Il primo museo abitato del pianeta
In un futuro non troppo lontano un gruppo di precari e migranti decidono di abbandonare il globo terrestre per costruire la prima comunità lunare di esseri umani. Lontano da quella terra che li ha sfruttati ed emarginati per sviluppare altrove l’uguaglianza sociale, l’assenza di profitto, la ricerca della bellezza e la valorizzazione delle diversità etniche e di genere. È la trama del prossimo fumetto di Alan Moore? Forse, anche. Ma è soprattutto la metafora che il collettivo Metropoliz ha scelto per raccontare la storia degli occupanti dell’ex salumificio Fiorucci (via Prenestina 913 a Roma) e ciò che ne è nato, il Maam.
Deleritti di una società basata sul profitto, fumi di scarico di una falsa meritocrazia, nel 2009 duecento precari e migranti hanno deciso di materializzare la lotta per il diritto alla casa tramite l’invasione di una carcassa urbana in disuso.
Così come accade nelle storiografie dei centri sociali, l’occupazione dell’ex salumificio romano nasce dalla riappropriazione collettiva di un bene pubblico abbandonato ai giochi vertiginosi del mercato edilizio. Tre anni di pulizia, ristrutturazione e organizzazione dell’isola industriale, con l’irrequietezza costante di un possibile sgombero alle porte. Poi il collettivo Metropoliz li sfida a prendere coscienza della propria scelta sociale, politica ed economica, attraverso la realizzazione di un documentario fantarealista dal titolo Space Metropoliz. Per un anno il relitto urbano si trasforma in un “cantiere aerospaziale”, attraversato da filosofi, scienziati, artisti, architetti, performer, tutti occupati ad aiutare nella costruzione collettiva di un razzo diretto sulla Luna (ultimo spazio pubblico secondo i trattati internazionali). Per questa missione extraplanetaria è necessario anche stilare i principi condivisi di un nuovo patto sociale tra umani, basato sull’uguaglianza culturale e la condivisione di ogni bene.
Come a sfidare l’invisibilità a cui sono condannati i duecento precari e migranti, l’artista Gian Maria Tosatti avvia la costruzione collettiva di un enorme telescopio ricavato da vecchi bidoni del petrolio, che campeggia altissimo sulla torre dell’ex salumificio. Accanto alla grande insegna di Hogre, con i suoi 30 metri di landmark, che segnano l’unica uscita di sicurezza possibile, proprio quella della Luna. Seguono i grandi muri dipinti da Lucamaleonte e Sten & Lex, la bandiera per l’allunaggio di Paolo Assenza, l’orto lunare di Fabio Pennacchia – di notte anche sistema di illuminazione per le scale buie che portano alle abitazioni. È proprio da questa collezione che nasce Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove, il primo museo abitato del pianeta terra, e non solo.
Se come spiega Okwui Enwezor nel suo testo introduttivo, il fine della sua Documenta non è quello di mostrare l’arte in relazione tautologica con il suo discorso interno, ma piuttosto interrogare il presente e discuterlo in maniera etica e politica alla luce delle trasformazioni e delle urgenze del mondo contemporaneo, gli strumenti di cui il critico si deve dotare non possono che essere multidisciplinari e focalizzati sul mondo piuttosto che sulla critica d’arte.1
A Giorgio de Finis, antropologo, curatore d’arte contemporanea, nonché ideatore di Maam, piace paragonare l’esperimento meticcio, seppur con un gap storico e culturale notevole, alla Biblioteca d’Alessandria d’Egitto, nella quale i libri non venivano solo letti, ma anche scritti e consultati. Anche le opere d’arte dell’ex salumificio occupato nascono dalla relazione con un determinato contesto, conferendo al museo un carattere di sperimentazione permanente laboratoriale e di ricerca.
Maam è costantemente in crescita, grazie alle donazioni di artisti e operatori culturali internazionali.
Sia le stanze condivise dagli occupanti (come la ludoteca, la cucina, il pub), sia le singole abitazioni, sono arredate con pezzi di anti-design, assemblaggi di oggetti riciclati, pannelli dipinti da murales e installazioni site-specific e timeless specific. Metropoliz ha saputo ribaltare il ritratto contemporaneo – attraversato da precarietà, disoccupazione, conflitti ed emarginazione – in un format di abitazione creativa, fuori da ogni logica di speculazione.
Il Maam è un museo “politico”. Ciascun artista firma con il proprio lavoro una petizione virtuale (e non) a favore di Metropoliz, e sottoscrive così la lotta contro la precarietà della vita, per il diritto alla casa, alla libertà di movimento, alla bellezza, all’arte e alla cultura per tutti.2
Nel tempo la standardizzazione oltre che il contenitore, ha investito anche il contenuto. Nel Novecento si sviluppano le cosiddette blockbaster exhibition, che si muovono e vengono ospitate nelle principali scatole museali di tutto il mondo (biennali, triennali, festival, e così via). Così, oggi i musei d’arte sono immensi oggetti lussuosi e di design, progettati per richiamare orde di turisti da ammaliare con appeal commerciale e logiche di spettacolarizzazione di massa. Come dispositivi di conservazione ed esposizione di prodotti rilevanti per la comunità, influenzano tutti i membri della società, a prescindere dalla loro consapevolezza e dal loro consenso.
Siamo di fronte all’evidenza di una tipica situazione di valorizzazione capitalista in cui è consentito partecipare a forme d’espressione e di creazione a patto però di rimanere esclusi dal regime di proprietà delle stesse. Le industrie creative sollecitano ideologie e natura politica del soggetto per poi capitalizzare i desideri, sovradeterminare ruoli e funzioni sociali, restaurare dispositivi e gerarchie disciplinari.3
In questa tremenda, ma anche inevitabile, prospettiva capitalista, come si inserisce un museo corale nato in un contesto di subalternità sociale, che non si limita a rappresentare tale realtà marginale, ma ne inverte i meccanismi di sottomissione?
È un progetto d’avanguardia, dove l’arte esce dalle sale stantie delle gallerie per vivere tra la gente comune.
Se in Prikàz po armii iskusstva (Ordine all’esercito dell’arte)4 il poeta rivoluzionario Majakovskij affermava «le strade sono i nostri pennelli, le piazze le nostre tavolozze», per Metropoliz i muri scrostati si fanno tele da dipingere e le carcasse industriali argilla da modellare. Così come i cubofuturisti russi riempivano di colore le pareti fatiscenti delle città sovietiche in fermento, gli artisti di Maam trasformano gli spazi comuni dell’ex salumificio occupato in una grande opera d’arte murale e installativa. Come diceva Ėjzenštejn: «La rivoluzione mi ha presentato all’arte e l’arte a sua volta mi ha presentato alla rivoluzione»5.
Tutti gli artisti coinvolti – nel 2015 il Maam festeggiava i suoi 3 anni di attività con più di 400 interventi artistico-sociali – hanno abbandonato le loro pratiche meramente decorative nel tentativo di coniugare l’arte contemporanea, l’antropologia, l’architettura e la filosofia con l’attivismo, tanto da incarnare la definizione coniata dall’antropologo Andrea Staid di artivismo. La condivisione di questo sapere multidisciplinare è alla base dell’esperimento meticcio, ed è per questo che, per evitare o ridurre l’effetto enclave, Metropoliz organizza i cosiddetti sabati del villaggio per mostrare al pubblico la collezione di Maam e le inaugurazioni collettive in occasione di solstizi ed equinozi.
In un meccanismo messo ben in luce in Dialettica dell’illuminismo da Adorno e Horkheimer, alla istanza democratizzante dell’apertura e diffusione pubblica della conoscenza, corrisponde la crescita dell’industria culturale, e la progressiva trasformazione dei prodotti della conoscenza stessa – opere d’arte comprese – in merci. Mercificazione e feticizzazione (seppur storicamente legittimate) sono due aspetti dello stesso processo di reificazione del sapere e dello spirito umano.6
Quella del Maam è una militanza artistica che si oppone alla trasformazione della pratica creativa in impresa di mercificazione culturale e che lotta quotidianamente per una cultura democratica e contestualizzata. La resistenza creativa va di pari passo a quella politica, come dimostra la costante partecipazione di Metropoliz a scioperi e manifestazioni per il diritto alla casa, oppure contro i soprusi rivolti alla classe lavoratrice.
La stessa occupazione dell’ex salumificio è accompagnata e regolata da assemblee periodiche, che, oltre a dare spazio alle esigenze e alle problematiche della comunità, alimentano la consapevolezza politica degli occupanti. Purtroppo, da una sentenza del 4 luglio 2018, nonostante gli elogi – più ipocriti che sentiti – dell’ex vicesindaco Luca Bergamo sul modello museale Maam, l’occupazione dell’ex salumificio è stata dichiarata abusiva e, dunque, da sgomberare. Coronavirus a parte, nella calendarizzazione comunale lo sgombero era previsto entro marzo 2020.
Per quanto sia grandissima la volontà degli occupanti di resistere, potrebbe essere vicina la fine, ma sappiamo che Maam rimarrà l’incubo di palazzinari e speculatori d’arte, e una chimera per chi crede nella reale democratizzazione della cultura.
[1] Lucrezia Cippitelli, Eurocentrismo, modernismi, arte globale, estetiche della resistenza, Bulzoni, Roma, 2013, p. 19.
[2] Giorgio de Finis, Il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, saggio pubblicato in PIGS, a cura di Escuela Moderna e Ateneo Libertario, Le Milieu Edizioni, Milano, 2016, p. 219.
[3] Marco Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, Derive Approdi, Roma, 2016, p. 29.
[4] Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi, Bologna, 1974, p. 72.
[5] Nicoletta Braga, Lo sfondo visionario: PIGS, un processo dentro e fuori dalle regole, saggio pubblicato in PIGS, a cura di Escuela Moderna e Ateneo Libertario, Le Milieu Edizioni, Milano, 2016, p. 51.
[6] Cesare Pietroiusti, Possibili caratteristiche di un “museo reale”, saggio pubblicato in Forza tutt*. La barricata dell’arte, a cura di Giorgio de Finis, Bordeaux Edizioni, Roma, 2015.
di Arianna Cavigioli
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