fronte ad un gabinetto delle curiosità, a una fiera di chimere.

In effetti per Bella il bordello è occasione di conoscenza dell’Uomo (non solo del maschio) e l’alcova è, da un lato un palcoscenico, dall’altro lato il luogo privilegiato per uno studio psico-antropologico.

Non è però solo la “mostruosa” Bella ad avere desideri di conoscenza abnormi.

Anche Godwin e il suo assistente sono sempre alle prese con operazioni che fanno sorgere il dubbio che sia il conoscere in sé ad essere una pratica grottesca, non priva di risvolti teatrali e, a volte, persino dominata da un gusto, un po’ eccentrico, per gli ibridi e per le chimere.

Vi è poi infine un ultimo piano di lettura che anche esso era già presente Frankenstein e che sarebbe forse quello da privilegiare.

Il novello Prometeo della Shelley, in fondo, non è che un’elaborata metafora del rapporto, poco pacificato, tra un Padre eletto (lo scienziato) e un figlio negletto (il mostro). Questi sono, a loro volta, doppi del Creatore e di Cristo.

Le ferite e le cicatrici della creatura rimandano metaforicamente e in maniera mostruosa alle cicatrici sul costato e sul volto di Gesù, unico uomo ritornato in vita dalla morte (almeno fino alla momento in cui è apparsa la creatura di Victor Frankenstein).

Nel film tuttavia non si tratta tanto della questione religiosa dei rapporti tra Uomo e Dio o di uno scienziato che gioca a fare la divinità, quanto della questione esistenziale e comune del rapporto tra genitori e figli.

Creatura di Frankenstein e Cristo, sono entrambi figli.

Figli che sono, simbolicamente, ogni figlio e che, come tali, non possono che porre che una sola e ossessiva domanda: perché? Perché farmi nascere o persino farmi ritornare dalla morte se poi il vivere prevede comunque la sofferenza?

Similmente la protagonista del film di Lanthimos è alle prese con gli stessi problemi, quelli che ciascuno di noi affronta solo per il fatto stesso di essere vivo: che senso ha la vita? Che senso ha lo scandalo del dolore? In che misura ciascuno di noi è determinato dai propri genitori e in che misura, invece, ciascuno di noi è libero di percorrere una strada tutta sua, fosse quella del piacere o fosse quella dell’amore?



A chi vedrà o ha già visto il film non sfugga, inoltre, che Godwin è il cognome del padre di Mary Wallstonecraft Shelley (che usava il cognome della madre morta nel partorirla).

Il film di Lanthimos a questo punto, non è più solo una riflessione sui rapporti padri-figli e non è più solo un film sulla figura femminile in generale, ma anche su una figura di donna e di figlia in particolare: Mary Shelley.

Questo aspetto è forse l’aspetto più originale messo in campo dalla storia di Povere Creature!. Mary Shelley era figlia di un utopista e illuminista inglese, ma era anche figlia di una donna altrettanto brillante ma meno fortunata, dato che morì nel mettere alla luce Mary Shelley. Difficile essere ottimisti se, nell’animo, devi scontare il fatto di essere venuta al mondo avendo ucciso tua madre. Da qui il tono cupo della sua opera.

Il film di Lanthimos rielabora l’eterna questione genitori-figli, Dio e creature invece in modo molto più pacificato rispetto al Frankenstein di Mary Shelley. Per Lanthimos i nostri genitori ci amano e se ci hanno messo al mondo è perché potessimo migliorarlo ed essere felici; è quindi giusto essere loro riconoscenti.

Della tragedia gotica della Shelley resta quindi solo il carapace e Frankenstein viene anzi capovolto in una brillante e politicamente corretta commedia progressista.

Come si direbbe oggi, usando una parolaccia anglosassone, di female empowerment, in cui, alla fine, il femminismo vince e il maschio patriarcale è ridotto all’ebetismo che indubbiamente si merita. Alla fine vissero tutti felici e contenti in un giardino fantastico come il paradiso terrestre.

Da un film con così tante cose da dire, un film oltretutto di un autore sempre molto filosoficamente profondo, ovviamente, non ci si poteva aspettare certo troppa brevità. Tuttavia non è sulla lunghezza (in sé nemmeno mostruosa) che si vuole puntare il dito, bensì verso il vero limite del film che è la sua prolissità, ovvero la ricchezza di pleonasmi filmici, di ripetizioni di concetti e di scene.

Il punto è che tale prolissità dell’opera non sembra sia sempre al servizio di una maggiore comprensione della storia e nemmeno serva all’approfondimento psicologico dei personaggi.

La ridondanza riguarda nella prima parte gli appetiti sessuali di Bella e può essere forse giustificata dalla necessità di mettere in evidenza una sessualità mostruosa con una altrettanto mostruosa voglia di conoscere (e di essere conosciuta) ma d’altro canto se è vero che Bella scopre il sesso con la gioia e la giocosità di una bambina e se è vero che i bambini amano ripetere i loro giochi, è anche vero che il concetto poteva essere ridotto ed espresso in un’unica sequenza.

Si aggiunga poi che la vera mostruosità, quella che comporta la scoperta del dolore e della sofferenza umana, la visone della fame e dello squallore della morte, è invece liquidata brevemente in un’unica scena, sviluppata anche in maniera rapida.

A cosa è dovuta tale prolissità? L’impressione è che dietro ci siano ragioni produttive.

Il costo di un biglietto al cinema è sempre più alto e il prodotto film ha bisogno di essere giustificato anche in termini di durata. L’idea è che a parità di costo, insomma, l’utente tenderà a scegliere il film più lungo che gli permetterà di trascorrere più tempo in sala. Un film breve non sarebbe competitivo da un punto di vista quantità-prezzo.

A confermare questa ipotesi c’è il fatto che quello di Povere Creature! non è un fenomeno isolato. Basti guardare l’ultimo film di Scorsese, Killers of the flower moon. Anche questo un film di qualità, sicuramente da vedere, ma che in questo caso non è solo assai prolisso, ma anche mostruosamente lungo.

Dietro alla prolissità dei film odierni però non ci sono forse solo ragioni commerciali, bensì anche tecniche e registiche. Le ragioni tecniche stanno nel fatto che l’utilizzo di telecamere digitali consente di girare di più a minor costo.

Questo significa che molti film si ritroveranno con più girato e con più girato valido rispetto al tempo in cui si girava in pellicola. Da qui la difficoltà in montaggio di eliminare il superfluo.

Tuttavia da sempre i grandi autori si caratterizzano per la loro spietatezza nel lavoro di lima e sia Scorsese che Lanthimos sono certo novellini.

Da qui la necessità di considerare la prolissità come una scelta registica. Il consumo di film è sempre più legato all’ambiente domestico dove il film può essere interrotto, ripreso, visto in maniera distratta (“mi passi il gelato? Vai a prendere due birre?”…). Forse i registi scafati cominciano a prendere in considerazione la ridondanza e la ripetizione come necessità estetiche.

Un po’ come avveniva nel linguaggio di Shakespeare. All’epoca del bardo inglese, lungi dall’assistere allo spettacolo teatrale con atteggiamento sacrale, durante la messe in scena avveniva tra il pubblico quasi di tutto, dal mangiare al fare all’amore al picchiarsi, solo poi, già che si era lì, si seguiva lo spettacolo. Se il pubblico è distratto allora meglio rispiegare la questione, si deve essere detto il buon William.

Da qui la necessità di inserire personaggi che ripetono altri che li hanno preceduti.

Forse anche Yorgos deve aver pensato qualcosa di simile. Il rischio di una tale scelta è quello di adeguare il film alle necessità del pubblico invece che a quelle intrinseche dell’opera d’arte e di essere padri di creature sempre più prolisse.

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.

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