È una sera di giugno, ci sediamo a un tavolino col sole che sta calando. L’appuntamento è con Beatrice Del Bo, storica studiosa dell’età medievale e docente dell’Università degli Studi di Milano; l’oggetto del nostro incontro il suo ultimo libro, L’età del lume, pubblicato quest’anno da Il Mulino. Nonostante l’ora preannunci la fine della giornata, la luce del giorno non ha ancora ceduto il passo all’oscurità serale, complici i lampioni già accesi che noteremo solo tempo più tardi, tornando a casa.
Un libro dal chiaro intento divulgativo, ci racconti com’è nato?
Scrivere un libro con l’intenzione che lo leggano altri, oltre che i colleghi e le colleghe, vuol dire mettersi in gioco, usare perciò un linguaggio che sia davvero comprensibile a tutti, vuol dire cambiare registro narrativo, liberarti delle note.
Com’è stato?
È stato doloroso.
Non una liberazione?
No no anzi, sono approdata a un editore che ha apprezzato il libro per il contenuto, per l’idea. È un libro che io avevo scritto con un linguaggio divulgativo: aveva ancora le note. Quando mi ha chiamata il Mulino ero molto contenta perché l’idea mi sembrava adatta ad una divulgazione più ampia. La prima versione presentava molte immagini che sono state ridotte per una questione di costi di stampa. Tuttavia, le immagini sono fondamentali ai fini della trattazione.
Doloroso abbandonare la nota e uscire dall’impostazione sicura delle pubblicazioni scientifiche?
Sicuramente è stata una sfida scrivere questo libro con un’impostazione divulgativa: non inserire le note vuol dire non avere il riferimento preciso qualora un giorno servisse recuperare l’origine dell’informazione contenuta nel testo. Quando vedi però che il libro viene letto anche da persone che non sono del settore, che non c’entrano nulla con l’università e non hanno una formazione storica universitaria, allora capisci che ne è valsa la pena.
Dal testo però emerge una forte adesione alle fonti… qual è la prima carta che hai interpellato per costruire il discorso?
C’è un percorso tra le fonti, la prima è quella che mi ha dato l’idea del libro, ovvero le norme del Comune di Milano che riguardavano la calmierazione dei prezzi, quelle norme che intervengono nei momenti di carestia, di crisi e che fanno in modo che i beni di prima necessità rimangano accessibili a tutti. Tra questi c’erano i cereali, il vino (nel Medioevo, come sapete, quello si beve, perché se bevi l’acqua muori), il pesce, la legna e le candele.
Quindi se le candele sono un bene primario vuol dire che davvero ci sono in tutte le case.
Cosa se ne fanno delle candele se fino ad oggi ci hanno detto che col coprifuoco, col buio, in età medievale tutti andavano a dormire? Be’, si vede che non era così.
Da questa intuizione, ipotesi, ho approfondito la ricerca e ho scoperto altre fonti che trattano di litigi tra i luganegari per il grasso che, oltre ad essere un bene fondamentale tanto per i conciatori di pelle che lo usano in una certa fase della lavorazione, lo è per i candelai che lo usano per le candele. Il grasso è infatti l’altra materia prima con cui si fabbricavano le candele oltre alla cera. Emergono così delle norme per la gestione del grasso.
Da questo si capisce che fabbricare le candele era qualcosa di normato, il candelaio non poteva lavorare liberamente cera e grasso, c’erano delle norme che standardizzavano il prodotto.
Sono così di conseguenza passata allo studio degli statuti, tra cui quelli delle corporazioni di mestiere, e quindi quelli degli speziali che sono, diciamo così, i capi della produzione delle candele migliori, quelle di cera d’api.
E lì, appunto, trovi quanto devono pesare, quanto deve essere lungo lo stoppino, di che fibre deve essere fatto… ed io, pur avendo già studiato gli statuti in passato non ci avevo mai fatto caso. Perché sai, quando tu usi una fonte, la usi perché hai già in testa delle domande, le famose domande di cui ci parla anche March Bloch. E, quindi, usi quella fonte cercando quasi esclusivamente ciò che ti serve, per quello che stai studiando in quel momento.
L’interrogazione della fonte è sempre un po’ miope.
E be’… sì! La fonte fa luce solo su ciò che stai cercando di illuminare, quindi sei miope o forse strabico perché continui a confrontare quel che pensi e quel che leggi.
Ma se io devo cercare di restituire il senso della quotidianità nel Medioevo, come faccio? Non ci sono delle fonti che ci raccontano davvero la quotidianità, se non le fonti letterarie. Quindi, per capire come sono usate le candele o come si fa luce, visto che avevo capito che comunque c’erano delle luci accese. E allora sono andata a vedere chi ne parlasse: dai novellieri più noti – ad esempio Boccaccio – ai meno noti.
Così ho cominciato a leggere le novelle per poi passare a Dante, anche se su Dante si potrebbe fare un libro a parte sul senso della luce che è stata già studiata più nell’aspetto simbolico che nell’aspetto concreto.
Con Dante è difficile distinguere i piani, il suo registro della luce, secondo me, avrebbe distorto particolarmente quella che era la mia idea: quella di raccontare la luce nella sua concretezza dei manufatti e del materiale, non che cosa significa la luce di Dio, in senso metaforico o simbolico.
Quindi il pensiero che uno studio della cultura materiale medievale che riguardasse la luce potesse rivelarsi utile per mettere provocatoriamente in discussione un’idea di Medioevo come il periodo dei “secoli bui”, nasce a seguito dell’interrogazione delle fonti…
Diciamo che, nel momento in cui mi sono accorta di una presenza così forte delle candele nella documentazione medievale, ho pensato subito che mi sarebbero servite per frantumare l’espressione insopportabile che accompagna il Medioevo.
Continuiamo a chiamarlo Medio-Evo, età di mezzo, un periodo definito in funzione di altro.
Con l’idea di poter trovare una nuova etichetta per definire questo periodo, l’importanza che assume la luce mi ha esaltato tantissimo, considerato poi che appunto il lume è sicuramente l’oggetto per antonomasia dell’illuminazione medievale. Mi è parso quindi chiaro che fosse il nome e l’oggetto perfetto.
Nonostante tutto quello che gli storici e le storiche hanno scritto del Medioevo in positivo: luogo di sperimentazione, momento politico in cui nascono anche le identità cittadine, possiamo poi parlare delle scoperte o invenzioni del Medioevo, di cui beneficiamo noi ancora oggi: gli occhiali, gli orologi, le assicurazioni e le banche, l’università, la stampa.
Però non siamo riusciti, raccontando tutto questo, a staccare l’etichetta “secoli bui” dal Medioevo.
Proviamo allora a dire che c’era la luce. Magari, diciamo, c’era la luce, forse funziona più che stare a raccontare come funzionavano le banche.
Sono in realtà due cose che sono andate di pari passo: l’idea che questo potesse essere un libro di cultura materiale che, dato l’oggetto protagonista, aiutasse a sconfiggere le tenebre che coprivano – e che ancora coprono – il Medioevo.
Dicevi che le storiche e gli storici hanno avuto modo di studiare l’età medievale portando appunto alla luce una realtà fatta anche e soprattutto di scoperte e nuove tecnologie. La categoria storiografica dei “secoli bui”, che rimanda a un’idea di arretratezza, oscurità è però comunque rimasta in uso nel corso di tutto il Novecento… Perché quest’etichetta è rimasta in vita così a lungo nel tempo?
È “colpa” dell’Ottocento
Sempre colpa dell’Ottocento!
Beh, in questo caso sì, senz’altro sì, anche molto merito dell’Ottocento per tante altre cose. È l’Ottocento il secolo in cui si è creata la dicitura “secoli bui” perché c’è bisogno del periodo di buio dove tu metti tutta la spazzatura della storia; nel Medioevo c’è tutto ciò che è brutto negativo.
Infatti la gente che si ammazza, la violenza, la povertà, la sporcizia, la malattia che – ormai lo sappiamo – c’è in tutti i secoli della storia. La peste, che è una malattia dell’età moderna, non è una malattia solo del Medioevo, la peste che è a tutti nota è quella del ‘300. Le streghe-streghe non sono un fenomeno del Medioevo lo sappiamo tutti, la stregoneria è un fenomeno che inizia alla fine del Medioevo e si sviluppa poi.
Perché? Perché l’abbiamo raccontata così?
Perché serviva, serviva avere un luogo remoto della storia dove mettere i germogli di tutto quel che è negativo del mondo contemporaneo.
Poi, purtroppo sul Medioevo visto in un certo modo, hanno giocato moltissimo le costruzioni letterarie o cinematografiche, con tutto il merito eh!, delle costruzioni letterarie e cinematografiche. Giusto ieri parlavo male di Walt Disney con questa amica, Francesca Roversi Monaco, che è una medievalista (professoressa di storia medievale presso l’Università di Bologna, ndr) e che è un’amante di Walt Disney… ovviamente della filmografia disneyana.
Walt Disney ha costruito il suo immaginario del Medioevo buio, ci ha costruito i castelli, la strega di Biancaneve, la povertà, l’ambientazione tetra, un mondo diviso composto solo di gente povera e principesse. Lui, Walt Disney portavoce di un sentire che proviene dai fratelli Grimm, per cui il Medioevo è tutto una guerra, cavalieri e quindi combattimenti all’ultimo sangue. Un altro, Walter Scott, è altrettanto responsabile di questa immagine che abbiamo del Medioevo.
Quindi la cultura materiale del presente che influenza la scrittura storiografica.
Moltissimo, moltissimo, moltissimo, cioè anche la nostra visione del Medioevo oggi è influenzata da quello che del Medioevo si racconta nelle serie, nei film, nei romanzi storici, che non sono la storia, ma al contrario sono semplicemente ciò che vende, che piace.
E va benissimo, se uno scrittore, un regista vuole pensare un’opera, che mira più all’intrattenimento che alla creazione di uno scenario filologicamente corretto, va benissimo così, ma tutto questo è favoloso, favolistico, ci si può immedesimare, pensare che nel Trecento davvero succedeva così. È bello, è bello pensarlo, ma non è qualcosa di storicamente pertinente. Anche Il nome della rosa… è un romanzo.
A volte si pensa che Eco fosse uno storico, ma no, non lo è: Eco è stato un uomo di grande genio ma non dimentichiamo che Il nome della rosa è un romanzo. Streghe, monaci, malattia, avvelenamenti e Inquisizione, così raccontati, fanno parte dell’immaginario che si è creato attorno all’età medievale.
Tornerei un attimo su un’espressione che hai usato prima: luogo della storia. Sembra che la storia delinei dei luoghi e degli spazi specifici, a secondo del momento storiografico. Mi chiedo, quindi, che spazio ha oggi nella storia la storia di genere? Mi riferisco all’ultimo capitolo del libro.
Da lettori, vedere sempre nel libro sul capitolo sul genere messo lì, alla fine, come per pulirsi la coscienza. È questo il luogo della storia che il genere può avere adesso?
Intanto c’è un capitolo.
Dobbiamo accontentarci del fatto che ci sia un capitolo?
No, anzi. Nel libro ci sono tante donne, in tutti i capitoli, sparpagliate perché questo bisogna fare. Bisogna sparpagliarle dappertutto, in tutta la storia perché è lì che stanno: ovunque. Il problema è però un altro, ovvero tirarle fuori, far emergere le donne dalla storia. E non è facile… Qualche tempo fa mi sono trovata a presentare un libro, non mio, e dicevo che il merito del libro era il fatto di aver fatto emergere tante donne.
Il numero, la quantità e la diversità di tutte le donne, secondo me serve.
Finché parliamo sempre di Christine de Pisan, Matilde di Canossa, Giovanna d’Arco. Sono sempre quelle tre. Uno dice vabbe’, donne importanti della storia sono tre, no? No.
Serve raccontarle tutte, e quindi quella che fabbrica le candele, quella che è la schiava della principessa di Cordoba nell’XI secolo. Più sono e più ci si renderà conto che la quantità serve.
Far emergere la demografia femminile dalla storia è necessario.
Però tirarle fuori è ancor più difficile perché è più difficile che le donne siano citate nella documentazione medievale. Le donne ci sono, potremmo dire, ex silentio, ma vogliamo dirlo, anche facendo parlare quei nomi che troviamo e di cui non saremo magari in grado dire molto, purtroppo, però inseriamoli nella scrittura della storia.
Poi il capitolo finale è finale proprio perché è provocatorio. Sollevati gli occhi dalle carte mi sono chiesta: «ma come faccio a sapere come son fatti questi oggetti?
Noi diciamo lume, come era un lume? Cos’era un lampadario allora?» Ho cercato nelle fotografie dell’epoca, cioè i quadri.
Lì, oltre a notare tanti manufatti che non mi sarei immaginata e che non avevo mai notato, pur guardando quadri che avevo guardato tutta la vita, ho notato che le donne venivano rappresentate con attributi della luce diversi rispetto agli uomini. Certo, uno dice, perché sono rappresentate in contesti differenti, poi chiaramente di solito trovi le sante, le madonne, non le donne comuni.
Ho cercato il momento in cui iniziano ad esserci donne con dei libri in mano; a partire dal Duecento e queste, spesso, non sono accompagnate da un lume, a differenza degli uomini. Allora sicuramente una provocazione, no? Mi sembrava di poter leggere in questo tipo di rappresentazione, il fatto che non si potesse riconoscere a una donna quello che noi chiamiamo il lume dell’intelletto.
Sembra abbastanza chiaro nell’iconografia italiana, perché l’area fiamminga non è così, Cordoba non è così; c’è sicuramente un ruolo delle donne che è diverso. A Cordoba ho scovato il quadro di una madonna che legge e che ha accanto un lume, rappresentazione introvabile in Italia.
Il lume in Italia ha mantenuto più a lungo rispetto ad altre culture, anche un suo spazio nella lingua che permane ancora oggi, il termine lume inteso come oggetto fisico non c’è nelle altre lingue, c’è solo in italiano, quindi, secondo me, nell’Italia del XIV-XV secolo, non mettere il lume accanto a una donna è una scelta programmatica.
Perché Cordoba?
Nel secolo XII Cordoba è una delle città più grandi d’Europa in cui si configura un convergere di culture diverse che fa sì, tra l’altro, che, per quantità della popolazione che abitava lì, ci fosse un maggior numero di donne che emerge dalle fonti dell’epoca.
Non necessariamente il fatto che ci siano ebrei, musulmani, cristiani porta la città di Cordoba ad avere una città pacificata in cui tutti stanno bene con tutti, però sicuramente questa mescolanza di culture fa sì che le donne possano fare più cose.
Quindi, pur rimanendo assolutamente subordinate agli uomini, le donne a Cordoba si possono esprimere più diversamente che in altre realtà, dove non esiste una compresenza di culture così variegata e così numericamente importante.
A chi vorresti arrivasse questo libro?
Dire: “a tutti” è forse una risposta un po’ banale, però è la verità.
Mi piacerebbe che il risultato di questo libro fosse che un giorno non chiameremo più il Medioevo così, ma lo chiameremo Età del lume.
E poi mi sembrava che parlare della vita quotidiana, certo, con una prospettiva specifica – per carità, non è che io racconti cosa succede nelle case, durante la giornata tipica – e di un oggetto cruciale nella vita quotidiana potesse avvicinare anche un pubblico di non specialisti, raccontando loro come si viveva il significato di certe cose.
La luce ancora oggi è un oggetto di vita quotidiana, di conseguenza un tema su cui siamo sensibili. Pensando alla vita degli ultimi anni, la stessa guerra in Ucraina tragicamente ce l’ha fatto riscoprire, quale è il valore economico di poter disporre della luce in tutti i momenti.
La luce è uno strumento che serve per fare tantissime cose che noi diamo per scontate, la luce artificiale è ciò che ci permette di non dipendere dalla luce solare. Noi oggi abbiamo un tempo di vita molto lungo e molto facilitato da questa disponibilità di luce.
Forse oggi la luce ci appare più smaterializzata, nel senso che per noi la luce è questa cosa che è normale che ci sia, semplicemente premendo un interruttore. Potremmo definire questo libro come uno studio su un aspetto della cultura materiale medievale?
Ci sono troppi pochi studiosi che si sono occupati di cultura materiale, come Ginzburg. E la cultura materiale non paga dal punto di vista accademico… non paga sicuramente, perché?
Siamo rimasti legati a questa dinamica, nonostante la storia si sia evoluta.
Qui cito uno dei grandi maestri della storiografia medievale del 900, Tabacco, che diceva: “C’è chi studia il potere e c’è chi studia le carote”. Però dalla sua scuola sono usciti tanti che studiano il potere e pochi che studiano le carote e questo perché studiare le carote è una scelta chiaramente perdente; nel mondo accademico permane l’idea che il potere sia più importante delle carote.
In realtà forse comprendere la quotidianità servirebbe molto per capire anche come mai i poteri medievali si comportassero in un certo modo, capire le esigenze delle persone è cruciale.
È difficile quindi far comprendere le potenzialità di uno studio della cultura materiale?
Sì, è molto difficile perché tu non studi gli oggetti per gli oggetti. In questo mio ultimo lavoro una delle cose più chiare è appunto il legame che tutti gli oggetti fisici hanno con altri aspetti della vita politica, economica e sociale. Gli oggetti hanno sempre un potere evocativo e hanno dei significati concreti e degli usi concreti, ma anche degli usi e dei significati metaforici.
Infatti, lo stesso fatto che la prima fonte in cui hai trovate notizie di lumi fosse una fonte pubblica di controllo economico del bene fa capire quanto la rilevanza sia appunto una rilevanza pubblica, legata a doppio filo quindi con il tema del potere e la gestione del potere.
Esattamente. Le guerre del pane, per esempio, per citare un altro dei beni primari… perché i governi intervengono per abbassare il prezzo del grano? Forse perché il timore è proprio quello delle rivolte? Ancora prima di ricercare la risposta del potere, se noi andiamo a guardare la concretezza, appunto la quotidianità, scopriamo quali sono le ragioni vere di intervento dei governi.
Quindi anche perché si normano certe cose e non certe altre, se tu non sai come funziona la società, la concretezza quotidiana, come fai a comprendere gli interventi del governo? Le persone, i popoli, li devi conoscere per capire come mai certi sistemi di governo funzionano e altri sistemi non funzionano minimamente.
La sera di giugno volge verso la notte, terminata l’intervista ci congediamo dalla professoressa Del Bo e ci dirigiamo a casa. Sarà che abbiamo parlato ininterrottamente o saranno forse i due giri di Negroni, ma solo allora notiamo che si è fatto buio e che ad accompagnarci verso casa c’è la luce silenziosa dei lampioni.
Di Sara Nisoli e Giacomo Trentini
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