Come una boccetta d’etere
Al tavolino di un bar c’è un vecchio scrittore, un’attrice gloria di un tempo che fu e un giovane ragazzo con velleità teatrali. No, non è l’incipit di una barzelletta dai contorni intellettuali, ma una situazione paradigma dei giorni nostri teatrali.
Da parte mia, per questioni anagrafiche, non posso partecipare direttamente a questa conversazione e questa volta ricopro il ruolo di ascoltatore. Il ragazzo, con sana curiosità giovanile, chiede ai due il segreto per diventare un uomo di teatro e realizzare i propri sogni. Il vecchio scrittore, quasi ad aver la risposta già pronta all’uso, va senza indugi: “Prima di tutto devi immaginare un piccolo paesino sperduto, sì e no di cinquecento anime, bene. E ora in questo paesino immagina che ci siano trenta pizzerie. Non ha senso, è normale che siano vuote e falliscano. Questa è la situazione teatrale di oggi, un fallimento. Ascolta me, per il tuo bene, lascia perdere”. Subito ribadisce l’attrice al suo fianco: “Ci sono troppe pizzerie e pochi clienti. Siamo troppi e non c’è spazio per tutti”. Ora, chiaro che non siamo sulle vette della prima lettera al giovane poeta di Rilke, però l’esempio è quantomeno curioso. Incalza l’attrice: “La vostra generazione è cresciuta male, arrogante, pretende che tutto le sia dovuto e le sia permesso; ci vogliono preparazione e sacrifici, bisogna fare un bel po’ di gavetta. Il teatro è pieno di gente che si crede arrivata, quando in realtà sono solo dei parvenus o al massimo filodrammatici”. Io spettatore, aggiungo nella mia testa: “Dunque non si tratta neppure di aspettare il proprio turno, è che non c’è proprio posto. Chiaro”.
Forse però al lettore è meno chiaro il legame tra questo mio esempio di partenza e il tema di questo numero della rivista. Per difendere la mia scelta, vi invito a sostituire il vecchio regista, l’attrice e il giovane ragazzo con tre personaggi di un capolavoro della drammaturgia mondiale, Il Gabbiano di Anton Pavloviĉ Ĉechov. In particolare, a quel tavolino del bar – non troppo lontano da quelli posti nel parco della tenuta di Sorin, in apertura del primo atto – facciamo sedere l’attrice Arkadina, suo figlio Treplëv e il letterato Trigorin. La situazione iniziale del dramma è nota: Treplëv allestisce in giardino un palcoscenico alla svelta per recitare davanti agli ospiti il suo nuovo dramma; l’interprete è la sua giovane amata, Nina. La messa in scena di Treplëv ha una natura programmatica:
Ci vogliono nuove forme. Ci vogliono nuove forme, e se non esistono, meglio niente, e aggiunge: Personaggi vivi! Non si deve rappresentare la vita com’è e nemmeno come dovrebbe essere, ma come si presenta nei sogni.
È proprio in occasione di questa piccola rappresentazione che prende avvio lo scontro tra due posizioni: a Treplëv si oppone Arkadina, nel binomio madre-figlio, sotto la lente dello scontro generazionale, il diritto all’espressione si trasforma in stoltezza ed errore di gioventù. Le premesse per lo scontro, a dir la verità, c’erano già prima che Nina iniziasse la sua famosa tirata: Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici… Perché?
Treplëv: È gelosa. Già è contro di me e contro lo spettacolo e contro il mio dramma perché non è lei che recita, non conosce il mio dramma, eppure già lo odia […] Lei è già seccata che, ecco, su questa piccola scena, possa aver successo la Zarecnaja (Nina, ndr) e non lei.
Dunque secondo Treplëv, Arkadina è semplicemente gelosa che la scena la prenda una giovane attrice e non una attrice affermata come lei. E pensare che la povera Nina, per salire su quel palchetto, ha dovuto superare degli ostacoli, è dovuta scappare di nascosto da casa per essere in quel giardino: NINA: Mio padre e mia madre non mi lasciano venir qui. Dicono che qui vivete da bohemiens, hanno paura che io finisca per fare l’attrice.
Come sono indisciplinati questi ragazzi! E come avevano visto lungo i genitori di Nina! Oltre a essere gelosa, Treplëv accusa sua madre anche di essere invidiosa di una gioventù ormai persa:
Treplëv: Mia madre non mi ama. E ci mancherebbe altro! Lei ha voglia di vivere, d’amare, di mettersi bluse sgargianti, e io invece ho già venticinque anni e le faccio costantemente ricordare che non è più giovane. Quando io non ci sono lei ha soltanto trentadue anni, quando ci sono, diventano quarantatré, ed è per questo che mi odia.
Ma veniamo allo scontro: la giovane Nina prende la scena e recita fino all’apparizione degli occhi del demonio. Arkadina ride dell’effetto scenico e si lamenta della conseguente puzza di zolfo. Treplëv a questa ingrata accoglienza della madre, si ribella e sbotta:
“Il dramma è finito! Basta! Sipario! […] Avevo trascurato il fatto che solamente pochi eletti possono scrivere drammi e recitare sulla scena. Ho violato il monopolio!”
Alla provocazione risponde Arkadina:
È un ragazzo capriccioso e suscettibile[…] non ha scelto un qualsiasi dramma normale, ma ci ha costretti ad ascoltare questo delirio decadente. […] qui c’è una pretesa di chissà quali forme nuove, di aprire una nuova era dell’arte. E invece, secondo me, non c’è nessuna forma nuova, ma semplicemente un brutto carattere.
Con la matita io sottolineerei prima di tutto quel normale: la norma serve a ognuno di noi per misurarsi, per misurare l’errore (Arkadina) o per superarla (Treplëv). Sottolineerei anche quel semplicemente, quasi Arkadina non voglia dar troppo importanza alla nuova proposta del figlio, del resto si sa a ogni età i suoi problemi. E l’età di Treplëv è ancora troppo giovane per essere presa sul serio. Questo conflitto nel Gabbiano passa anche attraverso un momento tenerissimo, il frammento della fasciatura, nel quale l’amore madre-figlio sembra alla fine risolvere il contrasto felicemente:
Arkadina: Siediti (gli toglie dalla testa la fasciatura). Sembra che tu abbia il turbante. Ma è quasi cicatrizzata. Sono rimaste delle sciocchezzuole (lo bacia alla testa). Ma quando non ci sarò, non farai mica di nuovo cik-cik, eh?
Dove quel dolcissimo cik-cik sta per il tentato suicidio di Treplëv con il colpo di pistola che lo ha solo sfiorato. Solo l’amore conta, più dell’arte, più delle forme del teatro. Almeno fino all’intrusione nel discorso del nuovo amore di Arkadina, Trigòrin
Treplëv: In questi giorni, io ti voglio bene con la stessa tenerezza e devozione di quando ero bambino. All’infuori di te, adesso non m’è rimasto nessuno. Solo, perché ti abbandoni all’influenza di quell’uomo?
La domanda così diretta fa tornare alla realtà e l’amore ritrovato crolla nel dramma più violento:
Treplëv: Io non lo stimo. Tu vuoi che anch’io lo consideri un genio, ma scusami io non so mentire, le sue opere mi danno il voltastomaco!
Arkadina: È l’invidia. Alle persone senza talento ma piene di pretese non resta altro che negare i veri talenti. Niente da dire, è una consolazione!
Ecco rispolverato un grande classico, la favola della volpe e l’uva. E poi ancora:
Treplëv: (ironicamente) I veri talenti! (con ira) Io ho più talento di voi tutti, già che siamo a questo! (si strappa la fasciatura dalla testa). Voi, mestieranti, vi siete impossessati del primato nell’arte e considerate legittimo e vero solamente quello che fate voi, e il resto lo schiacciate e lo soffocate! Ma io non vi riconosco! Non riconosco né te né lui!
Arkadina: Decadente!
Treplëv: Vattene nel tuo teatro e recita pure quei pietosi, mediocri drammi!
Arkadina: […] Tu non sei neanche in grado di scrivere un misero vaudeville! Borghesuccio di Kiev! Parassita![…] Straccione! Nullità! […]
Ora, per prendere una posizione tra le parti, è cosa buona e giusta chiamare in causa Trigòrin e Nina, e chiedergli cosa ne pensano dell’argomento. Trigòrin, forte della sua posizione di scrittore affermato, può banalmente dare un colpo alla botte e uno al cerchio.
[Treplëv] tiene il broncio, sbuffa, predica forme nuove… ma per tutti c’è posto, e per i nuovi e per i vecchi, perché darsi spintoni.
Che, se a prima vista sembra la soluzione più saggia, sotto sotto suona un po’ come quelle frasi pronunciate dalle signorotte del centro città, che si lamentano della sporcizia lasciata sulla strada dopo ogni corteo-manifestazione studentesca. Il punto di vista di Nina, invece, ci sembra più credibile e ci permettere di conoscere più da vicino anche il suo personale dramma:
Nina: Ieri sera tardi sono venuta a vedere in giardino se il nostro teatro esisteva ancora. È ancora li in piedi. e così voi siete già diventato uno scrittore…Voi uno scrittore e io un’attrice… Siamo cascati tutti e due nel gorgo… una volta vivevo allegra, da bambina, mi svegliavo la mattina e cantavo, amavo voi e sognavo la gloria, e adesso.
Ecco, lì la parola chiave, quel “gorgo”, che è stata la causa della domanda iniziale del ragazzo al tavolino del bar. È necessaria una risposta, ora, subito, prima che sia troppo tardi, ed evitare la sorte di Treplëv.
Treplëv. Voi avete trovato la vostra strada, voi sapete dove andare, mentre io sono trascinato in un caos di sogni e di immagini senza sapere per che cosa e a chi serva tutto questo. Io non credo e non so in che cosa consista la mia vocazione
In Ĉechov i personaggi parlano attraverso sfoghi che sono in realtà l’espressione dei loro sogni, e questo permette loro di cullarsi in una visione tutta immaginaria e velleitaria di un avvenire migliore pronto a riscattarli illusoriamente dalla miseria dell’oggi. Certo, oggi nel teatro contemporaneo c’è qualcuno che non si ferma ai propri sfoghi e i vari costumi in tute acetate e microfoni col filo hanno, oltre a un proprio valore di carta di identità, l’obiettivo di punture di spillo che finiscono con l’infastidire chiunque dei predecessori. Ma forse non è neppure questa la soluzione. Forse basterebbe un po’ più d’onestà, forse a quel tavolino del bar dovrebbero sedersi più Dorn, il medico del Gabbiano che, dopo aver visto lo spettacolo di Treplëv, lo rincuora:
Dorn: C’è qualcosa di fresco, di ingenuo…[…] Mi ha fatto una forte impressione. Voi siete una persona di talento, dovete continuare.
L’attrice e il vecchio scrittore, invece, prendono in mano la penna per mettere il punto alla discussione sentenziando con un paternalistico: Ah, gioventù, gioventù.
Ora tu, ragazzo, non dargli questa possibilità. Ti prego rispondi e prendi a prestito, sempre dal Gabbiano, la battuta di Màša: Quando non resta altro da dire, dicono sempre: gioventù, gioventù…
Però rispondi subito, fallo ora, prima che tu non possa più sentire la voce di Treplëv, prima che il suo cik-cik vada a segno e la boccetta di etere scoppi.
di Antonio Carnevale
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