La malattia infantile dell’antagonismo

A cent’anni dall’Estremismo di Lenin

Russia, 1920. Il Paese è infiammato dalla guerra civile. La spinta rivoluzionaria dell’immediato dopoguerra sembra essersi arenata sugli scogli della repressione. Tuttavia, «fare come in Russia» è ancora una parola d’ordine che echeggia forte nel Vecchio continente. Tra il 19 luglio e il 7 agosto, a Mosca e San Pietroburgo, i comunisti di tutto il mondo si riuniscono per discutere il da farsi. Il dibattito è acceso. Come sempre, come in ogni organizzazione, anche nella Terza Internazionale di quegli anni emergono punti di vista differenti. In particolare, alcuni partiti ed esponenti politici che rappresentano la “sinistra comunista” propugnano l’intransigente rifiuto di ogni compromesso politico, tanto con la borghesia quanto con coloro che avevano abbandonato la causa delle classi subalterne: i socialdemocratici e i socialisti di destra. Un rifiuto che, secondo gli altri membri del Comintern, rischia di rendere impossibile l’azione rivoluzionaria. Tra questi c’è Lenin, che si incarica di intervenire nel dibattito con un opuscolo diventato celeberrimo: L’estremismo, malattia infantile del comunismo.

La critica leniniana è feroce, e tuttavia appare indulgente agli occhi di chi è abituato ad associare i militanti comunisti ai membri di una setta pronti a lanciarsi reciproche scomuniche. La confusione teorica della “sinistra”, sostiene Lenin, è un passaggio doloroso ma inevitabile. Una malattia infantile, come scrive nel titolo, e per questo passeggera, la cui guarigione renderà l’organismo più sano di prima.

Sono passati centodue anni da quegli eventi e i cambiamenti storici intercorsi sono innumerevoli. Tuttavia, una malattia infantile ancora affligge il movimento che vuole abolire lo stato di cose presenti. Quella odierna è però differente rispetto alla malattia diagnosticata da Lenin. Non sorgendo in un’epoca storica di mobilitazione di massa e di slancio rivoluzionario, i caratteri che porta impressi in fronte sono quelli della sconfitta e della dismissione di ogni opzione trasformativa. Lo spirito di cui si fa portatore non è quello del comunismo rivoluzionario, ma della disillusione.

Sto provando a farlo [a rimettermi radicalmente in questione] cercando di combattere il senso di vertigine che mi viene […] quando capisco che le ingiustizie sono troppo grandi per essere eliminate, che il mondo in cui vivo non è il migliore dei mondi possibili e che non lo sarà mai e che probabilmente questi altri mondi possibilmente migliori non sostituiranno mai il mondo dominante (Borghi 2020, p. 21).

Per capire qual è il morbo che oggi si diffonde tra chi non rinuncia a pensare che un altro mondo è possibile, dobbiamo prima fare un po’ di storia politica.

Storicamente il movimento socialcomunista si è fatto interprete dei bisogni, delle esigenze, degli interessi di una specifica parte della società: la classe proletaria. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di scrivere in uno scorso articolo (La Tigre di Carta, settembre 2021), la classe non è una “cosa” di cui è possibile elencare le caratteristiche. In quanto esito di un processo relazionale, e nella fattispecie di un processo relazionale tra diseguali, la classe è infatti sempre un oggetto per-un-soggetto: la classe proletaria è tale perché esiste una classe che la domina, e che se ne serve per i propri scopi. Ma la classe proletaria non ha consapevolezza di essere tale: non sa nemmeno di essere una classe unica. Esiste da un punto di vista oggettivo perché se analizziamo i rapporti sociali ed economici possiamo renderci conto che esiste una classe dominante e una dominata. Ma poi non è così facile individuarne i confini, proprio perché la classe dominante fa di tutto perché i suoi componenti non abbiano coscienza della propria condizione: è così che nascono miriadi di inquadramenti contrattuali diversi, o il mito dell’auto-imprenditorialità, o le false partite iva, e così via.

Il passaggio dalla mera esistenza oggettiva alla consapevolezza soggettiva di sé, costituisce il punto archimedeo della lotta politica. Nella lotta, infatti, le rivendicazioni «economico-corporative» possono essere tradotte sul piano «etico-politico», ossia universale, inerente alla costruzione di una nuova civiltà. I proletari possono così rendersi conto che dietro a tutte le differenze di contratto, di etnia, di genere ecc. vi una classe unica, che ha gli stessi interessi, dalle campagne emiliane fino alla grande industria di Shangai.

La sconfitta politica del movimento operaio del Novecento ha messo in seria questione il senso di appartenenza a un’unica classe sociale, e di conseguenza anche l’idea stessa di costruire una nuova civiltà. A questo punto, sembrano rimanere due sole possibilità: l’accettazione supina dell’esistente («There is no alternative», come diceva la Thatcher) oppure la strenua resistenza al Moloch capitalista. «Resistere», non a caso, è diventata parola d’ordine di uso comune nell’area militante, in tutte le sue varianti. E altrettanto non a caso, il concetto di “resistenza” rimanda alla capacità di tenere la posizione, non arretrare, restare saldo in un posto. È la trincea, l’ultima possibile, che si scava e da cui ci si difende di fronte agli assalti nemici.

Di questa scomoda posizione, resa necessaria dalle vicende storiche, è stata fatta virtù. Le conseguenze sono state di vario ordine, pratico e teorico. Non solo le iniziative tattiche, che per loro essenza sono funzionali se permettono di raggiungere un fine strategico, sono state piuttosto interpretate come la realizzazione stessa del fine strategico: la «territorializzazione dell’utopia» (Borghi 2020, p. 146) per citare Rachele Borghi, una delle massime teoriche dell’ultimo periodo. «Centri sociali, scuole e università occupate, consultorie autogestite, case occupate, case collettive, esperienze separatiste, presidi come Venaus in Val di Susa o la Zad […] di Notre-Dame-des-Landes, santuari e rifugi antispecisti» (idem) che storicamente sono stati interpretati come passaggi per costruire un nuovo mondo, sono diventati il nuovo mondo senz’altro.

Di conseguenza, anche la marginalizzazione nel dibattito pubblico degli ideali di libertà e uguaglianza sociale è stata accettata e anzi rivendicata come «spazialmente strategica per la costruzione di un discorso contro-egemonico» (ivi, p. 14). Il concetto di egemonia, che esprime la capacità di un soggetto sociale di essere dirigente e dominante, di porre i propri interessi particolari come interessi della totalità della società, viene qui ritorto al punto da non significare nient’altro che la mera opposizione allo statu quo. È il negativo che si impone e assorbe il positivo fino a far scomparire ogni sua possibilità.

L’involuzione si è manifestata progressivamente anche sul piano linguistico. Il prefisso “anti” è sembrato la soluzione per coprire l’assenza di una proposta politica. Si è anticapitalisti, antifascisti, antiautoritari, antisessisti, antimilitaristi e si auspica «un mondo antioppressivo, antiautoritario, anticapitalistia, antifascista, antisessista, anticlassista, antiagista, antiabilita, antispecista». Un atteggiamento meramente negativo, antagonista – e non a caso la galassia di organizzazioni che oggi si collocano all’estrema sinistra venga definito “movimento antagonista” –, già criticato a suo tempo da Valentino Gerratana, quando scriveva che «“una parola d’ordine negativa, non collegata a una soluzione positiva determinata, […] è il nulla, un grido nel vuoto, una declamazione senza sostanza”. Solo se non è preso a sé, se è collegato alla soluzione positiva, all’analisi di che cosa sostituire, e come, a ciò che si distrugge, il principio della demolizione della [società esistente] acquista il suo preciso significato» (Gerratana 1974, p. 38).

È sul piano teorico però che emergono i problemi maggiori. Priva di prospettiva, la lotta per la difesa degli interessi immediati non si traduce mai su un terreno universale. L’«etico-politico» che abbiamo richiamato nel paragrafo precedente scompare e resta solo la dimensione «economico-corporativa». Una dimensione che a differenza del passato non si articola tanto sulla base dell’appartenenza a un dato settore produttivo (metalmeccanico, chimico, impiegato, ecc.). La lotta non è quindi oggi declinata in senso sindacale. Piuttosto si sviluppa a partire dall’oppressione specifica di cui il singolo individuo è portatore e assume i contorni della rivendicazione di diritti civili. È il fatto di essere donna, migrante, persona LGBTQ+, povero, disabile… a dare origine alle differenti battaglie. Battaglie che, sia chiaro, vanno sostenute, difese e promosse. Ma di cui è necessario individuare anche prospettive e limiti, pena l’autocompiacimento sterile.

Poiché la dimensione della lotta non è quella «etico-politica» ma «economico-corporativa», la sintesi tra i gruppi sociali subalterni diventa possibile solo nel corpo del singolo individuo. Se una persona è donna, migrante, lesbica, povera e disabile sintetizza i diversi gruppi sociali oppressi e le diverse oppressioni. Ma se già è perfettamente abile, questa sintesi diventa impossibile. Ciò che si può dare è tutt’al più la sommatoria tra i diversi soggetti oppressi. Più che di universalità, si tratta di generalizzazione: il movimento che si prefigge di cambiare il mondo – o meglio di resistere a quello dominante – si fa collettore delle rivendicazioni particolari elaborate da ciascun gruppo e le presenta sotto forma di elencazione.

Nonostante la generosità e gli sforzi di centinaia e migliaia di militanti che si sono impegnati e impegnate nella lotta, non stupisce che a quarant’anni dalla sconfitta del movimento operaio storico ci troviamo ancora oggi nel bel mezzo della crisi. Una «crisi storica di direzione del proletariato» (Trockij 2008, p. 69), per citare un altro dei massimi dirigenti bolscevichi, e una crisi storica di direzione della borghesia e della sua società, oggi sconquassata da sconvolgimenti economici, politici, sociali… Senza naturalmente dimenticare il disastro ecologico a cui è sempre più urgente dare una risposta.

Non è certamente questo il luogo per avanzare delle proposte concrete per uscire dall’impasse. Ma diventa sempre più evidente che alle due alternative già elencate è necessario opporre una terza possibilità: la ricostituzione di un progetto di società radicalmente differente. Un progetto che dia sostanza alla vaga aspirazione di un mondo migliore, che accompagni il mero rifiuto dello status quo con una proposta pratica positiva. Un progetto che finalmente ci liberi della barbarie che viviamo e ci guarisca dalla malattia infantile dell’antagonismo.

Bibliografia

– R. Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi, Milano 2020

– S. Coletto, La classe non è acqua. Composizione e dissoluzione dell’Arbeiterklasse, in «La Tigre di Carta» n. 24 – La dispersione Huann, settembre 2021

– V. Gerratana, Introduzione a V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1974

– L. Trotsky, Programma di transizione. L’agonia mortale del capitalismo e i compiti della Quarta interazionale, trad. di F. Stefanoni, Massari editore, Bolsena 2008

Di Simone Coletto

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Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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