Il ciclo di figlio-di-john

Mi ritrovai parte del suo soggiorno, nel Minnesota credo, o un qualche luogo similmente desolato. Un Figlio-di-john tra i tanti che spende ore in giardino a ripetere: i love your necklace, i love the green of your garden, i love di qua e di là. Discorsi che si concludono in un oh thanks, you’re so kind. Ecco, anche io ora ero un oggetto “so kind” che una qualche figlia-di-jack avrebbe voluto strappare alla moglie di figlio-di-john.

Vorrei perire nel suo soggiorno come un martire che non permetta ad un uomo di dirsi Dio poiché l’uomo esiste, e pertanto condivide un altro soggiorno, ovunque, dove può affermarsi come “so kind”.
Vivo nel soggiorno di figlio-di-john perché mi ha conquistato, prima ancora che nascessi e potessi offendere la sua dolcezza, prima ancora che venissi abbagliato dal fulgore della sua ombra.

Sono un oggetto, è il patire patibolo di avere, ossia di essere avuto.

Ma lui mi ama come ama il suo Dio, come parte della sua certezza che si trova tutta sedimentata nel soggiorno. Mi sono immolato per lui, io sono avuto e glielo devo, e lui mi adora. Gli ultimi saranno i primi. Condivido con Dio misericordioso sofferente, sanguinante, martoriato, masochisticamente erotico e in croce, una parete del suo soggiorno.

Anche io sono misericordioso, seppure lo fossi già prima di nascere, per un tizio chiamato figlio-di-john, del Minnesota, che sa di possedere il mio dolore, il mio io affranto e la mia libertà, perché può pagare. Io lo perdono perché è il mio ruolo, come quello del Cristo morente davanti ai romani annoiati che giocavano a dadi. Anche Longino riacquistò la vista per dire: questo è mio, lo vedo, e posso infilzarlo, il suo dolore, le sue urla, il suo sangue, la mia salvezza.


Figlio di John mi possiede, e quando morirò, in una festa sontuosa a sue spese, continuerà a ricordarmi, in un soggiorno del Minnesota. Sono immortale nella sua ossessione. La naturale, gioiosa, gioconda, ingiusta, erotica, proprietà privata.


Parte 2


Vidi per la prima volta figlio di john in una discoteca del Minnesota, mi ci aveva portata mio padre, a 18
anni, quando conquistai la sua libertà. A casa, nel soggiorno, mi toccò la spalla, ora sei libera. La stessa
sensazione di libertà di un liberto a Roma quando veniva liberato, libero pure dalla cittadinanza e dai diritti.


Così ballai, danzai, disinibita, con quelle mie belle tette che sfumavano in quel sembiante di cenerentola che non aveva ragione per sentirsi deformata, stuprata, rapita in un senso di vacanza lasciva dal punto che mi concludeva. Figlio di John allungò l’occhio sulla preda e con un paio di drinks e “i love your naklace”, “i love your t-shirt”, mi trovavo già nel suo van usato a limonare.

Amavo i suoi gemiti, la sua supplica di riempire il suo io, e dunque il suo soggiorno, che mi prometteva ad ogni singulto di piacere. La prima credenza sarebbe stata quella di famiglia, ma poi in qualche anno ne avrei avuta una che arrivava da Milano, in Italia credo.


E Rose, Wilma e Sandy avrebbero ripetuto: what a nice credenza, what a wounderful wife. Lo sposai in
fretta in una chiesa disadorna del Minnesota, alla presenza di mio padre che sapeva che figlio di john aveva un buon impiego nel settore informatico e avrebbe fatto carriera.


E sì ebbe ragione, la ditta produceva componentistica informatica, e l’informatica va bene. Il materiale lo si estrae in Congo. Una volta con figlio di john ci siamo andati in Congo. Quando regalai 100 dollari ad uno di quei bambini nelle miniere mi sentii la donna realizzata che ero divenuta, al fianco di figlio di John. Quel bambino mi ringrazio e la gratitudine era ben visibile sul suo volto, che ho fotografato: ora sta in soggiorno.


Vicino a Dio, e alla foto di quel ragazzo evidentemente comunista che ci portò in giro per Milano. Esperienza terribile, mi disse che Gesù Cristo ama tutti allo stesso modo, siamo tutti uguali di fronte a Dio. No, non è vero, è cristo ad aver sofferto per tutto, e io l’ho pagato per tutto ciò. Io non devo soffrire, io sono sweety, io sono la buona e onesta moglie di figlio di john. Io non soffro.

Parte 3


Discolpato nei tratti continui di punti collegati a cerchio, cercavo nella mia colpa la redenzione che mi riportava sempre lì, tra i punti di partenza di cui la ripartenza, la dipartita, l’apparente rivalità con la vita, che parallela, si spartiva solo tra le muraglie cromatiche, di diverse gioie nella lontananza.


Me ne sarei dovuto andare, per sempre, quando la linea non collegava più e il mio trono in soggiorno non si staccava dallo sfondo e condivideva la staticità col tutto ciò che mi doveva appartenere, ma a cui io mi ero accorto da anni di appartenere. Iniziai a comprendere la tragedia poco dopo il matrimonio con Rose e poi con la nascita dei nostri figli, e infine durante la vacanza a Milano, che il divenire mi pietrificava.

Che ancora qualche anno e il mio soggiorno sarebbe stata la mia lapide a scadenza.

A Milano quel ragazzetto comunista mi raccontò di un certo Ambrogi o Ambrogio che si era costruito una chiesa perché lo ricordassero. In fondo lo scopo del mio soggiorno, delle foto, dei souvenirs, della credenza di Milano, è lo stesso. Ma no, Bill Johnson, un uomo buono e misericordioso, cattolico e repubblicano no, non lo ricorderà nessuno. Nemmeno quei figli ormai scappati in Inghilterra a cercare un modo diverso di morire, anche loro.


Sono spacciato, non vi sarà né un Livio né un Tacito a ricordarmi. Anche se io li possiedo entrambi, sono
nella mia libreria, io sono il loro possessore, ho pagato perché l’industria libraria americana, la migliore al
mondo, continuasse a pubblicarli. Ho pagato il lavoro di esegesi e traduzione di un professore italiano,
credo, anche lui ricordato benché già morto. Ma io no.

Anche il ragazzetto comunista verrà ricordato e verrà ricordato e letto e ascoltato da tutta una serie di stronzetti comunisti per un’inutile storiella dove voleva denigrarmi, forse pensando di poter essere lui ad avermi e non il contrario.


Ma sai, io sono libero perché la mia libertà me la sono pagata e ho pagato quella degli altri perché fossero avuti da me. eppure loro verranno ricordati e io no. Quanto è comunista questo tempo e questa gloria: fece bene Mccarty a metterli in carcere i poeti comunisti. Ma anche lì, lui è passato alla storia come un repubblicano fanatico e loro come eroi della libertà.


Questa è la giustizia di quel Dio appeso in croce, ricorda solo chi non lo paga, chi non ne ha paura. Io l’ho
sempre temuto per questo cercai di comprarmelo. Avrei dovuto vivere diversamente: ho preteso di avere e sono stato avuto. Ora mi ritrovo in questa cazzo di storia, io, il brutalmente onesto e retto Bill Figlio di John.

di Vladislav Karaneuski

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