«Una ciotola di riso per ogni cinese», diceva Mao. Ma forse a volte non basta.
A rifocillare la nostra fame di argomenti, l’I Ching è pronto con la sua cornucopia di metafore e ci offre il tema del Nutrimento. Il suo simbolo, che fa capo all’esagramma n. 27 del libro cinese, rappresenta graficamente due labbra composte dalle linee intere yang agli estremi, e in mezzo tutte linee yin,che per la loro forma spezzata ricordano dei denti. Si profila l’immagine che fa da sottotitolo: Gli angoli della bocca.
Ci sono varie angolazioni, appunto, da cui osservarla.
La prima inquadra il trigramma inferiore e quello superiore, nell’idea di un nutrimento fisico ma anche spirituale (mens sana in corpore…).
È una verticalità che rischia però di fondare una gerarchia. Si pensi infatti che in molte culture arcaiche il valore del puro commestibile è riservato alle caste più alte. In India i cuochi sono tutti brahmani, perché quest’ultimi non possono accettare cibo infetto dalle mani di un subordinato. Nei Veda, c’è un’ambrosia riservata ai soli dèi che garantisce loro l’immortalità, è il soma (quello ripreso da Huxley), o altrimenti detto: l’amṛta, con la radice di “morte” e l’alfa privativo.
Quando durante un banchetto divino il demone Rahu si intrufolò per carpire l’elisir, la Luna (Chandra) fece la spia permettendo a Viṣṇudi scagliare il suo disco appena in tempo per decapitare Rahu proprio mentre iniziava a berne. Il corpo ne morì ma la testa rimase immortale e vagò per il cielo in cerca di vendetta contro Chandra. Ogni tanto la raggiunge e la inghiotte ma subito, deglutendo, essa torna libera perché sotto il collo non c’è più il corpo a digerirla. Questo mito eziologico spiega le eclissi lunari.
Insomma, il cibo è tanto importante nella cultura indiana da comparire persino nella cosmogonia: per tradizione il mondo proviene dal rimescolamento di un immenso oceano di latte nel quale tutti gli enti si trovavano mischiati.
Si spiega così, forse, il gusto indiano per i pot-pourri (curry, masala), della serie: più spezie si aggiungono meglio è.
Nel testo Milindapañha, dialogo fra il re Milinda affamato di sapienza e il saggio Nāgasena, quando il re chiede filosoficamente al saggio se, dal nostro flusso di coscienza, sia possibile estrarre le componenti del nostro Io (sensazione, percezione, volizione, pensieri), Nāgasena risponde che nella zuppa di latte cagliato è impossibile estrarre gli ingredienti di sale, pepe nero, zenzero e semi di cumino, perché si trovano tutti frammisti.
L’unico modo per discernere gli stati mentali, come fossero le sostanze del nostro Sé, è attraverso la meditazione.
Ecco quindi che la seconda prospettiva da cui interpretare il nostro simbolo è quella che lo considera composto, come sempre, dai due elementi naturali.
Stavolta si tratta della Montagna (Kenn) che sta sopra il Tuono (Cenn), a significare l’altura della saggezza capace di sovrastare i moti dei bisogni corporali. Un epicureismo in senso stretto.
L’esempio migliore in tema gastronomico sono sicuramente le Istruzioni a un cuoco Zen, contenuto nell’opera maggiore del grande monaco giapponese Dōgen, il quale nel 1223 d.C., come si usava allora, giunse in Cina per ricevere l’insegnamento dal capostipite di una scuola Ch’an, tuttavia per problemi tecnici dové rimanere a bordo all’ancora per alcune settimane.
Gli fece visita un cercatore di funghi che lavorava presso un monastero come tenzo, il cambusiere. Dōgen gli chiese ingenuamente perché, anziché dedicarsi alle pratiche spirituali, si limitasse a pelar patate, al ché il cuoco rispose: «Mio buon amico straniero! Tu non comprendi ancora in cosa consista la pratica», illuminando il futuro maestro sul fatto che qualunque mansione e qualunque azione, se svolte concentrati e in pieno spirito, possono dischiudere la verità.
Ecco nato lo Zen. Ecco superata la gerarchia mistico-culinaria dell’ortodossia vedica: anche l’ultimo dei lavapiatti può risvegliarsi.
Dōgen dirà: «Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia».
Queste profonde parole inducono al terzo punto di vista sul simbolo del nutrimento, non più alto-basso, bensì in and out. L’I Ching infatti recita: «Le parole sono un moto che va dall’interno verso l’esterno. Mangiare e bere sono moti che vanno dall’esterno verso l’interno.
Ambo i generi di moto vanno moderati dalla quiete. Così la quiete fa sì che le parole uscenti dalla bocca non oltrepassino la misura e che il nutrimento entrante nella bocca non oltrepassi la misura». Il mantice fra la sistole dell’assimilazione e la diastole verbale e spirituale fa combaciare l’essenza del nutrimento con la sua espressione.
In Giappone ne nascerà una forma sofisticata con la cucina washoku.
Sebbene significhi “pasto” (shoku) “nipponico” (wa), essa è debitrice alla dottrina cinese dei Cinque elementi che si ispirano allo stesso I Ching e alla filosofia Yin-Yang.
L’idea è che a tavola occorre combinare sapientemente i cinque sapori (gomi) – ai quattro tradizionali: salato, dolce, amaro e aspro, si aggiunge l’umami, scoperto nel Novecento da un team di chimici giapponesi analizzando il glutammato monosodico – con i relativi cinque colori degli alimenti (goshoku) e i cinque metodi di cucinarli (goho), ossia crudo, marinato, arrosto, fritto e al vapore. Siamo a un passo da Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss.
Insomma, all’insegna di: anche l’occhio vuole la sua parte, l’estetica giapponese trasforma il banchetto in un’esperienza sinestetica ed estatica, ben descritta da Roland Barthes nell’Impero dei segni sulla differenza fra l’uso delle bacchette rispetto alle nostre posate e molti altri dettagli.
Dettagli, esatto. Chiudiamo così, richiamandoci alla famosa parabola Zen del Buddha che scappa inseguito da una tigre (forse di carta?!), che finisce a precipizio su un burrone e per non cadere si aggrappa a un ramo, con il baratro da una parte e le fauci spalancate dall’altra (gli angoli della bocca!).