Baronato e mafia accademica italiana


Nota: una bozza di questo articolo è stata originariamente presentata in lingua inglese come relazione a una conferenza su corruzione e clientelismo globali tenutasi all’Università di Cluj (Romania) nell’agosto 2022. Una sua parte è stata inserita da Giambattista Scirè nella relazione da lui presentata alla Commissione Parlamentare Anti-Mafia sulla carenza di legalità e trasparenza nelle università italiane.



«Comandare è meglio che fottere».
Antico proverbio meridionale


Introduzione

Coloro che studiano la corruzione e il clientelismo si concentrano spesso sul mondo politico in senso stretto: partiti politici, parlamenti, elezioni, e altre istituzioni politiche. La corruzione, però, dovrebbe essere intesa in un senso più ampio, come una mentalità e come una pratica egemonica quotidiana. Secondo i dati di Transparency International sulla corruzione, l’Italia è al 52-simo posto su 180 paesi. Che l’Italia sia un paese fortemente corrotto non è una novità. Questa corruzione, però, è spesso studiata limitatamente ai partiti politici (con un’enfasi su macro-scandali come Mani pulite negli anni ’90), e ai rapporti fra la politica istituzionale e la criminalità organizzata. Anche se questi aspetti sono certamente importanti, la corruzione generale della vita pubblica italiana può essere meglio compresa studiando la corruzione e il clientelismo nel mondo accademico italiano. Come Giulio Palermo ha sostenuto in un suo libro del 2012, gli accademici studiano solitamente il mondo fuori dall’accademia, ma si guardano bene dal riflettere sul proprio mondo[1]. Pertanto, c’è un vuoto che necessita di una spiegazione. Cercherò di dimostrare che la corruzione diffusa nella cooptativa università italiana contribuisce alla corruzione generale, attraverso una complessa rete di cricche accademico-politiche. È molto difficile acquisire potere senza istruzione. Pertanto, potere accademico significa anche potere politico.

L’odierna situazione dell’accademia italiana non nasce dal nulla. Discutendo della questione della corruzione e del clientelismo, c’è spesso la tendenza di dare la colpa di questi fenomeni a qualche recente degenerazione, mentre in un passato mitico e non troppo lontano le cose andavano molto meglio. Questo approccio è certamente legato a una tendenza generale a idealizzare il bel tempo andato. Uno studio comprensivo dell’università italiana, però, mostra che le cose non stanno assolutamente così. Uno studio molto dettagliato di Giulio Palermo, infatti, mostra che l’odierna università italiana possiede certe caratteristiche risalenti almeno all’unità d’Italia nel 1861.

Ciò significa che lungo i primi decenni della monarchia sabauda, il ventennio mussoliniano, la Prima e la Seconda repubblica l’università italiana ha sempre funzionato attraverso un principio fondamentale: la cooptazione. Tra parentesi, non dimentichiamoci che la corruzione è stata così importante nella storia italiana che persino la storia dell’Italia repubblicana (cioè, dal 1946 a oggi) è divisa in due (Prima e Seconda repubblica) dallo scandalo di corruzione Mani pulite. Ciò potrebbe stupire se pensiamo che l’Italia ha avuto uno dei più forti, più radicali e duraturi movimenti studenteschi (’68 e poi). Alcune parole d’ordine del movimento studentesco erano democratizzare l’università italiana per aprirla a giovani provenienti dalle classi subalterne. Ciò è esemplificato dalla famosa canzone di Paolo Pietrangeli Contessa, nella quale si dice: «Anche l’operaio vuole il figlio dottore». Inoltre, il movimento studentesco era fortemente contrario alla selezione e alla meritocrazia, ma questo ha avuto delle conseguenze inaspettate sul lungo termine.



La cooptazione e la mafia accademica italiana

Tornando al fondamentale concetto della cooptazione, bisogna spiegare perché è così importante nell’università italiana, e perché è sinonimo di corruzione e clientelismo e l’opposto di meritocrazia e trasparenza. Secondo il dizionario Treccani, cooptazione significa «Sistema d’integrazione di un corpo consultivo o comunque collegiale, per cui il nuovo membro viene assunto su designazione di quelli già in carica». È interessante che quando i compilatori della Treccani hanno dovuto inserire degli esempi per il verbo «cooptare», hanno pensato bene di inserire esempi legati all’università: «cooptare un nuovo accademico, o cooptare qualcuno come nuovo accademico». Vedremo presto perché. In questa generale definizione da dizionario vi sono già le caratteristiche fondamentali della cooptazione accademica. Dato che qualcuno può ottenere una posizione accademica solo con l’accordo dei membri esistenti, ciò diventa difficile o impossibile se la persona è un intellettuale dissidente o escluso, e se questa persona non ha un potente barone o baronessa (padrino o madrina) che la proteggano. Il problema è che queste decisioni sono prese arbitrariamente.

Cioè, coloro che detengono il potere accademico godono di un incredibile livello di discrezionalità. Non devono giustificare le proprie decisioni, o devono farlo solo formalmente. Evidentemente, questo sistema cooptativo va completamente contro la meritocrazia. Certo, la meritocrazia potrebbe essere considerata un principio astratto non necessariamente previsto dalla legge. Eppure, la cooptazione va completamente contro la stessa Costituzione italiana. L’articolo 34, infatti, dice chiaramente: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso» (corsivi miei). Si presume che se i principi di merito e di concorso sono validi per chi studia, a maggior ragione dovrebbero essere validi per chi desidera lavorare in una istituzione dedicata all’istruzione come una università. L’articolo 97 ribadisce inoltre che gli impieghi pubblici possono essere attribuiti solo per concorso, e questo naturalmente include le università pubbliche. Questo concorso dovrebbe essere pubblico e competitivo.

La domanda è: come è possibile che l’università italiana aggiri questi principi con quasi totale impunità? Questa domanda è fondamentale, perché il tipo di corruzione di cui si parlerà qui (che io, diversi studiosi e perfino alcuni magistrati definiamo una vera e propria mafia accademica) è un sistema, e non una serie di scandali episodici (non che non vi siano scandali episodici particolarmente gravi che finiscono sui media, come quelli di professori italiani che danno voti in cambio di sesso)[2]. La selezione cooptativa e arbitraria dell’élite accademica inizia talvolta già fra gli studenti universitari. Se il dato barone o baronessa prendono sotto la propria ala uno studente, faranno in modo che faccia un dottorato e che attraversi poi i numerosi livelli della precarietà universitaria. Se il protetto è molto fortunato, può finire con l’ottenere una posizione accademica privilegiata, permanente e ben pagata. La baronessa o barone di turno possono prendere uno studente sotto la propria protezione per vari motivi, che possono essere collegati: il dato individuo può sembrare portato, o fornisce lavoro gratuito al suo protettore. Barone e protetto possono anche essere parenti, o il protetto può essere imparentato con qualcuno che il barone conosce.

Un principio cruciale è quello della fedeltà e dell’obbedienza, che viene messo alla prova soprattutto durante il dottorato. Ovviamente, non ci si può aspettare protezione dal barone se non si è fedeli e obbedienti. Ciò significa essere pronti a svolgere lavoro gratuito senza un orario preciso, anche la domenica (talvolta scrivendo articoli che poi sono firmati dal barone). Né questo lavoro è esclusivamente accademico, dato che può includere mettere ordine in un locale universitario o fare piccoli lavori di manutenzione nell’ufficio del barone. Nei casi peggiori, questa situazione di dipendenza può acquisire un carattere terribile, se accademici maschi più anziani e potenti approfittano delle ricercatrici precarie con delle molestie sessuali (questo tema meriterebbe una discussione a parte, ma molti esempi rivoltanti sono descritti in un libro di Giambattista Scirè)[3]. Obbedienza ai baroni significa anche che il dissenso non è consentito. Se un giovane ricercatore ha anche solo una piccola divergenza col suo barone o baronessa di riferimento (la qual cosa può logicamente succedere, specialmente nelle materie umanistiche) la sua carriera è finita, dato che non passerà mai un concorso.

A parte queste conseguenze molto dirette, un ricercatore dissidente può vedersela davvero brutta, dato che sarà mobbizzato, ostracizzato, censurato e sabotato in tutti i modi possibili. Ciò significa non permettere al guastafeste di pubblicare su riviste accademiche italiane (fortunatamente, io pubblico solo all’estero), o umiliarlo in pubblico perché si è espressa una minima divergenza col barone di riferimento. In realtà, la vita universitaria italiana è piena di episodi che voi umani non potete neanche immaginare, e che possono stupire solo chi non ne ha esperienza diretta. Prendiamo per esempio il caso di un dipartimento in cui il direttore si comporti come un vero e proprio gangster accademico, comandando a bacchetta i suoi sottoposti e controllandone addirittura la fedeltà politica. Se per esempio il dato gangster è un renziano, è bene non sappia che un suo sottoposto ha votato «No» al referendum costituzionale del 2016. Ricordo ancora questo povero disgraziato che, mormorando a bassa voce di modo da non essere sentito (anche i muri hanno le orecchie…), mi confidò: «Io ho votato “No”! Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!». Fortunatamente, a volte ci viene ancora voglia di ridere delle nostre disgrazie. Questo controllo politico può anche prendere la forma di vere e proprie sessioni di mobbing, in cui la baronessa o barone di turno controllano la fedeltà politica dei sottoposti e li sfottono e trattano in modo infantile se hanno la mala grazia di dissentire.

Questa situazione è diffusa e non episodica, e questo è dimostrato dal fatto che una persona che inizia un dottorato in Italia può essere avvertita della situazione sin dall’inizio da parte di un ricercatore precario più anziano (si badi bene, non come minaccia, ma proprio per voler aiutare il malcapitato):

Nell’università italiana c’è una rigida gerarchia che dev’essere rispettata. All’apice c’è il direttore di dipartimento. Dopo ci sono i professori ordinari, poi gli associati, poi i ricercatori confermati, poi gli assegnisti e i dottorandi. E gli studenti sono gli ultimi stronzi [!]. Bada di non dissentire in pubblico con qualcuno più in alto, verrai solo considerato un rompiscatole.

Come si diceva, la Costituzione italiana dice chiaramente che chiunque può essere assunto in una istituzione pubblica solo attraverso una selezione pubblica e competitiva. Ma come fa il baronato italiano ad aggirare questa regola? La truffa inizia persino prima che il bando sia ufficialmente pubblicato. Infatti, i bandi universitari sono solitamente redatti ad personam, e sono scritti su misura avendo in mente una persona molto specifica che deve ottenere il lavoro (sostanzialmente, il bando è scritto in base al curriculum del vincitore predestinato). La cronica situazione di povertà, precarietà e sotto-finanziamento delle università italiane rende ogni bando estremamente prezioso, specialmente per studiosi poveri che non hanno alle spalle una famiglia che li possa sostenere. Solitamente i bandi non sono pubblicizzati molto, per evitare il rischio di intrusi che potrebbero essere più competenti e qualificati del vincitore prescelto. Ma cosa succede se uno di questi intrusi si presenta, e risulta essere più qualificato? Ciò avviene molto raramente, perché la mentalità di corruzione egemonica suggerisce alle persone di stare al gioco per evitare conseguenze spiacevoli. Ma anche in questo caso non c’è nessun problema, perché le commissioni reclutanti godono di una discrezionalità praticamente illimitata, e devono solo scrivere un verbale dove “spiegano” la loro scelta.

Ovviamente, il risultato predeterminato può essere “spiegato” in molti modi. Se l’intruso ha più pubblicazioni, la commissione dirà che il prescelto ha più esperienza di insegnamento, o viceversa. Poi, specialmente nelle materie umanistiche, è facile attaccarsi a piccole cose nelle pubblicazioni di qualcuno e sostenere che sono più pertinenti per il dato lavoro. Solitamente, le decisioni di queste commissioni non vengono contraddette. Non c’è nessun organo esterno che le controlli. L’unica cosa che un candidato respinto può fare è rivolgersi alla giustizia amministrativa, un passo che pochi sono disposti a intraprendere, anche se ultimamente il numero è in crescita. In primis, è una procedura lunga e costosa, perché bisogna cercare un avvocato e non vi è nessuna certezza del risultato, senza contare che conosciamo bene i tempi della giustizia italiana. In secundis, così facendo si viola una legge non scritta ma incredibilmente importante della mafia accademica: i baroni hanno sempre ragione. Se disubbidisci alla famiglia, la pagherai.



Anche se molti casi potrebbero sembrare oscuri a degli osservatori esterni, alcuni sono particolarmente scandalosi. Per esempio, nel 2012 l’Università di Catania ha dato un posto di insegnamento di Storia a… un’architetta!, che era stata segretaria del preside di facoltà. Giambattista Scirè, uno storico estremamente competente e precoce che poteva vantare numerosi libri e articoli pubblicati, ha deciso di denunciare l’università. Dopo alcuni anni, un tribunale amministrativo ha risolto il caso in favore di Scirè, ordinando all’università di assumerlo. L’università, però, si è ostinatamente rifiutata di ottemperare alla sentenza, tant’è che Scirè è stato costretto a sporgere una denuncia penale. Il risultato di questa denuncia è probabilmente unico nella storia dell’università italiana. I giudici hanno deciso che i professori incaricati della selezione avevano commesso un reato penale, e sono stati condannati a un anno di reclusione (dubito però che la pena sia stata effettivamente scontata nelle patrie galere).

Scirè ha potuto ottenere il suo lavoro solo molti anni dopo il concorso truccato, ed è stato da allora trattato come un appestato nell’università italiana. Anzi che esprimergli solidarietà, la Sissco (una società accademica di storici contemporanei) ha sostenuto apertamente i professori colpevoli anche dopo la pronuncia della sentenza finale, appellandosi al «potere della scienza» (infusa?) di poter decidere arbitrariamente chi assumere in una università pubblica[4]. Uno dei professori condannati (nonché membro della Sissco) solleva regolarmente questa questione nella lista di discussione dell’associazione, cercando di presentarsi come la vittima di una ingiusta persecuzione.

Ma c’è di più: è stato anche possibile leggere un accademico famoso acclamare i colleghi condannati come dei veri e propri eroi che avevano “difeso la Storia contemporanea” contro le importune interferenze di magistratura e studiosi trombati. Come ulteriore esempio per spiegare quanto è importante la fedeltà alla famiglia, posso raccontare un episodio personale. Mentre svolgevo delle ricerche all’estero, mi è capitato di incontrare una collega italiana nello stesso archivio. La sola menzione del caso di Scirè è stata sufficiente per presentarmi come un pericoloso eretico. Questa persona ha immediatamente interrotto la conversazione con me ed è letteralmente scappata via. Da quel momento, ha accuratamente evitato di rivolgermi la parola e persino di guardarmi in faccia.

L’Università di Catania è stata anche oggetto di un’ampia indagine della magistratura italiana chiamata «Università bandita». Le intercettazioni telefoniche registrate dalla polizia mostrano una complessa rete di corruzione e clientelismo, che seguiva esattamente le regole appena esposte. Gli intrusi che partecipavano a dei concorsi destinati ad altri venivano definiti «stronzi da schiacciare». Qualcuno si era persino vantato di aver «fottuto coscientemente» una collega che non avrebbe dovuto fare un salto di carriera. I magistrati incaricati dell’indagine hanno pubblicamente dichiarato di aver trovato in questa università italiana un linguaggio molto simile a quello di cosa nostra.

Conclusione

La corruzione e il clientelismo sistematici nell’università italiana, che possono essere tranquillamente definiti mafia accademica, castrano la libertà di pensiero e di ricerca. Escludono dall’università le persone più competenti e meritevoli nonché dissidenti. Inoltre, creano anche una enorme fuga di cervelli, molti dei quali non tornano più in Italia. Per di più, questa diffusa corruzione ha anche un carattere politico. Molte cricche accademiche che influenzano l’università italiana, infatti, hanno una verniciatura politica, e sono spesso i resti degli ufficialmente defunti partiti della Prima repubblica. Ciò è specialmente evidente nella storia contemporanea, dove queste cricche hanno spesso le proprie riviste, le proprie fondazioni e i propri istituti di ricerca. Inutile dire che questa lottizzazione partitica uccide la ricerca autonoma e il pensiero indipendente.

Il sistema di corruzione accademica ha anche forti legami con la politica istituzionale. Questo non solo perché in generale serve una laurea per ottenere una posizione di potere, ma anche perché in Italia molti politici di professione e parlamentari occupano anche dei posti accademici (e ricevono entrambi i salari). In questo modo, le loro mani sono saldamente sulle leve del potere politico. Così, possono assicurarsi che la situazione non cambi, e possono approvare leggi che mantengano e rafforzino lo status quo. Per esempio, il parlamento italiano ha recentemente depenalizzato l’abuso d’ufficio, che era uno dei pochi appigli legali ai quali gli studiosi discriminati potevano attaccarsi. La corruzione e il clientelismo accademici influenzano negativamente molti aspetti della vita pubblica italiana. Insegnano ai giovani una cultura truffaldina fin dagli anni dell’università, e questa cultura si estende in molti settori professionali come la medicina, l’ingegneria, ecc. Questa cultura insegna che non è il merito che conta, ma le conoscenze informali di una persona. Così, permette a molti personaggi pericolosamente incompetenti di ottenere posti sensibili.

Infine, un’ultima considerazione può essere fatta sul concetto di merito e di meritocrazia, e di che cosa essi effettivamente significhino nell’università italiana. In Italia vi è un’opinione relativamente diffusa secondo la quale il principio del merito è ingiusto, dato che nasconde solo il perpetuarsi di un privilegio di classe. Solitamente, i figli dei ricchi meritano di più, come Don Milani ha a suo tempo denunciato in Lettera a una professoressa. Al di là dei pregi e della buona fede di questo approccio, l’attuale situazione dell’università italiana mostra un paradigma nel quale proprio l’assenza di meritocrazia e il privilegio di classe sono strettamente legati. Come si è accennato sopra, infatti, se per poter lavorare nell’università è necessario un certo capitale sociale-informale, è assai probabile che questo capitale sia posseduto da chi proviene da una famiglia borghese, e non certo da una famiglia di lavoratori. Inoltre, l’infinita precarietà presente nell’università italiana fa sì che per poter saltare tutti gli ostacoli e arrivare finalmente a un lavoro sicuro (cosa comunque molto difficile) è spesso necessario il sostegno della famiglia di origine, sempre che questo sostegno sia possibile. Se non lo è, al ricercatore povero non resta che arrabattarsi facendo altri lavori, o semplicemente abbandonare del tutto l’impresa[5]. La questione è grave e complessa, e penso necessiti di una riflessione da parte di quel settore di opinione pubblica italiana che crede negli ideali di uguaglianza e giustizia sociale.

Note
[1] Giulio Palermo, Baroni e portaborse. I rapporti di potere nell’università (Roma: Editori internazionali riuniti, 2012). Questo e altri lavori di Palermo sono scaricabili dal suo blog.
[2] «Napoli, sesso in cambio di esami all’università: prof di Giurisprudenza condannato per falso», CorriereUniv, 25 luglio 2022.
[3] Giambattista Scirè, Mala università (Milano: Chiarelettere, 2021), pp. 96-107.
[4] Ibid., p. 17.
[5] Massimo Piermattei, «Basta vivere di speranze smetto con la ricerca per vendere ricambi d’auto», Repubblica, 11 luglio 2017

di Marco Gabbas

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