Trials and errors, without much ado
Ciò che quasi subito salta alla mente quando si parla di letteratura e stoltezza giovanile è il Bildungsroman otto/novecentesco, genere in cui il giovane protagonista, per vari giochi della sorte, si trova a dover affrontare il mondo e il passaggio all’età adulta attraverso (più o meno) rocambolesche avventure.
In tutti i casi, il giovane impara attraverso una catena di trials and errors come vivere secondo le regole del mondo degli adulti, con vari gradi di successo o tragedia.
Come spesso accade nell’età dello sviluppo, molto di ciò che avviene sembra al protagonista qualcosa di immane e irrevocabile; le vergogne divengono impossibili da superare, i fallimenti sono simbolo di una natura sbagliata e di una mancanza di talento o persino di comune buonsenso; l’eccitazione pare debba durare per sempre e la gioia è totalizzante. Ma nel crescere e nell’accumulare esperienze, si scopre che ciò che si credeva definitivamente scolpito nella pietra non era in realtà che un piccolo mattone nella costruzione dell’identità adulta.
Invece che prendere in analisi romanzi i cui protagonisti hanno vissuto esperienze fuori dal comune, questo articolo si soffermerà su figure letterarie che non hanno dovuto affrontare chissà quali smottamenti epici nel loro mondo per arrivare all’età adulta; figure che attraverso errori, stupidaggini e pasticci sono riuscite a ritagliarsi dignitosi maturità e successo nella loro cerchia sociale, without much ado.
In fondo, tranne qualche (si spera) raro caso, questo è proprio quello che accade a ciascuno di noi mentre cresce: quanti errori abbiamo fatto per sventatezza e inesperienza? E quanti di questi errori ci hanno distrutto la vita? Si spera molto pochi: eppure, le scelte che si fanno in gioventù, quando l’acqua è mossa e sciaborda, possono non lasciare alcuna traccia se non una maggiore esperienza, oppure modificare silenziosamente ma efficacemente tutto il corso della nostra vita.
E quale esempio migliore, per sviluppare un ragionamento nella direzione sopra dichiarata, che le protagoniste femminili dei romanzi inglesi di Jane Austen? Nessuna avventura misteriosa per loro (se si escludono i voli di fantasia troppo vividi della protagonista di Northanger Abbey; il cui desiderio di fuga dalla realtà verso lidi più eccitanti le costerà infatti non poche pene); nessun amante illecito e appassionato dietro quinte teatrali di velluto, nessun viaggio improvviso e senza mezzi decorosi, nessuna fuga mozzafiato col vento tra i capelli.
Eppure tutte queste cose accadono, proprio nei suddetti romanzi. E allora cosa fa la differenza? Le protagoniste hanno una rete: una rete sociale, familiare, economica che smorza l’”eccitazione” e il romanticismo di questi avvenimenti e permette loro di non rovinarsi del tutto agli occhi della società, di poter fare qualche errore nell’impeto della gioventù e di poter poi andare avanti a testa (più o meno) alta.
L’Anne Elliott di Persuasione si lascia convincere dall’amica della madre defunta e figura femminile di riferimento a rompere il fidanzamento con l’amatissimo marinaio Frederick Wentworth perché l’uomo è di ceto troppo basso per la giovane (figlia di un baronetto) e poco abbiente.
Persuasa da ragionamenti di riconoscimento sociale, impaurita dal possibile disprezzo di chi la circonda, la giovane accetta il consiglio e si ritrova una decina d’anni dopo a rimpiangere amaramente la scelta. Non perché le siano mancati i corteggiatori, ma perché si è resa conto nel frattempo che per lei il ceto e la sicurezza economica non valgono l’amore di un compagno consono alla propria natura.
In questo caso la protagonista si affida a un’adulta e fa un errore, il cui peso impara solo in molti anni di solitudine e rimpianto. Inoltre, la società che la circonda, dopo averla influenzata, non è certo tenera con lei, che passa da potenziale moglie di un uomo non consono a potenziale zitella (27 anni senza marito…).
Ciò che inverte la marea è la montagna che nell’anagramma di stoltezza giovanile pesa sull’acqua mossa: l’esperienza e la saggezza che derivano dall’età, e la calma di affrontare situazioni di emergenza senza perdere del tutto la bussola. E così Anne rivendica la sua libertà di scelta, questa volta da adulta, e si conquista un posto in società, aiutata anche dall’amato che nel frattempo non se ne è stato con le mani in mano e ha fatto soldi e carriera.
Diverso è il caso di Catherine Morland, la protagonista di Northanger Abbey, che sa perfettamente ciò (e chi) vuole, ma la cui innocenza e fantasia fanciullesca la rendono smaniosa di grandi avventure rocambolesche e la espongono a pericoli potenzialmente molto grandi.
Determinata a scoprire gli spettri del maniero in cui è ospite, finisce per dissotterrare una storia ben poco romanzesca e molto crudele: la storia di una famiglia con poco amore.
Ma il suo gentilissimo spasimante e la sua famiglia affettuosa, anche se forse un po’ troppo leniente, le offrono lo spazio di vivere le sue goffaggini e di imparare piano piano a ricongiungere il piano della fantasia con quello della realtà e a distinguere le favole dalle bugie.
Dopo un (questo sì romanzesco) ritorno a casa di notte, in carrozza pubblica e senza accompagnatore (potenzialmente disastroso per la reputazione di una fanciulla), è la famiglia a offrirle un rifugio dalla vergogna di scelte sbagliate e troppo naïve.
Ed è sempre la famiglia a lasciare spazio e tempo al raggiungimento di una consapevolezza personale e a una scelta che segna di fatto il passaggio all’età adulta: la scelta di un compagno che per amore suo sarà diseredato e quindi di uno status sociale meno elevato, ma con la cifra del rispetto e della complicità.
Nel caso di Elizabeth Bennet e del suo Mister Darcy, invece, la tensione nasce più che altro da fattori personali. Le personalità dei due protagonisti mal si incastrano e l’orgoglio fa superare i limiti del gestibile. In questo caso, la crescita di entrambi sta nel decidere di sacrificare un po’ d’orgoglio per accettare la prospettiva dell’altro e nel capire che sotto la bellicosità ci sono in realtà due spiriti affini.
In tutte queste storie, le scelte impetuose delle protagoniste, sia per debolezza, testardaggine o naïveté, avrebbero potuto cambiare radicalmente la loro vita: tutte si sarebbero potute accontentare di un corteggiatore qualsiasi, sposarsi per salvare la faccia, o rimanere zitelle, senza tuttavia trovare un posto e un ruolo (quello di moglie, di donna adulta) che le soddisfacesse davvero. Ma quanto peso avrebbe avuto allora, quella scelta mancata nella loro esistenza! E quanto peso hanno tutte quelle apparentemente piccole decisioni che ogni giovane compie lungo la via, sull’onda impetuosa del “tanto c’è tempo”!
Insomma, affrontare il lungo percorso per inserirsi nella società adulta è costellato di prove e tentativi. E se da un lato è la società stessa a mettere pressione e a indirizzare, talvolta anche a costringere delle scelte, è anche vero che essa stessa, più spesso sì che no, aiuta a smorzare le tensioni e gli errori e a dare tempo al giovane di capire ciò che desidera e che tipo di adulto vorrebbe provare ad essere.
E per fortuna, molte delle scelte fatte in preda all’ardore, all’insicurezza, o all’ingenuità non sono definitive. Ci vuole orgoglio e coraggio per prendere la direzione desiderata. O nell’ammettere d’aver fatto uno sbaglio.
Eppure, le scelte dettate dalla stoltezza giovanile sono forse quelle che più indirizzano la vita adulta, non come peso effettivo e definitivo, ma come insegnamento e monito: che siamo noi stessi alla fin fine a dover costruire con pazienza la montagna sulle acque agitate; ma che è anche altrettanto giusto lasciare che quelle acque si agitino e strabordino lungo la via.
di Claudia Campana
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