Il proprio, il nome, il sacrificio
Ich fürchte mich so vor der Menschen Wort.
Sie sprechen alles so deutlich aus.
Und dieses heißt Hund und jenes heißt Haus,
und hier ist der Beginn und das Ende ist dort.
Mich bangt auch ihr Sinn, ihr Spiel mit dem Spott,
sie wissen alles, was wird und war;
kein Berg ist ihnen mehr wunderbar;
ihr Garten und Gut grenzt grade an Gott.
Ich will immer warnen und wehren: Bleibt fern.
Die Dinge singen hör ich so gern.
Ihr rührt sie an: sie sind starr und stumm.
Ihr bringt mir alle die Dinge um.
Rainer Maria Rilke[1]
La tecnica sacrificale scarnifica l’Altro. Muove e fa muovere di un moto uniforme, mentre traccia un movimento che potremmo definire chiasmico: essa separa e si (ri)appropria di ciò che ha sezionato. Scompone e ricompone: saggia le giunture e le articolazioni — subodora le fragilità. Così fa il dialettico, così il bravo macellaio[2] —, affonda in profondità nelle carni, recide in re la massa malata che solo s’indovinava tramite sintomi; monda il corpo estraneo per guadagnarlo e guadagnarne, in vigore e vitalità. La tecnica sacrificale è invero tecnica ricostituiva: efficace, prima che nel restaurare un sempre rincorso benessere, sospirata integrità, nel ricombinare altrimenti quel che ha fatto in brani (spesso assembla incontrovertibili mostri verso i quali scagliare gli indici, dai quali levare lo sguardo: scienza come caleidoscopica teratogonia). In ultimo, la tecnica sacrificale toglie alla vittima voce, volto e storia, immagazzinando e riconvertendo ogni detto e protesta in nebulosa, mendace mitologia. Meccanismo costantemente all’opera nella sua opera di introiezione, quasi che si abbia da sfamare un originario vuoto, assicurare fondamenta ad un incedere da principio stentato e solo tentato, la tecnica sacrificale è ciò che innerva, nelle sue variabili altezze e accezioni, il Soggetto — è il suo calcolo, con Derrida[3] —, è ciò che gli dà forma e ancor prima fornisce materia, è ciò che lo nutre. D’altronde, di qualcosa ci si dovrà pur nutrire: o, sempre con Derrida, si deve ben mangiare. È questo un tema sconfinato, ramificato e davvero fecondo, ancora da sviluppare e già sviluppato in innumerevoli direzioni: vorrei però qui ritagliarmi (a partire dai numerosi luoghi di Derrida a riguardo, così come dai dedicati testi di Filippi) uno spazio per la questione animale — e per la sua pervasiva invisibilità, che la rende imperativa, e perché il pensiero del sacrificio, di un suo ripensamento o risignificazione, difficilmente può esimersi da questa parola (che bisogna cominciare da quel termine che è l’inizio, ed è sempre possibile che la strada che si perde in deviazioni risulti, alla fine, la via più breve e retta).
In principio era l’uomo. Nudo, sprovvisto della presa rapace della zampa, del passo rapido e saldo del puntello ungulato, spogliato financo di artiglio, branchia, piuma o zanna, accerchiato dai mille occhi di una natura avversa: ovunque guardi, ecco apparirgli un animale, presenza che lo ha preceduto nel tempo ma che ora lo insegue, prensile grinfia e muso minaccioso, indecifrabile arcano. Quale malcapitato fratello di figliol prodigo, maggiore ma immancabilmente secondo, l’umana creatura si sente esclusa dalla ripartizione dei beni e dei doni[4], rivendica l’avocata primogenitura. Che sia stata dimenticata dal padre? Roso dal dubbio, il suo dente da latte tutt’altro che aguzzo, inadatto alla lotta, rifugge anche il gioco e la festa, s’avvelena. Il fragile ascetico essere, ovunque spaesato, respinto e spaurito, confessatosi inappropriato per qualsiasi habitat, fa di necessità virtù e della carenza la sua proprietà principe, plasma se stesso attraverso l’esonero[5], più potente dei quali si racconta essere stato il linguaggio. Riprende terreno, macina chilometri nella distanza dalle cose che il dispositivo gli garantisce, rimodella e capovolge i rapporti di forza giungendo il nome e il verbo — da circondato che era, circonda a sua volta; prende l’esistente, trappola ostile, al laccio della propria parola, orientato da intenzione non perversa ma pervertita (non vuole certo il male! Piuttosto vuole male, finisce inavvertitamente per fabbricare quelle stesse condizioni di cui si percepiva vittima[6]). Spero non sia solo sterile provocazione rintracciare una sospetta malafede in questo tipo di narrazioni, che raccontano con eccessiva leziosità il preistorico passato in cui la bestia era divoratrice e non divorata — e dello sforzo prometeico che l’ha imbrigliata con l’imposizione del nome —, preferendo al retrogusto autoassolutorio del mito la cautela del temere la parola degli uomini se riferita agli animali. O del temere, prima ancora, la parola Animale — «che parola! Una parola, l’animale, un nome che gli uomini hanno istituito, un nome che essi si sono presi il diritto e l’autorità di dare all’altro vivente». Una di due, diritto del rovescio, essa trova il suo senso pieno quando appaiata per antitesi all’Uomo: ma cosa racchiude, cosa circoscrive — cosa, forse, disciplina e doma? Se ipoteticamente potessimo forzarne le fitte maglie, ne potremmo forse indovinare la dimensione performativa, se non faziosa: «in questo concetto tuttofare, nel vasto campo dell’animale, al singolare generale, nella stretta morsa dell’articolo determinativo (“l’Animale” e non “degli animali”), sarebbero chiusi, come in una foresta vergine, un parco zoologico, in un territorio di caccia o di pesca, in un terreno d’allevamento o un macello, in uno spazio di addomesticamento, tutti i viventi che l’uomo non riconosce come suoi simili, prossimi o fratelli. E questo nonostante l’infinita distanza che separa la lucertola dal cane, il protozoo dal delfino, lo squalo dall’agnello, il pappagallo dallo scimpanzé, il cammello dall’aquila, lo scoiattolo dalla tigre, o l’elefante dal gatto, la formica dal baco da seta o l’istrice dall’echidna. Interrompo qui l’elenco e chiamo in aiuto Noé per non dimenticare nessuno»[7]. Si dovrà ben mangiare, si dovrà ben fornire sostentamento e veste alla struttura sacrificale che è il soggetto: e se questi ha pudore di colpire al viso si giocherà d’astuzia, disperdendo le fattezze del volto altrui nell’inespressività dell’indefinito più assoluto ed equivoco, l’univoco Animale, fiera delle meraviglie la cui pinna caudale dilegua in penna remigante, il cui corno osseo si fa eburnea e raffinata zanna, per scolorare ancora in fanone. Sottile dialettica, fra indifferenziato e differenza, su cui la violenza si esercita! Perché l’umano stratega, tanto abile quanto sapiente, muove anche dalle retrovie: ripartisce la molle e labile materia del nome che è Legione, rinserra le fila dispiegando con precisione un’asettica taxis, l’ascendente gerarchia delle specie (nozione, quella di specie, rispetto alla quale lo stesso Darwin mostrava sfiducia[8]) avente in lui il proprio fine e la propria fine, rigido assetto tassonomico che il condottiero ordina dall’alto e che dona riparo a colui che lo comanda, ma che il soldato semplice, immerso nel clamore orrifico della carneficina e preda del panico, fatica a comprendere — con dorso riverso e volgendo occhi supplici al cielo (se gli è dato drizzare la testa) ne potrà, al massimo, subire il non-senso.
Così «tutta la creazione geme e soffre fino a oggi» (Rm 8, 22) non nel materno travaglio delle doglie ma nella doglianza del proprio lutto, presagito — racconta Benjamin nel suo testo sul linguaggio — proprio nel nome prescrittole dall’uomo. Nome che ne dice, decide e recide qui la Testa e lì la Coda, processo per sommi capi, imposizione di un arbitrario termine che, squadrando con l’accetta, pecca di «sovranominazione» (Überbenennung): sovrano coronamento della più ampia impresa di soggiogamento, «fondamento ultimo di ogni tristezza e di ogni mutismo della natura»[9]. Poiché l’Animale è ammutolito, (allora) è muto, cioè non può parlare; perché l’Animale non può ragionare, non può far di conto, non può promettere, non può comporre musica, non può piangere né ridere, non può scrivere — potremmo scorrere per ore il catalogo di quel che è stato considerato il nostro proprio, rincorrere e anche infine stanare quell’eccezionale fantomatico tratto presente senza eccezione in ogni essere umano, ma malauguratamente assente in tutti gli (altri, innumerevoli, variegati e variopinti) animali: rimarrebbe il nudo fatto che questo animale può parlare, non può farsi capire, non può, a differenza nostra, addurre giustificazione! Non può rispondere di sé, né prender parola in propria difesa. Può solo ricevere in silenzio l’umana sentenza, che si abbatte sul suo capo come presagio di lutto (diceva Benjamin), perché, designando la vita bestiale come esistenza ultima, che proprio del lutto non è degna (dice Butler[10]), si fa capitale e l’abbatte (il cerchio si chiude). Il soggetto che suo malgrado non auto-sussiste, deve sussistere d’altro, e muove in cattura — mette in scena la propria autonomia, elenca (o inventa, la sua parola all’occorrenza è creatrice) il proprio, giustifica predominio e padronanza nominando surrettiziamente possibilità e poteri (primo nell’enumerazione, il potere di nominare) che riserva a sé solo; circoscrive entro queste avvolgenti spire un negativo, l’Animale, che di questo proprio è privo, e se ne impadronisce — lo fagocita e l’assimila, ne vive. Esiste un insperabile resto[11] di questo calcolo, un’eccedenza che sfugga, non manipolabile, al bracconaggio dell’esclusione appropriante (onnipervasiva ben al di là dell’onnivoro, e a cui non si sfugge, tra parentesi, semplicisticamente eliminando la dieta carnea, e tornando quindi a definirsi come differenza da screditata, muta e rozza norma)? Gli animali non parlano, sono poveri di logos, sono poveri di mondo, eppure li si può ascoltare, sentir cantare. Tacita testimonianza di un potere che ha abdicato la propria sovranità, rinunciando all’abilità di parlare, ragionare, fare di conto, promettere ecc., essi dispongono solo del resto, non sopprimibile, che è il poter patire (perché la lista di perizie e mirabilia impallidisce e dissolve davanti alla facoltà di soffrire. «Can they suffer?», si chiedeva a riguardo Bentham, interrogativo ripreso da Derrida in splendide pagine de L’animale che dunque sono). Carne vulnerabile, ogni animale incarna — in modo unico, suo proprio! e magnifico — la possibilità dell’impossibilità, potenza impotente che poi è anche la nostra. È possibile sacrificare il sacrificio, immaginare un’identità che rinunci all’immunità e all’eterotrofia? Probabilmente, purtroppo e per fortuna, no. Ma, per rubare ancora un’ultima volta la parola a Derrida, faut le faire![12]: si deve fare, bisogna pur farlo, anche se si è votati a non riuscire. L’ammaestramento che giunge dall’animale, dalla sua parola povera di mondo (Weltarm), verso poetico e profetico d’una povertà infinita, come solo può essere quella del più ricco (von der Armut des Reichsten), è del resto l’Aperto, insegnava Rilke: permeabilità che non pone sbarramenti, che non si arrocca e che non viene risospinta sterilmente su se stessa, ospitalità che non cerca di carpire l’esistente per trovarne giustificazione, ma che è capax, sempre capace, di ricevere tutto quel che accade come fosse dono (e proprio per questo ne è giustificata): «lui vede tutto / e se stesso, nel tutto e per sempre salvato»[13]. Speranza insperata e disperata, che si disvela all’ultimo momento, traccia selvatica che permetterebbe di risignificare l’appropriazione in donatività? La prossima volta mi piacerebbe ricominciare da capo, e indagare questa affezione primigenia e mai più richiudibile in Cartesio, il cui cogito, che torna sì comunque a imporsi come campione di autotelia e autoposizione, s’origina in realtà grazie all’atto illocutorio, parola che lo invita e lo accoglie all’esistenza, di Altri — Altri che è il genio malvagio, Altri che è Dio, Altri che ho fiducia lo perdonerà della dimenticanza quasi ingrata; perché, tornando all’inizio, come ha da dire il padre misericordioso al suo un po’ velenoso, ma tanto umano, primogenito, «Figlio! tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc, 15, 31).
Note
[1] «Io temo tanto la parola degli uomini. Dicono tutto sempre così chiaro: questo si chiama Cane, quello Casa, qui è l’Inizio e là è la Fine. E mi spaura il modo, lo schernire per gioco, che sappia, tutto ciò che fu e che sarà; non c’è montagna che li meravigli; le loro terre e giardini confinano con Dio. Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani! A me piace sentire le cose cantare. Voi le toccate: diventano rigide e mute. Voi mi uccidete le cose…». Rainer Maria Rilke, Ich fürchte mich so vor der Menschen Wort, 1898.
[2] Platone, Fedro 265e. «[Dovremmo] dividere per specie, seguendo le articolazioni naturali e cercare di non spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio». Platone, Politico 287c. «Perché non possiamo dividere per due, dividiamo [le specie di causa] membro a membro, come un animale sacrificale».
[3] Jacques Derrida e Jean-Luc Nancy, «Il faut bien manger», o il calcolo del soggetto, Mimesis, 2011.
[4] Platone, Protagora, 320 C – 324 A.
[5] Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, 2010.
[6] Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro, Einaudi, 2014, p. 194. «La bestia sarebbe divorante e l’uomo divorerebbe la bestia», Derrida, La bestia e il sovrano, volume I, Jaca Book, 2009.
[7] Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book 2019, p. 73.
[8] «Da queste osservazioni risulta che io considero il termine specie come applicato arbitrariamente per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti fra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili. Anche il termine di varietà in contrapposto alle semplici differenze individuali, è applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza». Charles Darwin, L’origine delle specie, Boringhieri, 1967, p. 121. Massimo Filippi, Questioni di specie, Elèuthera, 2017. Di Filippi è qui nell’artico presente, sottotraccia, anche Penso, dunque sogno. Frammenti di liberazione animale, Ortica Editrice, 2016.
[9] Walter Benjamin, Sul linguaggio in generale e sul linguaggio dell’uomo, (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen), 1916.
[10] Judith Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo.
[11] Cfr. 1 Re, 19, 9-18. Il resto è una figura frequente nella Bibbia — significando tendenzialmente ciò che sfugge all’occhio autocompiaciuto e sicuro di sé, e che solo Dio vede. Scelgo qui un passo in particolare del libro dei Re, in cui Javhè, spronato all’intervento dalla lamentazione di Elia (che protesta di essere rimasto solo, braccato in ogni dove da nemici e da empi), evoca con la dolcezza del «vento leggero», quasi con ironia, un — consistente! — resto di settemila persone, seguito fedele che si è risparmiato in Israele.
[12] Jaques Derrida, Théorie et pratique, Corso tenuto negli anni ’70 presso presso l’École Normale Supérieure.
[13] Rainer Maria Rilke, Ottava Elegia, Crocetti Editore, 1999, p.64
di Bianca Nogara Notarianni