L’istinto in Darwin e in Nietzsche

Pensatori fuori dal coro

Le riflessioni intorno al concetto di istinto sono ampiamente presenti nella storia della filosofia e sono segnatamente legate alla prospettiva dualista in quanto tale concetto viene tradizionalmente associato alla sfera corporea, quale risposta “automatica e innata” del corpo a determinati stimoli.

L’istinto assume conseguenzialmente un’importanza centrale anche nel corso del dibattito del XIX secolo, in seno allo sviluppo delle varie teorie evoluzioniste, nelle quali viene adoperato quale mezzo per comprendere i comportamenti innati che si sono sviluppati attraverso il processo evolutivo.

Infine, una certa accezione di istinto è stata funzionale alla retorica antropocentrica, in quanto sostenere che solo gli esseri umani possano essere in grado di agire in base a motivazioni razionali e consapevoli e affermare, di contro, che l’istinto pertenga agli altri animali e degradarlo, qualora lo si trovi nell’essere umano, a residuo “animalesco”, è un assunto che contribuisce a legittimare antropocentrismo e specismo, tanto in ambito filosofico quanto in ambito scientifico.


Nel corso della riflessione sull’istinto Darwin e Nietzsche emergono come voci fuori dal coro poiché entrambi rompono con la tradizione precedente, offrendo una visione più dinamica e interconnessa delle facoltà umane, portando quindi avanti una critica alla tradizione dualista.

Per Nietzsche si tratta soprattutto di ridefinire una «genealogia della morale» mentre per Darwin si tratta di utilizzare il concetto di istinto nella riflessione sull’evoluzione. La loro critica ai dualismi semplificati e, più o meno esplicitamente, all’antropocentrismo contribuisce a ridefinire il dibattito intorno alla nozione di istinto.

Darwin, nel corso della stesura della teoria dell’evoluzione, attribuisce un ruolo centrale al concetto di istinto e contribuisce a costruire le fondamenta per il dibattito sul tema.

Nell’opera L’origine delle specie (1859) e in seguito in L’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali (1872), Darwin evidenzia la continuità tra le forme di vita, sottolineando l’importanza degli istinti nella sopravvivenza e nell’adattamento.

La selezione naturale favorisce gli individui con istinti utili alla sopravvivenza, contribuendo così alla trasmissione di caratteristiche adattative attraverso le generazioni. Secondo Darwin, la trasmissibilità degli istinti testimonia il loro radicamento nelle strutture corporee.

Partendo dalla convinzione sulla materialità sia degli istinti sia delle facoltà mentali, Darwin collega l’indagine sull’origine degli istinti a quella sulle origini delle strutture corporee, sostenendo che entrambe debbano rispondere alle stesse leggi naturali, intese come dinamiche selettive.

Contrariamente all’innatismo classico, Darwin respinge l’ipotesi lamarckiana di istinto come «conoscenza ereditaria». Riduce notevolmente il concetto di istinto, considerandolo uno dei tanti strumenti conservabili tramite la selezione; inoltre concepisce gli istinti come parte di un «bagaglio di strumenti cognitivi» di grande valore biologico, ma distinto da un contenuto ideale e prescrittivo.

Gli istinti, secondo Darwin, non sono più «capomacchina» ma «bussole incorporate» orientando, ma non determinando, un agire intelligente.


Per Darwin, agire intelligentemente significa la capacità di considerare le circostanze presenti alla luce delle esperienze passate e in vista delle proprie preferenze o scopi.

Questa nuova dimensione darwiniana dell’agire istintivo permette l’apporto dell’esperienza individuale e del “grado innato di intelligenza”, che possono influenzare gli istinti in varie sfumature a seconda delle circostanze, degli individui e della storia generazionale di una specie.

In questa prospettiva, Darwin ridefinisce l’istinto come una forza più plastica e meno deterministica.

Darwin si muove verso il depotenziamento della dicotomia tra istinto e ragione proprio in virtù della prospettiva evoluzionistica e grazie all’analisi scientifica del comportamento animale.

Anziché considerare istinto e ragione quali forze contrapposte e nettamente separate, Darwin suggerisce una visione più integrata e continua di queste facoltà e lo fa anche facendo emergere la criticità insita nella visione antropocentrica che considera l’essere umano come il punto culminante della creazione, attribuendo conseguenzialmente un’importanza distintiva alla razionalità umana rispetto agli istinti animali.

La riflessione darwiniana infatti evidenzia l’estrema somiglianza tra le espressioni emotive degli animali e degli esseri umani, mettendo in crisi così l’idea dell’unicità della razionalità umana.

Tale somiglianza suggerisce che gli animali condividano una gamma di esperienze emotive e comportamentali con gli esseri umani, minando la visione antropocentrica di una netta separazione tra istinto animale e razionalità umana.

Postulando un antenato comune all’interno della riflessione sulla continuità filogenetica tra gli animali e gli esseri umani, Darwin suggerisce che la mente umana e gli istinti animali condividano una storia evolutiva, indebolendo così la distinzione netta tra le basi cognitive degli animali e quelle umane.

Contrariamente alla concezione antropocentrica che riduceva gli atti istintivi degli animali a mere risposte automatiche, Darwin suggerisce che anche gli animali possiedano una forma di volontà che va oltre la mera risposta a impulsi.

Questa visione contraddice l’idea tradizionale che solo gli esseri umani siano i detentori di una volontà «libera».

Darwin non considera più la razionalità umana come qualcosa di radicalmente differente dagli istinti animali bensì adotta una visione che afferma la continuità evolutiva e la similitudine tra le esperienze cognitive di diverse specie.

In sintesi, Darwin depotenzia la dicotomia tra istinto e ragione mostrando come entrambi siano parte di un continuum evolutivo e come le facoltà mentali siano più integrate e interdipendenti di quanto la visione tradizionale e le precedenti teorie intorno al concetto di istinto potessero suggerire.1

In Nietzsche, come spesso accade, non è semplice definire un concetto tramite una parola, di fatti «istinto» viene utilizzato molteplici volte nel corso dell’opera nietzschiana, spesso con accezioni molto divergenti tra loro ed estremamente ampie.

Ciò nonostante si può intendere la nozione di istinto all’interno della genealogia della morale come quella con maggiore valenza teorica in quanto è proprio qui che Nietzsche utilizza gli istinti come mezzo per ribaltare la tradizionale concezione dell’origine dei valori.

Egli insiste a destrutturare la concezione classica di morale quale applicazione di valori astratti, polemizzando con Platone, con Kant e finanche con Schopenhauer, accusato di non essere «quantunque lo desiderasse»2 realmente pessimista.

Tale classica concezione trova suo stabile fondamento sulla netta separazione dualistica tra mente corpo e nella conseguenziale distinzione tra ragione e istinto; è su queste differenziazioni che si posa l’intero impianto morale della tradizione occidentale, profondamente influenzato dal cristianesimo.

In contrapposizione a questa dicotomia, e alla genealogia della morale che ne deriva, Nietzsche ritiene al contrario che molti valori morali siano in realtà da ricondursi a meccanismi psicologici o a risposte istintuali, a questioni che risultano, al fine, molto più materiali che astratte.

Questi genealogisti della morale si sono mai, fino ad oggi, anche solo lontanamente immaginati che , per esempio, quel basilare concetto morale di “colpa” ha preso origine dal concetto molto materiale di debito?3

Persino la memoria, la mnemotecnica, il mezzo d’elezione dell’intelletto, svela per Nietzsche qualche cosa di terribilmente corporeo e – come si rivelerà – spaventoso: ci si ricorda ciò che ha provocato dolore e ancor più «ciò che non cessa di dolorare».4

La memoria non è dunque un processo neutrale di recupero di eventi passati, ma è intrinsecamente legata al modo in cui l’uomo costruisce le proprie narrazioni.

È dunque fondamentale per la creazione di valori morali, in quanto rappresenta lo strumento con il quale gli uomini attribuiscono significato alle loro azioni e, così intesa, si mostra molto meno neutra di quanto appaia dal momento che il suo stesso processo di formazione è influenzato dagli istinti, prima di tutto quello di sottrarsi al dolore.

In tale contesto Nietzsche può sostenere che la stessa ragione umana, lungi dall’essere una facoltà rigorosa e infallibile, separata da qualsivoglia corporeità, sia intrinsecamente connessa agli istinti e ai meccanismi fisiologico-psicologici.

L’intelletto così inteso, si configura quale una manifestazione fortemente composita di impulso, istinto, forza e «volontà di potenza».

Pertanto l’intelletto non è solo influenzato dagli istinti bensì è, in maniera più radicale, esso stesso un istinto, in quanto appare come un fenomeno dinamico e organico all’interno del quale si ritrova la profonda interconnessione tra la sfera cognitiva e la sfera corporea.

La destrutturazione che Darwin e Nietzsche apportano alla tradizione dualista, in particolar modo alla dicotomia tra ragione istinto pone molteplici quesiti riguardo all’ampiezza di respiro che la concezione di istinto può assumere.

Il confronto tra i due studiosi risulta utile a stabilire cosa si possa intendere per istinto ed eventualmente a svincolare una tale nozione da qualsiasi forma di dualismo.

Solo a partire da questi assunti è possibile inscrivere una tale questione in una prospettiva antispecista che voglia dirsi contemporanea e che voglia assumere dei caratteri prettamente e squisitamente scientifici e razionali.

  1. Per tutta la riflessione sugli istinti in Darwin cfr. E. Giuffrida, Oltre l’istinto: la conoscenza degli animali, dalla reazione alla risposta, Tesi di laurea, Milano, Università degli Studi di Milano, 2022. ↩︎
  2. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2008, pag. 98. ↩︎
  3. Ivi, pag. 51. ↩︎
  4. Ivi, pag. 49. ↩︎

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