Kenya West, non solo savana: Associazione Amani

MZUNGU

PARTE II: Associazione Amani

Immagina di chiamarti Fred. Anche se i tuoi amici preferiscono chiamarti Cheche.

I tuoi amici sono quelli cui ti svegli accanto fra le coperte di sacco.

Arrivano le voci al mattino prima dell’alba, oggi ci sono i visitatori. Simon, un ragazzo col basco in testa, urla a gran voce per farvi alzare.  

“È tornato Jack! Si fa colazione!”

Mandazi fritti e due mestolate di fagioli per tutti. Si fatica a trovare una forchetta, soprattutto quelli che arrivano ultimi. Quelli che zoppicano. Due giorni fa la polizia è tornata e quando hanno le armi in mano non c’è niente da fare, stai fermo e ti lasci prendere a bastonate.

Jack porta i mzungu in visita prima del sole, prima che abbiate il tempo di sniffare la colla o il kerosene. Vi vuole belli lucidi, Jack.

Jack non insiste mai tanto, anzi a volte non ne parla neanche. Si limita a scherzare e offrire cibo. Ma tutti se lo ricordano, tutti lo sanno che chi vuole può alzare la mano. Non è difficile. Fred, perché hai paura di farlo? È ancora più facile star lì, forse.

Grogan, uno dei nove villaggi della slum di Korogocho, non ha le fogne, non ha infrastrutture, non ha ospedali. Tu non hai letto e fai il fuoco con la plastica, eppure ci resti. Tutti han bisogno di una comfort zone. Anche nel discomfort. 

Ma, Fred, quel giorno la tua mano si muoveva quasi da sola. Ricordi? Ti spuntava sopra la testa. Jack non la vide subito. Stava per andarsene. E Simon gridava per te. “Jaaack! Cheche. Cheche vuol venire!”

L’omone ti viene incontro. Ti guarda scettico.

“Sicuro, Cheche?”

Aspetti una vita ad annuire.

“E se poi torni?”

Scuoti la testa più velocemente che puoi.

Ecco, ora immagina di arrivare a Ndugu Mdogo. La casa del “piccolo fratello”.

Padre Kizito non c’è. Quest’anno è tornato in Zambia, dov’è nata Koinonia.

Kizito è il presbitero comboniano che ha creato tutto questo.

Koinonia è la trama. Associazione Amani è l’ordito.

Amani son le vene. Koinonia le arterie.

Al centro di prima accoglienza non c’è colla, non c’è kerosene. Un po’ di notti insonni, sudori e geloni. Ma poi ce la fai. C’è una doccia. Tutti i bimbi nudi a spruzzarsi, fluisce scura. Sei già pentito ma non importa, adesso hai un materasso a terra e vestiti non strappati. Ci sono le stanze per mettersi seduti. A quanto pare si fa così, seduti ad ascoltare. E lei parla, parla. Lei è la maestra. “Love each other..”, “No violence..”, mentre due ragazzi fan braccio di ferro.

Sei annoiato e non ascolti.

Poi ti fai un nuovo amico. Si chiama Ezra, anche se il suo vero nome è Timba. Lui da grande vuol fare il Presidente del Kenya. Sei ammirato. Tu non hai mai pensato a cosa far dopo.

C’è un dopo?

And you? – ti chiede Ezra – When you’ll grow young what you want to do?

Lui lo sa che sei già grande. Tu solo stai ricordando com’eri a quell’età, quando ancora non pensavi a niente. Niente che non fosse adesso.

Ezra invece sa già un sacco di cose. Dice che se metti la Bibbia fra il gatto e un pezzo di carne, il gatto ci salta sopra. Se metti il Corano, il gatto ci gira intorno.

Ezra sa della storia di Kitengela della madre posseduta da un demone che uccide la figlia neonata e ne mangia le viscere. Sa della strage nella foresta di Shakahola dei seguaci di padre McKenzie. Va dicendo che Magufuli non è morto di malattia, ma è stato visitato di notte da uno Shetani. Ezra sa un sacco di cose.

Anche tu vuoi sapere un sacco di cose. Da oggi ascolti per bene e non ti perdi una sola parola.

Avete tutti le divise uguali e ripetete in coro a memoria. Standard British. Ma tu cominci a essere tu. Non sei uguale agli altri. Gli altri non sono uguali fra loro.

Sei talmente tu che puoi immaginarti come vuoi.

Puoi essere una ragazza. Ce n’erano tante a Goran, sapevi già come facevano a guadagnar scellini? Non credo capissi bene bene, chissà cos’è. Ma se fossi una ragazza capiresti. Alzeresti anche tu la mano per farti portare via da Jack. O forse no. Avresti paura anche in quel caso. Sarebbe tua mamma, forse, a farlo per te. Lei c’è già passata.

Chiederebbe che ti portassero via, via di lì. Fuori dalla slum, fuori dalla città, dal frastuono dei matatu. Dai ghigni bianchi nel buio.

Staresti in campagna per un po’, da Anita’s Home, il secondo dei centri di Amani. Lì son tutte ragazze. Ti condurrebbero nell’ufficio di Fresha, la donna sorridente e carismatica dai capelli corti. Somiglia a chi vorresti diventare tu, man mano che scopri esserci un tu e, soprattutto, un dopo.

Circondata dalla pace rurale, vivrai lì per un po’. Ci sono i casolari con le aule e i dormitori. C’è la cucina da campo, con la cuoca grassoccia e sorniona che prepara e vi insegna a cucinare. Chissà se viene anche lei dalla strada. Anne e Jacqueline sì, loro sì. Sono nate dove sei nata tu e le madri le hanno portate lì. Adesso lavorano per Koinonia. Hanno una vita.

Viene spesso un’altra donna, è una counselor. È molto gentile e garbata, è lì per chiacchierare. Ogni tanto tocca un nervo scoperto, ma col tatto giusto. Fa sempre meno male.

Fresha organizza molte attività, fra cui la Self Defence e il Mentalship Project. È orgogliosa, di recente il Daily Nation ha dedicato uno dei suoi articoli ad Anita.  

Ritrovi il peso giusto. Diventi sempre più alta. Ti cresce il seno.

Impari a capire che ci son tanti posti per te, là fuori. Non c’è solo la ragazzina mercificata, non c’è solo la moglie che cede poltrona al marito quando torna a casa, non c’è solo la vedova socialmente spacciata.  

C’è chi studia per diventare maestra, diventare psicologa, biologa. Qualsiasi cosa.

Ogni tanto ti sale l’occhio sul ritratto di Ruto appeso ovunque. C’è sempre un maschio appeso lassù. Ma una tua amica ti ha detto che in Tanzania c’è una donna adesso, si chiama Samia Suluhu.

Cominci a immaginare che le aule e gli uffici con la tua foto, un giorno.

E continuando a immaginare, ritorni Fred.

Da Anita’s Home non ci puoi andare, i maschi sono vietati. Rimani a Nairobi, fra i rombi dei Dama bianchi in mezzo alle strade e i fumi della cassava fritta, protetto però dalle mura di una nuova casa. È il Kivuli Centre, nel quartiere di Riruta.

Kivuli significa “ombra”, nel senso di “rifugio”. L’ingresso è colorato di un bel tono blu. Ti infonde pace ogni volta che lo vedi. I guardiani all’ingresso sono tutti ex slum. Non mancano mai di sorridere.

C’è una parete di rampicanti sulla sinistra, vi si nascondono piccoli camaleonti. Poi un parcheggio con un vecchio Maggiolino verde dalle gomme sgonfie, chissà di chi è. Fa angolo su un tratto d’alberi che danno riparo a un orticello.

Sull’altro lato c’è il dispensario medico, col servizio odontoiatrico, i test HIV, la farmacia e lo sportello Maternal Child. Su lunghe panchine vedi sempre in attesa mamme coi figli legati in grembo nella shuka colorata.

Poco oltre, si staglia al centro il campo da basket. A ciclo continuo, bambini e ragazzi lo consumano a furia di correrci dentro, a piedi nudi o con le crocs. Riescono a palleggiare in ciabatte in modo sorprendente.

Tutto ti sorprende, non hai mai visto tante cose. C’è la sala computer. C’è il pozzo con l’acqua potabile. C’è la sartoria. Ci sono i laboratori artigianali pieni di ruandesi e burundesi che lavorano il legno creando piccole figure. Grandi maschere. Oggetti di tutti i tipi. I ragazzi si sono ritagliati uno spazio dove disegnare e dipingere, per poi vendere i quadri. Alcuni raffigurano animali, il simbolo del tuo Paese. Quanti mzungu vengono qui e incontrano il leone. L’elefante. Lo gnu. Ma tu non li hai mai visti.

Tuonano suoni di tamburi e grida. Sono i percussionisti del Ruanda che si esibiscono nelle loro danze. Li guardi immaginando di farlo anche tu, prima o poi.

A portarti in giro c’è Clinton, uno dei ragazzi più grandi. Lui ha il sorriso più aperto di tutti, coi denti bianchi e le labbra prominenti. Ha la vita bassa, il sedere e le gambe possenti. È energico ma si muove con gesti calmi ed espressivi. Guida i ragazzi in molte attività, fra cui i canti e gli esercizi musicali. Ha una bella voce. L’impronta da direttore d’orchestra.

Sul lato opposto del campo c’è la cucina, dove signoreggia Mama Alex. Lì nessuno ha una mamma, lei quindi è la mamma di tutti. Sgrida. Scherza. Comanda. Chiude un occhio.

Lascia in custodia le chiavi della cucina, altrimenti tu e gli altri la svuotereste in un secondo.

Mama Alex è uno dei potenti pistoni del motore. L’altro è Evelyn. Capelli corti. Sguardo sagace, ironia sempre in agguato.

Spiega a un operaio come fare aggiustamenti col piglio di un capocantiere.

Su di un lato del campo vedi ragazzi in esercizio. Verticali. Ruote. Salti. Piramidi umane.

C’è l’Amani Yassets Sport Club, dove si lanciano nel football, nell’atletica, il karate e la boxe. C’è la Koinonia Children Team e Nafsi Africa, che sono i gruppi di danzatori dediti alle danze rituali. I canti. Il teatro.

Si apre a ventaglio un orizzonte.

Ti unisci a loro e all’inizio non fai altro che cadere. Non sopporti il peso degli altri sulle spalle. Non indovini con precisione il bordo del copertone che fa da trampolino per il salto.

Poi cominci a capirci qualcosa. Ti avviti in aria. Rimbalzi. Poi ti diverte sollevare pesi finché dalla tua sagoma denutrita di sciacallo comincia a gonfiarsi un signore della foresta.

Il piccolo Fred diventa il grande Cheche.

Il coach ti indica per far da pilone nella piramide umana. Sorreggi i tuoi amici. Una spalla su cui contare, su cui poggiare il piede. Vi siete allenati, ora siete pronti. Kivuli vi paga un viaggio in Italia per fare uno spettacolo di acrobatica, ed è come un sogno. Quel posto lontano, la patria dei mzungu, esiste davvero da qualche parte.

Dello spettacolo non ricordi granché. È stato tutto troppo improvviso. Bevuto d’un fiato. Soprattutto, l’epilogo ha portato via con sé tutta la trama. A Ravenna, infatti, andate al mare per festeggiare, ma un cavallone si porta via quello che sorreggevi durante lo spettacolo. Il tuo amico. Forte ma meno del mare. Non riappare più.

Qui Fred impara la morte. L’avversaria dell’immortalità fanciulla. La lucertola contro il camaleonte. Una leggenda dice che quando gli dèi inviarono il camaleonte per dire agli uomini: “Non morirete!”, si mosse troppo lentamente e fu superato dalla lucertola che portava il messaggio opposto: “Che gli uomini muoiano!”

Finite scuole e acrobazie, i bivi si moltiplicano.

Perciò vai a Mother House, per l’estuario nella vita. C’è un giardino al piano terra, coi laboratori in cui sotto la fiamma di una candela tagliano in due le bottiglie per usarle come porta vaso. Al piano di sopra stanno gli uffici. Ci sono due donne, Tunen e Tunù, che si occupano della reintegrazione nelle famiglie. Aiutano con il business plan. Offrono counseling e sportello psicologico. Eric, il coordinatore, racconta di solito ai visitatori che occorre districarsi fra le bugie dei ragazzi e la loro comprensibile repulsione a certi tipi di aiuto, per assicurarsi che non ritornino indietro sui loro passi, una volta là fuori.

Ma Cheche no. Ormai è Big Fred. Ama allenarsi. Possiede una moto. Adora il rap e pubblica video su YouTube delle sue canzoni.

Vuole un lavoro.

Il porto franco di Koinonia è Shalom House. C’è l’albergo, la caffetteria e un ristorante. Nel ristorante serve aiuto in cucina. Manca un cuoco.  

Fred, hai sentito? Tu puoi fare tutto. Un pomeriggio e capisci al volo come spadellare il cavolo. Come non far venire troppo denso l’ugali. Come rendere soffici i chapati. Come speziare il pilau. Come esaltare il sapore del sukuma wiki. Come preparare la carne.

Ti danno una divisa, con lungo grembiule bianco e nero.

Sei qualcuno perché sai cosa fare. Sai cosa fare perché sei qualcuno.

Passa del tempo.

Vedi arrivare un giorno un mzungu un po’ spettinato. Ha la barba. Sarà musulmano?

Ordina un piatto di mchuzi wa morongo, il pot-pourri di verdure e curry. La tua specialità! 

Ne chiede un secondo piatto. Poi si porta intorno curioso. Chissà che vorrà.

Quando stacchi dal lavoro non lo vedi più in giro. Inforchi la tua moto e torni a casa.

Abiti da solo. Hai tanti amici, le ragazze ti guardano spesso. Ma non hai moglie ancora e, soprattutto, non hai fretta.

Strano che la patria del pole pole (far-le-cose-con-calma), se ne dimentichi quando sprona ragazzi giovanissimi al matrimonio. Ma non t’importa. Da quando sei “resuscitato” hai l’eternità davanti. Hai il tempo in regalo e sai regalarlo. Lo dimostrerai presto.

Ti chiama un amico il giorno dopo. È Chiara che ti chiede un favore, riguarda il mzungu.

Chiara è una delle responsabili di Amani. Chiara è una persona ricolma d’ironia ed entusiasmo. Chiara indovina le persone. Chiara ascolta. Chiara accoglie tutto ma possiede giudizio e non accetta qualunque cosa. Chiara lavora a testa bassa e Chiara è anche sempre pronta ad alzare lo sguardo se c’è da stare qui e ora, senza pensare alle cose da fare. Poi tanto le fa.

Viviamo.

E oggi vai da lei e lei ti nomina il mzungu. In due parole l’hai ricordato, è quello di ieri.

È qui per scrivere. È qui per conoscere. Si è messo in testa di comprare una moto.

“Aiutalo tu, Cheche. Ti prego. Se no questo chissà come finisce!”

Sì, tu una moto ce l’hai. Ci capisci abbastanza. Perché no.

Vi incontrate e c’è una strana simpatia.

Il mzungu non capisce quell’umorismo che i tuoi soci colgono al volo, però ha di certo il suo e, dopo una fase di studio, lo sentite da ambo i lati.

C’è una sorta di bazar, poco distante. Vende di tutto. Di fianco a lavatrici e fornelli recuperati chissà dove e strigliati col sapone da due ragazzini, c’è una Boxer 150. Ha il mini cruscotto appiccicato con lo scotch. È impolverata. Ti avvicini e controlli: lo starter non funziona, tutto a pedivella. Colpa della batteria. Non aziona neanche il clacson. Il contachilometri e l’indicatore del carburante non si alzano. Nel serbatoio c’è un residuo liquido che non vuol saperne di andar via.

Ottantamila scellini.

“Che ne pensi?”, chiede il mzungu.

Quando ti fermi a riflettere, inarchi i labbroni in modo rilassante.

“È una bella moto”, ammetti, “Tira un po’..”

Si chiude per sessantamila. Il meccanico è lì di fianco. Scrive su un pezzo di cartone l’elenco delle riparazioni più il costo del service. Settemila scellini.

“Hai fatto un buon affare”, commenti a fine giornata.

Intanto lo guardi perplesso. Dell’Italia ricordi alcune cose, fra cui l’ordine nelle strade. Nessuno che invade la corsia quando non deve. Nessuno che fa strane gimcane. Non salgono in sei su una motocicletta. I bus non traboccano letteralmente di persone.

E quindi ti chiedi: saprà guidarla a Nairobi?

Non solo a Nairobi, scopri il giorno dopo. Questo mzungu s’è messo in testa di viaggiare lontano. E allora gli fai un regalo. Il tuo tempo. I tuoi pomeriggi dopo il lavoro. La tua dedizione.

Corso accelerato di patente kenyana: guida a sinistra. Gli occhi anche dietro. Lo spiazzo di fronte alla Primary School in certe ore è libero. Si può girare a piacere.

Il mzungu rudimenta. Avanti. Indietro. Dopo un po’ ti dice: “Ok, andiamo in città”

Sali dietro. Aggiungi ottanta chili di carico. Il mzungu stenta. Traballa. Poi ingrana.

Conosci a memoria la tua Nairobi. Il tuo quartiere. Tutti i vicoli. I saliscendi. Le buche. Sapresti indovinare a che ora la gallina ti attraverserà la strada e i bambini ti correranno davanti alle ruote. Al mzungu invece serve ancora tempo.

Tuttavia, il giorno dopo dice: “Domani io parto!”

Dove? Ancora non si sa.

L’ultima sera, il mzungu se ne viene con un pacchetto. È quadrato. Abbastanza duro.

Apri e ti sfruscia fra le mani. È un libro. Sembrano poesie. Leggi in copertina il nome di Otok p’Bitek. Apri una pagina a caso:

It is true

I am ignorant of the dances of foreigners

And how they dress

I do not know

Their games

I cannot play

I only know the dances of my people.

Sorridi sulla terza strofa, pensando al modo in cui vestono gli stranieri.

Cogli l’occasione e offri al mzungu il tuo giubbotto di pelle, per ricambiare il regalo. Un suo cenno cortese, non può accettare. È un dono troppo generoso.

Lo avverti che in moto fa freddo. Più di quanto creda.

Rifiuta ancora. Tu insisti. Insisti una terza volta. Finalmente accetta.

Domani, una volta partito, ti ringrazierà.

La settimana vola, per te. Per lui durerà un anno.

D’altronde, come dirai un giorno, “un anno è già domani”.

Sei fuori dal Kivuli Centre a scherzare con gli amici. C’è Boniface. C’è Clinton. C’è anche Robert. Robert è uno dei gestori di Koinonia. Robert si incarica spesso di far da Cicerone, aveva accompagnato anche il mzungu il primo giorno. Durante la visita alla cappella all’interno del centro, lo straniero aveva chiesto se la messa domenicale per i bambini fosse obbligatoria.

“No”, aveva titubato Robert, “But very important”

(Urge una parentesi. Nei reportage, l’atto di fingere di scrivere solo all’insegna dello showing e non del telling, serve a far credere di prender le distanze dal contenuto mostrato. Uno sguardo meno ingenuo si accorge però che non è mai così. Sa che il “descrittivo” è eo ipso “prescrittivo”. Perciò non fingeremo neutralità rispetto a certi temi. Ricalibriamo però dopo esserci accorti, durante questo viaggio sub-sahariano, che lo sguardo distaccato dell’Occidentale rispetto al coinvolgimento fideistico degli Africani assume la medesima prospettiva di quello altezzoso dei primi missionari imperialisti di fronte ai senza-Dio. Stia attento l’ateismo, quindi, di non configurarsi come neo-paternalismo).

Lo stesso Robert, solo in apparenza più austero, è il primo a gioire nel ritrovarsi di fronte il mzungu.

“È tornato!”, esclama al rumoroso arrivo della moto.

E ora, Fred, ti volti. Lo riconosci. Le tue grosse labbra inarcano il sorriso irenico che ti contraddistingue.

Hey Friend! (Rafiki), where have you been then?

Il rafiki ti parla della caldera di Ngorongoro. Ti parla dei grattacieli di Dar Es Salaam. Della carne di squalo e barracuda a Zanzibar. Del benzinaio che lo cosparge di benzina per sbaglio. Della poliziotta alla frontiera con la Tanzania che gli chiede di “offrirle il pranzo” per ridargli indietro i documenti, col mzungu che non capisce e la invita fuori a ristorante.

Osservi la moto cui manca il cruscotto. Che fine ha fatto?

Il mzungu confessa un piccolo incidente, il primo giorno. Un pulmino gli ha stretto la strada. È uscito dalla carreggiata e paf! Ma è ancora integro.

Alzi gli occhi al cielo. Pensa se l’avessi avuto sulla coscienza.

Invece no. È pieno di gratitudine. Gli hai dato una specie di passaporto per andare ovunque. Per conoscere l’Africa. È qui che cogli il rimando. Lui sei tu. Tu sei Jack. Jack ti ha dato il passaporto per conoscere il mondo fuori dalla slum. Per conoscerti.

Amani e Koinonia te l’hanno riempito di pagine, te l’hanno timbrato con l’istruzione, l’accettazione, il gioco, gli amici, il lavoro, ritrovare la famiglia, disintossicarti, allenarti, ergerti in piedi.

Fai un gesto d’auspicio al mzungu e gli auguri il meglio. E lui per te.

Dove andrai adesso?

Il mzungu a nord, nel Samburu. Diretto al lago Turkana.

Tu all’idea per la prossima canzone di Big Fred.

Si intitola: Do it for love

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Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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