Stoltezza giovanile al potere
Com’è noto, la successione al trono imperiale romano spesso non avveniva in circostanze particolarmente edificanti. L’ultimo imperatore degli Antonini, Commodo, era stato assassinato nel 192 d.C. dal suo stesso istruttore militare Narcisso. Il potere era fuggevolmente passato nelle mani del generale e console Pertinace. Ex braccio destro di Marco Aurelio, costui ne condivideva il moralismo e la vicinanza all’aristocrazia senatoria in opposizione alla nobiltà militare. Come sottolineò Machiavelli (Cfr. Il Principe, cap. XIX), Pertinace fu un individuo di rara correttezza e misura, ma proprio per questo venne assassinato, l’anno dopo, dai pretoriani che vedevano nel suo pacifismo un ostacolo alle proprie ambizioni. La loro avidità e arroganza li spinse a mettere all’asta il trono imperiale, assegnandolo dunque al ricchissimo senatore Didio Giuliano, la cui inelegante ascesa provocò una guerra civile che gli contrappose gli uomini fedeli ai più importanti generali posti al comando delle province. Il governatore della Pannonia, Lucio Settimio Severo, nell’arco di circa quattro anni sgominò tutti i rivali e prese il potere, trasformando la figura dell’imperatore da protettore dell’Impero per conto del Senato a padrone dello stesso e fondando interamente l’autorità principesca sulla fedeltà dei propri legionari. Settimio Severo fu il primo imperatore a farsi chiamare dominus invece che princeps, un termine che rimandava al concetto di deus. Infatti, inaugurò anche l’uso di raffigurare, per esempio sulle monete, gli imperatori con attributi divini quali la corona di raggi solari. Era un ricco eques dell’Africa proconsolare e aveva elevato ancor più la sua posizione sociale sposando Giulia Domna, membro di spicco della nobiltà siriana. Limitò lo strapotere delle coorti pretorie inserendovi soldati illiri e, più genericamente, creando nuove legioni composte da quelle truppe provinciali che gli erano sempre state fedeli e che videro presto i propri salari, diritti e possibilità di carriera accresciuti. La fedeltà dei suoi gli permise di sconfiggere i parti e i caledoni, consolidando la propria posizione.
Riuscì a imporre la successione per diritto dinastico e, alla sua morte nel 211, i figli Caracalla e Geta presero il potere. Fu, però, Giulia Domna a controllare realmente gli affari di Stato. A parte le campagne militari contro i popoli delle frontiere, Caracalla si preoccupò di fare assassinare dai suoi centurioni il fratello minore, mentre cercava rifugio tra le braccia della madre, proclamarne la damnatio memoriæ, fare erigere le più imponenti terme di Roma e promulgare la Constitutio Antoniniana che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, con l’obiettivo di imporre loro una pesante tassa di successione. Fu assassinato dal prefetto del pretorio Macrino nel 217, il quale si ritrovò a governare un Impero che in realtà era ormai nelle mani, capaci e manipolatorie, di Giulia Domna e del suo entourage familiare. Dopo poco più di un anno di regno, Giulia Domna spacciò il nipote di sua sorella Giulia Mesa per un figlio naturale di Caracalla e i suoi sostenitori sconfissero le legioni di Macrino nella battaglia di Antiochia. Questi mandò suo figlio Diadumeniano a Zeugma per chiedere aiuto ai parti, ma questi ultimi ritennero opportuno ucciderlo. Il tentativo di fuga del vinto terminò sulle coste della Cappadocia, dove fu catturato, reso edotto della sorte del figlio e giustiziato come usurpatore.
Nel 218, a quattordici anni, Eliogabalo divenne imperatore. Già dal nome, ci rendiamo conto che questa figura rappresentò l’apice dell’orientalizzazione che la nobiltà siriana stava imprimendo sulle istituzioni latine, ma quel nome egli non lo usò mai con riferimento a se stesso, bensì al nume il cui sommo sacerdozio aveva ricevuto in eredità dal bisnonno materno Gaio Giulio Bassiano. Il nome originario dell’imperatore era Sesto Vario Avito Bassiano, laddove il termine siriano basus designava proprio il sommo sacerdozio, ma come tutti i Severi se lo modificò con un richiamo ai precedenti imperatori alla cui azione politica la dinastia si era ispirata: Marco Aurelio Antonino Augusto. Trattandosi di un culto solare, si potrebbe pensare che il termine Eliogabalo condivida l’origine indoaria del greco Ἥλιος, invece si tratta dell’espressione semita El-Gabal (trad.it. Dio-Montagna), la quale designa un’entità adorata pressoché esclusivamente nella città siriaca di Emesa, nella quale era radicato il potere della sua stirpe che discendeva dall’aristocrazia araba della regione. In età repubblicana, questa divinità era stata associata all’arcaico culto latino del Sol Indiges (trad.it. Sole Invocato), commutatosi poi in quello ben più noto del Sol Invictus (trad.it. Sole Invitto) proprio per decisione di Eliogabalo che intendeva trasformarlo in una fede universale. La sua posizione nel pantheon romano doveva essere, nelle intenzioni del nuovo imperatore, più preminente di quella detenuta da Giove, trasformando la religione di Stato in una forma di enoteismo.
Un ritratto particolareggiato di questa operazione culturale ci viene offerta da due contemporanei: il senatore Cassio Dione, con la sua Ῥωμαϊκή ἱστορία, ed Erodiano, autore delle Τῆς μετὰ Μάρκον βασιλείας ἱστορίαι, forse anch’egli siriano. L’opera che però ci ha lasciato il ricordo più fosco di questo personaggio è l’Historia Augusta, scritta da un autore ignoto del IV secolo che fondò buona parte della sua trattazione sui pettegolezzi promulgati dai suoi avversari politici. Forse desunse queste dicerie da una cronaca perduta redatta proprio da uno di essi, il senatore Mario Massimo, che fu uno storico noto per il ricorso a un’aneddotica più superficiale di quella che popola i testi di Svetonio. L’affresco che gli oppositori ci trasmettono è appunto quello di un giovane sovrano sprovveduto, corrotto e stolto al limite della follia ed è questa l’immagine prevalente che vi è stata di lui per molto tempo.
Con buona pace di Lawrence Alma-Tadema, Eliogabalo non ha mai sepolto nessuno sotto una massa titanica di petali di rose, ma ci sono effettivamente dei buoni motivi per farne un esempio negativo di inesperienza al potere. Risultò certamente scandaloso per l’enormità dell’innovazione che intendeva apportare alle consuetudini romane, specialmente in fatto di religione. Nel 218, ordinò che fosse posto sopra all’Ara Victoriœ un proprio ritratto in vesti sacerdotali, costringendo di fatto i senatori a sacrificare anche a lui l’incenso e il vino che portavano alla dea. Nel 220, celebrò un matrimonio sacro tra il proprio dio e tre dee che potevano mapparne il dominio simbolico: Astarte, Minerva e Urania (non in qualità di musa dell’astronomia, ma in quella di dea dei cieli sulla falsariga della fenicia Tanit). Eliogabalo si fece circoncidere e obbligò alcuni suoi collaboratori a fare altrettanto. Fece esportare dalla sua città natale un grosso betilo, un meteorite conico di roccia nera, perché fosse portato in processione ogni solstizio d’estate su un possente carro da parata, mentre dei viveri venivano donati alla plebe in festa. L’imperatore in persona ne guidava i sei bianchi destrieri, camminando all’indietro per tenerne le redini davanti a loro, così che sul carro non vi fosse anima viva. Danzava poi al suono di cembali e tamburi, obbligando i senatori ad assistere. Ma soprattutto fece erigere l’Elagabalium, un fastoso tempio posto sul lato nordorientale del Palatino, sito davanti al Colosseo dal lato degli archi di Costantino e di Tito, un’area già consacrata a un’altra divinità siriaca: Adone. Il suo fervore zelante lo spinse a traslocare in questo santuario alcune tra le più sacre reliquie dell’Urbs: il fuoco di Vesta, i dodici scudi Ancilia dei Salii, il Palladio e l’ago di Cibele, un altro betilo nero di forma conica. Espanse anche le terme di Caracalla e fece costruire il circo Variano.
Inoltre, Eliogabalo distribuiva cariche e onorificenze ai propri amanti, si fece erigere diverse statue a guisa di divinità, sposò la vestale Giulia Aquilia Severa e arrivò a sposare un totale di cinque mogli, oltraggiando la sensibilità conservatrice dell’ordine senatorio. Il fatto che non facesse mistero del proprio interesse per il sesso maschile non sarebbe stato particolarmente problematico, ma la scelta di celebrare pubblicamente i propri amanti Ierocle e Zotico come i veri destinatari del proprio amore coniugale si spingeva oltre i larghi canoni dell’epoca, così come più in generale accadeva per la funzione ieratica che tributava alla disinibizione e all’ambiguità sessuale. Forse, però, ciò che fece maggiormente infuriare senatori e pretoriani fu il fatto che assunse il consolato per tre volte di seguito, venendo visto come un nuovo Domiziano. La nonna Giulia Mesa, subodorandone la vicina caduta in disgrazia, lo convinse nel 221 ad adottare il proprio stesso cugino Alessandro Severo, così da assicurare una discendenza interna alla famiglia. Eliogabalo comprese rapidamente che la predilezione del patriziato e dei militari andava rapidamente spostandosi su Alessandro e fece del suo meglio per farlo assassinare e per disconoscerlo, ma questi suoi tentativi furono vanificati dalla disobbedienza e dalle aperte rivolte che provocavano. Nel 222, ancora diciottenne, finì assassinato insieme alla madre, Giulia Soemia, dai pretoriani a cui aveva cercato di far credere che il cugino fosse moribondo solo allo scopo di testarne la reazione e condannato alla damnatio memoriæ. Data l’influenza che avevano esercitato durante il suo principato, alle donne fu da allora impedito di partecipare alle sedute del Senato. Eppure, essendo Alessandro appena tredicenne, all’inizio furono ancora le potenti matrone della sua famiglia a detenere il potere reale.
Eliogabalo e la sua cerchianon avevano, invero, recato gran danno allo Stato e nei primi anni le sue stranezze erano state tollerate, perché la dinastia dei Severi aveva portato e continuava a portare una certa stabilità e proprio per questo fu suo cugino e figlio adottivo a essere acclamato imperatore dopo di lui. Quello che della sua figura appare effettivamente insalvabile, è la totale indisposizione al compromesso politico e alla presa di coscienza delle aspettative che i suoi sottoposti nutrivano riguardo al ruolo che gli avevano offerto. Il carattere mite del suo successore, che prese il potere pur essendo ancora più giovane di lui, gli permise di ascoltare veramente i consigli dei familiari e degli amici, diventando un imperatore molto più apprezzato e molto meglio ricordato. Nel 235, divenne a sua volta l’ennesimo imperatore assassinato da militari ribelli e il successivo, violento mezzo secolo di anarchia militare fece comunque rimpiangere a molti le bizzarrie della sua dinastia e, al contrario di essa, rischiò seriamente di portare l’Impero al collasso.
di Ivan Ferrari
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