Mildred Hayes ha perso sua figlia: “stuprata mentre moriva”, come recita uno dei tre manifesti che fa affiggere appena fuori la cittadina di Ebbing, Missouri, per sollecitare le indagini della polizia. Gli altri due chiosano: “E ancora nessun arresto”; “Come mai, capo Willoughby?”.
Tre manifesti di questo tenore bastano a scatenare nella piccola comunità di Ebbing un’escalation di violenza che conserva nei suoi successivi momenti un sembiante bicromo: il nero, non-colore anonimo delle lettere che compongono i diversi messaggi; il rosso dello sfondo dei manifesti, che evoca il sangue invendicato. I cartelloni sono rivelati allo spettatore in ordine inverso, partendo dall’ultimo, che riporta il nome di una persona viva, per ora: “Come mai, capo Willoughby?”. Nome che suona come un mandato di comparizione, che inchioda il chiamato a una responsabilità: “Come mai, capo Willoughby?”. Qualcuno doveva occuparsene: tu, che sei il capo della polizia, Willoughby. Si tenga a mente che, da una prospettiva girardiana, l’accusatore è per definizione Satana: il male che chiede conto del male, colui che scaglia la prima pietra – o che affigge il primo cartellone.
Willoughby è un uomo stimato dalla comunità: avere sbattuto il suo nome sul cartellone, così, fa passare Mildred Hayes dalla parte del torto. Logicamente: prima mossa, cioè prima violenza (provocatio, dito puntato, chiamata in causa), prima individuazione di vittime espiatorie: Willoughby buono, Mildred cattiva. “La comunità è con te… per tua figlia. È contro di te… per Willoughby”, come sintetizza, più o meno, il parroco locale. Strano sodalizio che sembra profilarsi tra la prospettiva girardiana e quella della folla degli accusatori – ma esiste differenza tra colpevolezza e responsabilità, quanta ne corre tra Mildred Hayes e Satana.
Al parroco che le punta il dito ricordandole, tra l’altro, la diserzione dalla comunità cristiana, Mildred risponde con geniale arguzia, ribaltando il discorso della responsabilità universale di cui si fa portatore un certo cristianesimo. Il fatto di aderire a una comunità, dice Mildred, ti rende responsabile ora e sempre del male compiuto a tua insaputa da un altro membro di quella stessa comunità. I cristiani sono la comunità-non-comunità per eccellenza: ecumenica e universale ma al contempo settaria, dotata di confini e segni di riconoscimento. Tutti ne fanno parte, almeno teoricamente – tutto ciò è implicito nella geniale analogia di Mildred, che si basa sulle bande criminali degli anni Ottanta di Los Angeles – quindi tutti sono responsabili in ogni momento di ciò che un altro cristiano compie. Un cristiano – qui usato come sacrosanta metafora di “essere umano” – ha violentato e ucciso mia figlia, e chiunque là fuori ne è responsabile – “You joined the gang, you’re culpable”. Inversione satanica, perché distolta da sé e rivolta al prossimo, del dostoevskiano “Tutti sono colpevoli, e io più di tutti”. Tutti sono colpevoli – o responsabili: l’equivoco grida vendetta ma non lo risolveremo – e tu, Willoughby, più di tutti.
Willoughby la prende un po’ male, ma capisce il messaggio, l’accusa di colpevolezza – o domanda di responsabilità – che arriva, violenta, da Mildred. Si rimette a lavorare al caso, ma nel frattempo un cancro al pancreas se lo sta portando via. Vittima due volte, Willoughby – tre volte, poi, quando si suicida per evitare a sua moglie il penoso decorso della malattia. Quel sangue versato da Willoughby per sua propria mano è il secondo colpo di violenza del film, nonché il motore più potente della successiva escalation. Ma ci sono anche delle lettere lasciate da Willoughby alla sua morte – il nero dell’inchiostro appare sempre confusamente come uno spazio di quiete appena dopo la risacca del sangue. Una lettera per Mildred e una per Dixon, il poliziotto frustrato e violento che Willoughby ha preso sotto la propria ala. Il nuovo sangue si accompagna ancora a una scrittura che ne spiega il significato, chiamando sempre altri alla responsabilità per quello che è successo. Willoughby, morendo, fa lo stesso “scherzo” a Mildred, restituendole la responsabilità/colpevolezza contestata: “The joke is on you”.
Alla donna Willoughby scrive poi di aver pagato il mese successivo di affitto dei cartelloni. È la sua contro-mossa – un colpo ironico però, non violento, in virtù del quale Mildred sarà costretta a “difendere” i suoi stessi cartelloni, quando tutti in città penseranno che è anche per causa loro che Willoughby si è suicidato. “The joke is on you, Mildred” – ma questo scherzo (joke) è solo il primo passo della danza solenne, ironica e salvifica, nella quale il fantasma di Willoughby trascinerà i due (Mildred e Dixon) chiamati dalle sue lettere e dal suo sangue. Una ridda, più che una danza, intrecciata di accuse e diti puntati che cominciano lentamente a rivelare una natura anfibia, violenta ma anche ironica, appunto. Mildred-Satana, accusatrice e dispensatrice di responsabilità universali ad altri, è ingannata dalla danza ironica di Willoughby e costretta improvvisamente a farsi Mildred-Paraclito, difensore della verità ambigua testimoniata dai tre manifesti. Il cui senso, la chiamata alla responsabilità, è dunque rovesciato nel grembo della madre dolorosa che per prima levò il lamento e puntò il dito.
Nella lettera che spedisce a Dixon, Willoughby raccomanda l’uso della calma, caratteristica che il giovane poliziotto deve assolutamente sviluppare per diventare quello che desidera più essere: un detective – a imitazione del capo Willoughby. Ma la lettera arriva a Dixon solo dopo che questi ha violentemente pestato Red, l’addetto alla cartellonistica di Ebbing, credendolo responsabile (colpevole), insieme a Mildred (colpevole), per il suicidio del suo capo. Ma Red non c’entrava niente… ma nemmeno Willoughby, a ben vedere… e Dixon? Chi sono tutti questi “cristiani”? Qual era l’oggetto del contendere? Quando si porta la responsabilità all’estremo – o la colpa all’estremo – tutto comincia a girare vorticosamente…
Dopo il pestaggio, Dixon perde il lavoro alla centrale: ogni occasione di diventare un detective sembra così perduta, nonostante la lettera di Willoughby fosse così gravida di speranze per quel poco di buono – chi avrebbe mai scommesso qualcosa su questo “personaggio minore”, anche tra gli spettatori? Il sangue, che scorre più veloce della parola scritta, anticipa e brucia sempre il momento di calma portato dalla parola, che dipanerebbe l’ombra rossa della violenza, aprendo lo spazio della rivelazione. C’è più sangue che rivelazione, più violenza che parola, in questo film. Ma la parola è già violenza (lo dicono Heidegger, Derrida, lo stesso Girard), perché è colpo, provocazione, attacco di stile. Stilografia, incisione, coltellata – oppure fissazione, incarcerazione di uno spirito nel recinto di una definizione, circonvenzione: presa in giro. Un giorno ti svegli e qualcuno ha sbattuto il tuo nome su un cartellone, ricordandoti che non hai ancora fatto qualcosa che dovevi. Un giorno uno si spara e ti spedisce una lettera in cui ti prende bonariamente per il culo, ricordandoti che a sto giro sei tu responsabile.
Mildred, furiosa non certo per la lettera di Willoughby, che accoglie con un sorriso, quanto per l’incendio appiccato da qualcuno ai suoi cartelloni, in tutta risposta dà fuoco alla stazione di polizia. Dixon, che si trovava lì per leggere nottetempo la lettera di Willoughby, ne esce ustionato. La missiva del capo sembra però avergli indotto quella calma che gli mancava: in ospedale fa pace con Red, che ha pestato a sangue, il quale lo ricambia con un’aranciata. Il rosso di sottofondo comincia a stemperarsi, qualcosa sta cambiando, ma discretamente, sottilmente: ironicamente. A partire da questo momento la logica dell’accusa, senza mutare di forma, ma declinandosi secondo la levità ironica che le ha assegnato Willoughby morendo, principia l’opera lenta e laboriosa della redenzione.
Mildred, furiosa non certo per la lettera di Willoughby, che accoglie con un sorriso, quanto per l’incendio appiccato da qualcuno ai suoi cartelloni, in tutta risposta dà fuoco alla stazione di polizia. Dixon, che si trovava lì per leggere nottetempo la lettera di Willoughby, ne esce ustionato. La missiva del capo sembra però avergli indotto quella calma che gli mancava: in ospedale fa pace con Red, che ha pestato a sangue, il quale lo ricambia con un’aranciata. Il rosso di sottofondo comincia a stemperarsi, qualcosa sta cambiando, ma discretamente, sottilmente: ironicamente. A partire da questo momento la logica dell’accusa, senza mutare di forma, ma declinandosi secondo la levità ironica che le ha assegnato Willoughby morendo, principia l’opera lenta e laboriosa della redenzione.
Dixon percorre imprevedutamente la strada della realizzazione come detective individuando un possibile colpevole del delitto della giovane Hayes nella persona di un ex militare in congedo che ha origliato vantarsi di uno stupro. L’esito positivo dell’esame del DNA lo consacrerebbe nuovamente nel proprio ruolo, anzi in quello superiore di detective evocato dalla profezia scritta di Willoughby – e anche la nemica Mildred, contattata telefonicamente da Dixon intorno a questa bella speranza, troverebbe così pace e giustizia. Tutto il sangue versato sarà dunque riscattato? Si pensi che Dixon ha recuperato il campione di DNA del sospettato facendosi pestare a sangue – inversione cristica dell’archetipo dello “sbirro”. Ironia sulla salvezza tipicamente occidentale? Si prepara un finale di redenzione-reversione tutto sommato semplice… Eh, ma non siamo nel reame incantato dell’oriente “buono”, qui… siamo nell’occidente marcio e nichilista, in quella suburra rurale dove si annida la forma più pura del male contemporaneo – si pensi a Lynch, ai Coen, alla profezia leopardiana sulla campagna di cui si parlava in un altro articolo. Non si cullano tenere speranze, non ci si vuol concedere la facile consolazione del finale esemplare-edificante. Da una storia partorita nell’Occidente americanizzato non può mancare almeno il riso. E infatti “una risata vi seppellirà” recita una profezia anonima del secolo scorso, pronunciata da rivoluzionari che avevano del tutto smarrito la prospettiva della resurrezione, successiva alla sepoltura, che di quella frase nichilistica avrebbe forse rivelato il versante in ombra, gravido di infinita speranza.
L’esame del DNA dà esito negativo: l’ex militare sospettato non è colpevole. Ma stando a quel che lui stesso aveva detto mentre Dixon l’origliava, qualcuna l’ha stuprata per davvero. All’apice della disperazione, stringendo un fucile che appoggia alla guancia come indeciso tra rivolgerlo a sé o all’anonimo colpevole, fantoccio sacrificale della violenza non ancora riscattata, Dixon telefona a Mildred e le propone di andare insieme a giustiziare il loro sospettato, innocente dello stupro della giovane Hayes ma sicuramente colpevole di violenza su qualcun’altra – forse su una ragazza mediorientale, crimine impunibile in un territorio di guerra, privilegiato dal divenire storico. Sangue indifferenziato e senza volto, senza responsabili, chiama altro sangue privo di volto, violenza indifferente e indifferenziata – doppio infernale di quella responsabilità universale e anonima che Mildred evocava all’inizio del film. La china discendente sarebbe così percorsa fino alla novella omeostasi, la parabola occidentale del nichilismo compiuta e rinnovata nella sua immutabile malignità. Si prepara un finale cupo e violento alla Coen. Siamo realisti, siamo noi stessi! Come altrimenti può finire un film americano, rimanendo coerente con lo spirito dei tempi e del suo popolo? Questo è il nostro decorum, ed è giusto: il sangue e la risata di Joker. Il regista, Martin McDonagh (britannico), sembra saperlo bene, sebbene sia manifestamente libero da quel compiacimento tanto connaturato ai nostri narratori “pessimisti”. Tutto bene, nonostante tutto, quindi: tutto come sempre si fa, da noi… ma negli ultimissimi minuti del film, mentre vanno insieme in macchina per uccidere il militare nell’Idaho, tra Mildred e Dixon si svolge questo dialogo, che mi scuso per voler riportare nella lingua in cui fu profferito:
«Dixon, I need to tell you something. It was me who burned down the police station»
«Well who the hell else would have been?»
A questa risposta ironica, Mildred sorride prima di rendersene conto, prima dell’evento di coscienza su ciò che sta succedendo. L’ultimo colpo non è stato incassato – ovvero, lo è stato, e le ustioni sul volto di Dixon lo testimoniano – ma non sarà ripagato con un contraccolpo: sarà lasciato cadere con ironia. Il debito è stato rimesso con un ghigno, e l’essenza umana del debitore, lo stato di difetto della peccatrice, consustanziale al suo essere – tutti sono colpevoli, e io più di tutti – accolto e abbracciato con la semplicità che userebbe un padre magnanimo, di grande e quieto animo, che liquida con una risata la terribile questione della responsabilità e della colpevolezza della figlia.
«Well who the hell else would have been?»
E Mildred ride, perché Dixon la ama – sì, non ci credete? È questo che significa essere amati, in forma quintessenziale, per quanto possa sembrare assurdo – perché tra i due non c’è stata e non ci potrà essere mai “relazione” in senso classico. Si fa ironia solo di chi si ama o di chi si odia – che è lo stesso. Si fa ironia di un debito inesigibile, di una colpa irrimediabile: di un rapporto indissolubile che, volenti o nolenti, si ha con qualcuno. Dixon la ama – la perdona – e Mildred sorride – e il sorriso è il segno veridico dell’amore, perché anche Mildred ama Dixon – e del resto: “amor ch’a nullo amato…”. Solo chi si sa amato può ridere così di gusto. Chissà se in quel momento Mildred ha percepito la presenza di Dio nella risposta di Dixon, ovvero una qualche matrice universale dell’amore che inspiegabilmente fioriva allora tra due estranei e nemici.
«Dixon, are you sure about this? »
«About killing this guy? Not really. You? »
«Me neither. I guess we can decide on the way»
Ultima battuta del film: possiamo decidere se ucciderlo in viaggio, “on the way”. Lo faranno? Magari sì, perché la salvezza è un momento – quello in cui ci si scopre amati – isolato per caso nell’eterna e nauseabonda risacca del sangue versato da noi o da altri nel viaggio della vita. Non c’è attimo di salvezza che appaia mai puro – netto di sangue, scevro di violenza – e che si stagli ora e per sempre nel cielo della salvezza come una stella fissa: solo “lembi di terra” che appaiono per un attimo, e poi l’onda del sangue li lorda di nuovo, li nasconde alla vista, inducendoci a dubitare fin della loro prima apparizione. Non c’è feto di salvezza che venga al mondo senza una buona dose di acqua sporca per soprammercato, e solo con la giusta dose di ironia noi occidentali, puristi e perfettini, eterni primi della classe, potremmo liberarci dalla tentazione di buttar via bambino e acqua sporca, salvarci dalla disperazione che segue la scoperta che la salvezza è così poca cosa.
Per fortuna ci sono le storie, per fortuna c’è l’immaginario che fissa l’istante, permettendone la raffinazione in talismano. Mildred e Dixon che rimandano la decisione di uccidere lo sconosciuto in viaggio verso l’Idaho sono uno di quei talismani familiari della salvezza che, se compresi nella loro essenza, possono guidarci fattivamente nel viaggio di questa vita lorda di sangue – che abbiamo versato o che verseremo, e di cui qualcuno già ci chiama a rispondere, come da un manifesto anonimo piantato in mezzo a un campo in Missouri.
di Mattia Carbone
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