I simboli nella signoria della Scala

Le signorie italiane e i simboli del potere:
il caso di Verona



La ricerca storica ha da sempre investito il tema delle signorie italiane, dandole certamente un particolare risalto, vista l’importanza che hanno avuto sia nell’ottica dello studio dello sviluppo delle città, sia come primi tentativi di formazione di uno stato unitario italiano. Una delle famiglie che riuscirono a instaurare un potere dinastico ed esteso a diverse località fu quella dei della Scala a Verona.

Bisogna premettere che è ormai accertata la tesi che rifiuta la netta contrapposizione tra libertà comunali e tirannide signorile, non solo perché i signori erano legittimati nel loro potere dalle assemblee comunali, o dal papa o dall’imperatore, fondando il loro potere su un’entità politica gerarchicamente superiore, ma anche perché molto spesso i signori agivano proprio in accordo con queste istituzioni.

Piuttosto che parlare di contrapposizione è quindi sorta la tesi che vede nella signoria un esito degenere dell’esperienza comunale del basso medioevo delle città del centro-nord Italia, essendo propriamente il risultato delle lotte di fazione che iniziarono a verificarsi nelle assemblee cittadine, per loro natura instabili, che con la nomina di un capo cercavano di darsi un buon governo e un garante della pace.

A seconda del ceto più forte nei vari comuni si apre la possibilità dell’ascesa di un signore espressione di quella fazione, sia esso il prodotto del consenso dei milites, del Popolo, o dei mercanti. Invece, come osserva Menant, per quanto riguarda gli strati più bassi della società, “questi non hanno molto da perdere con la fine del regime comunale: questa parte della popolazione sistematicamente esclusa dallo spazio decisionale si trovava tuttavia coinvolta suo malgrado nelle lotte di fazione.

L’avvento delle signorie si produce inoltre in un contesto di crisi economica, di difficoltà della sussistenza, e di scarsa mobilità sociale […]. Qualunque prospettiva di cambiamento era dunque ben accolta in questa parte della società”.1

Le signorie, come si è visto, si sviluppano in continuità con l’esperienza comunale operando per allargare la propria giurisdizione attraverso scontri militari, come insegna l’ethos aristocratico, e per associare la propria stirpe al potere.


Il personaggio fondamentale che fece da apripista alla signoria della Scala fu Mastino della Scala che fu eletto capitano del popolo nel 1261. Egli riuscì a mantenere il potere grazie al sostegno dei mercanti della città, e fu in grado di far eleggere alle più importanti cariche cittadine alcuni suoi famigliari, fino all’elezione a podestà di suo fratello Alberto avvenuta nel 1269.


Quando nel 1277 Mastino venne assassinato, fu facile per Alberto ereditarne il potere, grazie anche alla decisione dell’assemblea cittadina di conferirgli il titolo di “capitano e rettore dei gastaldi dei mestieri e di tutto il popolo di Verona”. In questa circostanza i documenti parlano di un’elezione a “viva voce” del principe a “capitano loro e di tutta la città di Verona in perpetuo finché vivrà […] e libera autorità di reggere, governare, mantenere e regolare in tutto e per tutto la città e il distretto di Verona”. A partire da questa legittimazione, egli fu il fautore del finale slittamento del signore di Verona da carica elettiva a carica ereditaria, che si concretizzò con la salita al potere di suo figlio Bartolomeo della Scala nel 1301.


Nel XIV secolo la signoria scaligera cominciò gli sforzi bellici per assicurarsi non solo il proprio dominio sul contado, ma anche sulle città vicine. Cangrande I nel 1311 conquistò Vicenza, e per tutto il decennio successivo Verona espanse il proprio territorio fino all’annessione della Marca Trevigiana culminata con la presa di Treviso nel 1329.


Se la presa del potere da parte di una famiglia era giuridicamente legittima, un altro aspetto a cui i signori del tempo si dedicarono fu proprio il mantenimento del potere acquisito. A questo scopo i della Scala si preoccuparono di creare una vera e propria corte alle proprie dipendenze, attraverso la nomina a cariche e uffici di membri delle casate alleate; ma anche la presenza di una forza armata fedele fu concepita come fondamentale al fine di evitare ogni congiura. Per sottolineare questo doppio filo che legava la famiglia al potere è utile ricordare come gli scaligeri legarono i loro valori familiari alla figura del cavaliere e all’ideale cavalleresco.


Cangrande I, oltre che valoroso condottiero, fu anche un grande mecenate e accorto amministratore della città e durante il suo dominio diede avvio alla costruzione di monumenti celebratori della potenza della famiglia. Esempio paradigmatico sono le Arche Scaligere, un’opera in marmo in stile gotico avente funzione di Pantheon per la città di Verona, che furono infatti designate come complesso funerario dei signori. La costruzione di opere monumentali per celebrare il proprio potere non fu certo un’invenzione dell’epoca, ma è proprio attraverso l’analisi di queste opere, e il messaggio simbolico in esse contenuto, che possiamo farci un’idea delle modalità di gestione del potere e di quanto seguito avessero i signori presso la cittadinanza.


A questo proposito ci viene utile analizzare le statue equestri che questi principi fecero realizzare per celebrare la propria persona e la propria autorità. Cangrande I fece infatti scolpire un’opera in marmo da porre sopra la sua tomba, proprio alle Arche Scaligere (Fig.1).



Dall’analisi dell’immagine ricaviamo certamente l’idea di una figura amica, di un governatore buono e giusto. Il cavaliere è disarmato, l’elmo è tolto e anche il cavallo, per quanto corazzato, è in posizione di riposo. Cangrande I e il suo destriero sorridono allo spettatore, come si vede nella fig. 2. Il signore non ha bisogno di pose leggendarie e di muscoli scolpiti: egli sorride a chi lo guarda, sicuro del suo potere e del consenso guadagnato.



La tomba del signore di Verona, morto in occasione della conquista di Treviso a causa di una malattia genetica, è anch’essa un monumento alla sua magnanimità, che è ancora una volta raffigurato con un ampio sorriso sul letto di morte (Fig. 3).



Il suo successore Mastino II (1308-1351) dovette affrontare il ritorno dei nemici di Verona sul piano politico-militare, venendo sconfitto da una coalizione formata da Firenze e Venezia e finì col perdere tutti i domini ad eccezione di Verona e Vicenza. Anche sul piano interno Mastino II si rivelò un signore molto meno amato tanto che, temendo un intrigo contro se stesso, uccise davanti al palazzo vescovile il vescovo Bartolomeo della Scala nel 1338.

Le caratteristiche salienti del personaggio, che di certo non doveva essere un buontempone, vengono ancora di più risaltate dalla statua equestre (Fig. 4), che nel 1345 si fece erigere con l’intento di porla accanto al suo predecessore Cangrande I.


Dall’immagine ricaviamo un cavaliere armato di tutto punto con la lancia in resta e lo scudo a protezione del torace. L’elmo abbassato impedisce al pubblico di guardare in faccia il proprio signore e il cavallo corazzato, nervoso, quasi imbizzarrito, sembra voler partire alla carica a testa bassa.

La statua è quindi l’immagine di una forza pronta a sprigionarsi, e nonostante passi solo una generazione tra i personaggi delle due statue, è facile notare come siano differenti i simboli del potere nei due casi. Un anonimo del tempo raccontava che con Mastino II “doi milia cavalieri cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede armati, elietti, colle spade in manoivano intorno a soa perzona”.2

Per interpretare questo momento (il Moment di hegeliana memoria) della storia e della filosofia politica ci viene in soccorso il grande Machiavelli, acuto osservatore delle dinamiche del potere del suo tempo. Egli richiama nel suo Principe quelli che da sempre sono gli strumenti dell’autorità: l’imitare i grandi uomini del passato, ad esempio con l’erezione di statue equestri che ricordano i fasti dell’antica Roma, e la comprensione che forza e violenza sono essenziali per il mantenimento del potere. Ma con la sola forza si rischiano le rivolte, che qualche nobile scontento chiami da fuori amici di fazione, che lo Stato vada infine incontro alla guerra civile.

Per questa ragione il Principe deve anche essere astuto nell’assicurarsi il consenso della popolazione, sia attraverso la religione, instrumentum regni, sia attraverso la buona gestione della cosa pubblica, dovendo sembrare “pietoso, fedele, umano, intero, religioso”. Non si dimentichi quindi l’insuperato imperativo: “Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la
golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna,
adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi.” (Capitolo XVIII). A partire da queste parole si capisce come all’epoca, come oggi, forza e consenso vadano a braccetto nell’esercizio del potere.


[1] F. Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma, 2011.
[2] A. Zorzi, Le signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2010.

di Loris Bellina

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