Il regista rumeno Cristian Mungiu torna nelle sale con un potente ritratto della xenofobia
La Transilvania è una regione dell’odierna Romania, che si trova, letteralmente, oltre la foresta (trans-silva): aldilà cioè dei Monti Apuseni, che separano la grande pianura ungherese dall’altopiano transilvanico. Una regione di frontiera, un lembo di terra attraversato da conflitti etnici e linguistici, in cui convivono una maggioranza rumena e una grande minoranza ungherese (20%), ma anche tedeschi e rom.
È in questa zona mineraria dal complesso intreccio etnico che Cristian Mungiu ambienta il suo ultimo film, che con ambizione totalizzante tenta di indagare le origini e il dilagare dei fenomeni di xenofobia e razzismo. Dopo la Palma d’oro al festival di Cannes del 2007 per 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni – tormentoso film sull’aborto illegale durante il regime di Ceaușescu – Mungiu si dedica quindi di nuovo a temi politici radicati nella sua Romania.
Il film, uscito nelle sale italiane il 6 luglio, raggiunge l’acme emotiva in un piano sequenza di oltre quindici minuti, reso dinamico solo dal cambio di messa a fuoco, in cui la comunità di un villaggio protesta contro un panificio locale, considerato colpevole di aver assunto tre dipendenti provenienti dallo Sri Lanka. Le rimostranze popolari xenofobe – dolorose per lo spettatore perché tristemente note e potenti nel loro radicarsi in noi proprio perché banali – si affastellano e innalzano di tono progressivamente, fino ad esplodere e fondersi in un’unica voce, come un moderno e farsesco coro greco.
L’occhio di Mungiu è insieme invadente, interno, morboso e distante, enciclopedico, totalizzante. I campi lunghi si alternano ai primissimi piani, ma soprattutto a soggettive immersive e angoscianti del protagonista, Matthias.
Operaio emigrato in Germania, Matthias ritorna al paese natale dopo aver perso il lavoro per aver aggredito un superiore reagendo a un insulto razzista (“Zigeuner”, zingaro). A Bradu, il suo villaggio – ma il film è girato a Rimetea, paesino transilvanico ex patrimonio dell’UNESCO – ritrova il figlio, un bambino che da quando ha visto qualcosa di spaventoso nel bosco circostante non parla più. Il padre cerca quindi di fargli superare la paura portandolo con sé nella foresta, facendogli imbracciare il fucile, mostrandogli i segreti della sopravvivenza e dello scontro con gli “animali selvatici”, in un’anacronistica ode al selvaggio e alla forza virile: «chi ha pietà muore per primo», dirà al bambino.
La storia personale e soggettiva di Matthias – il suo rapporto con il figlio e con l’amante, la responsabile del panificio locale, e con il padre malato – si alterna quindi alla storia collettiva del villaggio, storie accomunate da una gestione instabile delle relazioni interpersonali, viziate dai pregiudizi e dalle contraddizioni morali. Contraddizioni presenti in ogni personaggio, in un film nient’affatto manicheista e che mai cede al semplicismo nella rappresentazione dei sentimenti:
«Ci piace vederci come creature superiori, ma appena inizia una guerra anche le persone migliori si trasformano in assassini, stupratori e torturatori nei confronti del vicino, di persone che parlano la tua lingua o hanno la tua religione. Ho pensato alla natura umana, e a cosa ci sia sotto la superficie.»1
Sotto la superficie, nelle viscere, nella mente di ogni uomo:
«A quanto pare, l’empatia ed altre abilità di interazione sociale hanno origine sulla superficie della corteccia cerebrale, mentre gli istinti più animali che hanno contribuito alla sopravvivenza della specie umana occupano il restante 99% del cervello. R.M.N. [ndr. titolo originale del film] sta per Rezonanta Magnetica Nucleara – Risonanza Magnetica Nucleare. […] In sostanza, si tratta di uno strumento di indagine del cervello, una scansione di quest’organo allo scopo di cercare di individuare cose sotto la sua superficie.»2
È la risonanza magnetica che con forte simbolismo viene affrontata dal padre del protagonista, gravemente malato, e che sul finire del film compie un gesto che il giovane nipote sembra aver profetizzato in tutta la sua carica violenta. Ma è anche la risonanza che il regista utilizza per scandagliare i meccanismi antropologici.
Il film scansiona infatti il cervello umano e studia l’eziologia e il quadro sintomatologico del razzismo. Fino a mostrare l’apice dell’intolleranza, che esplode anche e soprattutto in un paese che già conosce i fenomeni migratori e l’instabile equilibrio multietnico, e che solo a livello legale si sente parte dell’Europa, vista come un’istituzione distante e ingiusta. La storia, ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto in un paesino della Transilvania nel 2020, mostra infatti quante contraddizioni ancora animino i territori europei:
«La comunità non era aperta al cambiamento, ma non lo percepivano come una discriminazione contro qualcuno, solo volevano conservare il proprio stile di vita, le proprie tradizioni. Qualcosa che succede in tutti quei piccoli centri da dove non è facile capire cosa sia davvero l’Unione Europea e adattarsi.»3
L’intento registico da film corale e da film mondo rende l’opera un ritratto desaturato ma rumoroso della nostra intolleranza e dei nostri pregiudizi, in un teatro dell’inconscio suggellato dall’apparizione finale delle bestie che ci abitano e contro cui siamo impotenti: apparizione surreale del «lato belluino»4 della nostra psiche.
Bibliografia
[1] Intervista a Cristian Mungiu: https://www.cinefilos.it/tutto-film/interviste/cristian-mungiu-nella-storia-vera-di-animali-selvatici-ce-il-nostro-lato-peggiore-580757
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
di Francesca Fulghesu
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