Dal libro di San Giovanni all’Antropocene
Il termine “Antropocene” venne coniato nel 2000 dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen, ad indicare l’epoca geologica in cui l’influenza antropica è divenuta superiore ad ogni altro fattore ambientale. L’epoca in cui è la specie umana a rimodellare interamente la Terra, con un’influenza decisiva sul sistema i cui è inserita.
Questo concetto ha però origini più remote; nella seconda metà del XIX secolo, fu il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), a portare l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto una portata globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” la stagione geologica nella quale ci si trovava.
Come definizione scientifica, l’Antropocene indica l’attuale geoera e cioè quella in cui l’ambiente terrestre nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera.
L’impronta dell’umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi», per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin (Orcines, 1 maggio 1881 – New York, 10 aprile 1955), oggi potrebbe e può incisivamente impattare su molte delle dinamiche terrestri, tanto da essere appunto considerato un fattore determinante per lo stato di salute complessivo del pianeta. L’esperienza di convergenza di queste estensioni della presenza umana su scala planetaria si è dischiusa fragorosamente con la recente vicenda pandemica, al punto da richiamare il pensiero contemporaneo a interrogarsi sul pensiero della fine. L’umano come flagello insofferente sul piano inclinato dell’estinzione, milite di speranze ignote ed imberbe al senso del limite.
L’immaginario apocalittico – che riprende e trasforma lo scenario tradizionale religioso nei termini di una calamità determinata dagli sviluppi disordinati della tecnica – sembra avere assunto, decennio dopo decennio, un magnetismo sempre più pervasivo, dimostrandosi la modalità simbolica più efficace per amplificare l’esperienza delle delicate dinamiche della storia recente. La Risposta a Giobbe di Jung, nella quale si affermava l’attualità della vicenda apocalittica, si è dimostrata un testo per molti aspetti lungimirante, pur nei suoi elementi enigmatici.
Secondo Miguel Benasayag e Gérard Schmit (L’epoca delle passioni tristi, 2003), il gusto per la fine del mondo appagherebbe la pulsione di morte introdotta da Freud nel 1920 con il suo saggio Al di là del principio del piacere. C’è infatti, affermano i due autori, «nella distruzione e nella decadenza una forma di attrazione forse aberrante ma innegabile: fa parte della complessità della situazione e dell’uomo».
La sensazione di vivere in un clima insopportabile, dove la pressione è eccessiva e il non-senso pervasivo, condurrebbe a un desiderio di evasione violenta, in cui la minaccia finisce per far saltare il mondo in aria. La percezione collettiva, per i motivi più diversi (alcuni magari anche ragionevoli), è di essere arrivati al limite della catastrofe. In mancanza di un nuovo Noè, gli uomini e le donne gridano “si salvi chi può”, giacché questa è la consegna dettata dal nuovo spirito dei tempi».
Le scene atroci che indicano la fine dell’attuale sistema non vogliono perciò solo spaventare, ma, piuttosto, creare piacere nello spettatore. Nel vedere bruciare la sua società, così cara e così tormentata, l’individuo postmoderno tira finalmente un respiro di sollievo. Non ne può più della sua “post-modernità”, del mito dell’efficienza, della produttività, del consumo. Vuole recuperare un’esperienza più autentica, tornare all’anno zero, vedere le terre emergere dall’acqua come se il cosmo fosse appena nato. Questo denota un bisogno collettivamente percepito di riprendere contatto con i cicli della natura e con gli aspetti più semplici della vita. Ma è davvero sufficiente intendere la fascinazione dell’immaginario apocalittico come una subordinazione del principio del piacere alla pulsione di morte (Freud, 1920)?
L’annullamento delle tensioni, la remissione dalle dinamiche schizoidi che organizzano la civiltà, non sembra infatti essere mosso solo da un’inconscia ambizione a tornare alla quiete del mondo inorganico. L’Apocalisse non è semplicemente l’affermazione collettiva di una noluntas, di una volontà del nulla; ciò che Freud ha chiamato – riprendendo un’espressione di Barbara Low – “principio del Nirvana”. Questa «“tendenza” all’abbassamento fino a un livello zero dell’eccitazione […], alla morte psichica» (Green, 1983) sembra contenere, in sé, anche una fantasia di rinascita; quella palingenesi (da palin, “nuovo”, e genesis, “generazione”) che gli stoici antichi collocavano dopo la distruzione del mondo a opera di una conflagrazione nel fuoco.
In questo senso, le ossessioni suicidarie presenti nell’immaginario apocalittico rispondono non a una volontà di morte, ma di vita. Nel suicidio, scriveva già Arthur Schopenhauer (1819), non si rinuncia affatto al desiderio di vivere: il suicida «vuole la vita, vuole l’esistenza e l’affermazione indisturbata del corpo, ma l’intreccio delle circostanze non glielo consente, il che gli procura profonde sofferenze». Nel suicidio, per il filosofo di Danzica, non è negata la vita, ma le condizioni in cui essa si manifesta. L’Apocalisse, nel suo parlare di distruzione, simbolizza l’esigenza di un annientamento, la tendenza a una regressione, che però contiene in sé la speranza di un ritorno alla fase perinatale della civiltà. Questa condizione aurorale è la vera causa finale dell’Apocalisse in Giovanni l’Evangelista, il nucleo di desiderio che alimenta il magnetismo della catastrofe: «Aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (3,13; 21,1), e ancora, come promessa letterale per ogni anima: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose!” (21,5). È una situazione di cui Jung si è interessato soprattutto in Risposta a Giobbe; solo attraverso la chiusa apocalittica dell’eone cristiano è possibile accedere a un’epoca più integrata.
«Il mistero del rinnovamento è di natura spaventevole». La scoperta della “perla di gran valore” richiede il passaggio in ciò che Hegel definiva il “travaglio del negativo”, una crisi nella quale diviene necessario riscattare l’elemento anticristico della cultura occidentale (la materia, la femminilità, l’aggressività) dal suo millenario stato di separazione. Il confronto con la Madre obbliga a fare i conti con la propria Ombra, la cui inflazione, storicamente concretizzata dalla tracotanza distruttiva della tecnica, costringe a essere inghiottiti nel pericolo della catastrofe. Questo, almeno, suggerisce l’escatologia junghiana, nel tentativo di guardare, attraverso gli strumenti della psicologia analitica, a quel mito del nuovo millennio con cui si apre una nuova stagione della storia umana: «Non penso, con le mie considerazioni sul significato e sul mito dell’uomo, di aver detto una verità definitiva, ma ritengo che questo è quanto si possa e si debba dire alla fine del nostro eone dei Pesci, in vista del prossimo eone dell’Acquario, che è una figura d’uomo e […] sembra raffigurare il Sé» (Jaffé, 1961).
Teilhard de Chardin, il pensatore gesuita che si era già chiesto un secolo fa in che modo l’espansione di specie fosse parte di un’architettura più grande, partì dai suoi studi di paleontologia per consegnare la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più cosciente e complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, e che pervade l’intero pianeta. Quale allora la via in cui l’umanità possa cooperare con questa visione non a immagine e somiglianza dell’uomo, ma di un cosmo dalla tecnologia sopraffina, divina, per facilitarne la realizzazione ed il compimento?
Quel che da tempo sta emergendo, nota Murray Stein (The Principle of Individuation. Toward the Development of Human Consciousness, 2006), è una coscienza ecologica collettiva che riecheggia i miti della Grande Madre. Non però nel senso di una regressione culturale a uno stato pre-tecnologico di identità con un mondo splendente di immagini edeniche; è, invece, un movimento che può portare avanti la coscienza verso l’identificazione dell’umano come coessenziale alla rete che forma l’unità planetaria costituita da un’incredibile biodiversità. La differenziazione (separatio) dalla natura che è stata raggiunta in millenni di evoluzione sarebbe ora sostituita, o, per meglio dire, sarebbe accresciuta, da un nuovo livello di unione (coniunctio) […]. Questo potrebbe motivare gli esseri umani a usare la tecnologia in modo nuovo (p. 139) fin forse a rinvenire, oltre la coltre terribile e minacciosa dell’apocalisse, una restaurazione (apokatastàseos) e una rinascita.
di Carolina Camurati