Il tema della parresìa, dal greco παρρησία, composto di pan (tutto) e rhema (ciò che è detto), è un tema caro alla tradizione filosofica.
Si intende con parresìa il diritto-dovere di dire la verità, il quale diventa progressivamente il dovere di comportarsi in maniera coerente alle proprie teorie filosofiche e, da ultimo, la pratica di vita filosofica che si accompagna coerentemente alla speculazione teorica.
La parresìa è l’emblema paradigmatico dei cinici, per i quali la parresìa si manifesta quale schiettezza, finanche eccessiva, che diviene un modo di vivere autentico, riassunto dall’iconica frase di Diogene di Sinope: «Scondinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi» 1.
Ci si domanda se questa schiettezza apparentemente tutta greca si possa ritrovare anche tra pensatori più vicini alla nostra contemporaneità. Emergono a tal proposito le figure di Nietzsche e di Spinoza, pensatori che si contraddistinguono sia per le peculiari vicende biografiche sia per la maniera assolutamente non convenzionale di trattare le questioni morali, sempre attenta alla corrispondenza tra teoria e prassi.
Nietzsche e Spinoza sembrano parresiasti perfetti: non hanno timore di dire la verità dinnanzi all’autorità (innanzitutto l’autorità religiosa) e seguitano a criticare fermamente la religione e i suoi valori, rei di trattenere l’uomo in una dimensione che entrambi i filosofi definiscono di dipendenza, che sia dipendenza dagli affetti, come è per Spinoza, o dipendenza da una morale negativa, come è per Nietzsche.
Ma non solo, Nietzsche e Spinoza, seppur in maniere differenti, seguitano a costruire un nuovo contesto in cui operare, sia filosoficamente che praticamente: vogliono creare una realtà laica. E pertanto verranno perseguitati, tanto in vita quanto in morte.
Nel caso di Spinoza spesso si è trattato di mettere a repentaglio persino la propria incolumità fisica e di rinunciare alla pubblicazione della maggior parte dei suoi scritti; mentre per Nietzsche, il quale vive in un’epoca in cui l’oppressione religiosa è meno esplicita e violenta, il rischio è stato quello di incorrere nell’isolamento filosofico ed esistenziale.
Le loro opere sono state maledette, censurate, attaccate, manipolate e inserite nell’indice dei libri proibiti della Chiesa Cattolica. Hanno detto la verità e si sono assunti un rischio, sono stati, in ultima analisi, dei parresiasti.
Questa ricerca di autenticità, del nesso causale tra riflessione teorica e vicende biografiche torna a più ripresa nel corso della storia della filosofia e viene trattata in ambito contemporaneo da Michel Foucault il quale la intende nei termini di “coraggio di dire la verità”, ne analizza il delicato rapporto con l’istituzione democratica nella Grecia antica e la mostra come connessa al coraggio di fronte al pericolo: la parresìa, difatti, «esige il coraggio di dire la verità nonostante qualche pericolo.
E nella sua forma estrema, dire la verità avviene nel “gioco” di vita o di morte»2 .
È in tal senso che è lecito definire la parresìa «coraggio filosofico». A dimostrazione, è il coraggio di Platone mentre tenta di convincere il tiranno di Siracusa Dionisio I ad abbracciare la teoria del “re-filosofo”. Com’è noto i viaggi di Platone in Sicilia avranno esiti tragicomici, tra tutti la riduzione in schiavitù del filosofo durante il viaggio di ritorno3.
Si tratta dunque del coraggio del filosofo di dire la verità, segnatamente quando si oppone all’autorità costituita e nella fattispecie quando ciò comporta l’assunzione di un rischio.
L’esercizio della parresìa comporta non solo dire la verità e adottare un comportamento coerente con essa ma anche divenire un modello pratico di tale comportamento.
Divenire o costituire un modello, nella pratica così come nella filosofia etica, implica necessariamente la possibilità che il modello in questione diventi anche un modello educativo. Pertanto si può affermare che nella nozione di parresìa sia implicato un afflato paidetico-educativo.
Questo è un tema di centrale importanza per Nietzsche sempre ansioso di trovare mentori che insegnino “come fare” piuttosto che “cosa fare”.
Il primo di questi è Schopenhauer che in Schopenhauer come educatore è l’emblema di un certo modo autentico di vivere filosoficamente, ma già non più un modello per le teorie filosofiche; Wagner, che vive la propria arte e al contempo fa vivere l’arte, attraverso la musica; infine proprio Spinoza, suo «grande precursore», che, come Nietzsche, nega il libero arbitrio, le cause finali, l’assetto morale del mondo, il disinteresse (das Unegoistische), il male.
Nietzsche è tanto ansioso di trovare mentori quanto è pronto a rinnegarli, proprio in quanto non tengono fede, nella pratica – o meglio nella parresìa – ai loro intenti filosofici. Contro Wagner perché ha tradito l’arte, contro Schopenhauer e Spinoza perché, in maniere differenti, hanno tradito la vita stessa.
L’educatore che Nietzsche non riesce a trovare emergerà dalla sua stessa opera e sarà il personaggio di Zarathustra.
L’intento pedagogico di Zarathustra è esplicitato fin dal prologo dell’opera, dove il profeta rivolgendosi al sole dice: «Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro a cui risplendi!»4, per poi aggiungere poche righe dopo: «vorrei spartire i miei doni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza»5.
Zarathustra “insegna Nietzsche”: insegna della morte di Dio, del Superuomo, dell’eterno ritorno, della volontà di potenza. Egli è dunque senza dubbi un educatore, anche se di una fattispecie atipica: Zarathustra non vuole dei discepoli passivi, non anela a guidare un gregge, quanto è piuttosto alla ricerca di compagni nella creazione di nuovi valori6.
Zarathustra può essere un maestro perché si è innanzitutto rivolto a se stesso, poiché egli per primo è «diventato ciò che è».
E allora, divenuto nella pratica ciò che va predicando, si fa pescatore di uomini, ossia si mostra nella veste di un educatore che vuole scegliere i propri allievi e “costringerli”, nel gioco di forze del rapporto paidetico, a salire alla propria altezza.
Ed ecco creato l’educare che Nietzsche aveva cercato invano: il parresiasta che riesce a mostrare la filosofia con la pratica della vita.
La figura che si prospetta è pertanto quella del filosofo-parresiasta, un esempio etico vivente che diventa anche un educatore e in Spinoza tale figura è incarnata dal saggio, ossia da colui il quale riesce a governare le proprie passioni, a comprendere senza pregiudizi la realtà (non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere7), a giungere infine alla beatitudine dell’amor Dei intellectualis.
Il saggio spinoziano è colui il quale comprende l’utilità insita nell’insegnare agli altri la propria conoscenza.
Si è quindi visto che la parresìa è lo strumento con cui si possono analizzare tanto la filosofia quanto il filosofo: il suo coraggio, il suo rigore teorico, la sua vita.
Si ha spesso nell’immaginario collettivo la percezione che il filosofo viva un’esistenza distratta, slegata dalla realtà, che sia sempre “con la testa fra le nuvole” – per fare un riferimento alla famosa commedia di Aristofane del 4238– (il che dimostra come la critica di mancanza di concretezza sia una critica vecchia quasi quanto la filosofia stessa).
Di contro, il tema della parresìa può aiutare a riscoprire un’accezione diversa del filosofo, tanto “con i piedi per terra” da assumersi finanche il rischio di morire pur di dire la verità.
Ci si domanda a questo punto se la parresìa possa ridare una certa dignità a tutti i filosofi oppure debba essere impiegata per operare un’intransigente distinzione tra lo pseudofilosofo che «segue la logica formale dei concetti e non la logica concreta della vita»9 e il solo vero filosofo: il parresiasta.
Di Aurora Terzitta
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- Diogene Laerzio, Le vite dei filosofi tr. it. di M. Gigante, Laterza, Bari 1962,p. 269 ↩︎
- Le trascrizioni delle conferenze tenute da Foucault all’università di Berkeley circa il tema della παρρησία sono consultabili sul sito https://www.foucault.info/parrhesia/index.html. Traduzione mia. ↩︎
- Riporta Plutarco che: «Dionisio pregò in segreto Pollide, preferibilmente, di uccidere Platone durante la navigazione e, se non era possibile, almeno di venderlo come schiavo», insomma, lo prega di toglierglielo dai piedi. ↩︎
- F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 2008, p. 4. ↩︎
- Ibidem. ↩︎
- Ivi, p. 17. ↩︎
- B. Spinoza, Trattato politico, 1.4, Edizioni ETS, Pisa 1999, p. 30. ↩︎
- La commedia è andata in scena per la prima volta nel 423, ciò nonostante la versione arrivata a noi è quella redatta tra il 421 e il 418 a. C. ↩︎
- S. Giametta, La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche, cit., p. 59. ↩︎