Problemi di tecnica in Proust?
I cannot express it; but surely you and everybody have a notion that there is or should be an existence of yours beyond you. What were the use of my creation, if I were entirely contained here? My great miseries in this world have been Heathcliff’s miseries, and I watched and felt each from the beginning: my great thought in living is himself. If all else perished, and he remained, I should still continue to be; and if all else remained, and he were annihilated, the universe would turn to a mighty stranger: I should not seem a part of it. My love for Linton is like the foliage in the woods: time will change it, I’m well aware, as winter changes the trees. My love for Heathcliff resembles the eternal rocks beneath: a source of little visible delight, but necessary. Nelly, I am Heathcliff! He’s always, always in my mind: not as a pleasure, any more than I am always a pleasure to myself, but as my own being.”
-Emily Bronte, Wuthering Heights
Dedico questo scritto a una rilettura della Recherche che, tenendo per oggetto l’analisi di Girard, ma senza aderirvi pienamente, esplora i limiti reali o presunti della rivelazione proustiana e continua il discorso avviato su questo blog intorno alla critica del “desiderio metafisico” e alle sue possibili interpretazioni storiche e filosofiche.
Ho detto “rilettura” ma subito mi dichiaro indegno precisando che in realtà non l’ho letta mai tutta per intero, la Recherche: ho portato a casa i primi due, un pezzo del terzo e l’ultimo, saltando ovvero appena sbocconcellando quelli in mezzo. E tuttavia non si capisce, a un certo punto, come si potrebbe finire di leggerla – ovvero continuare a leggerne dopo qualche pagina, ovvero ancora continuare o smettere di scriverne, balzando sul sedile guidatore con un po’ di arroganza – dato che è tutta uguale sempre, sempre: la rivelazione che dà l’avvio al romanzo è narrata per la prima e ultima volta nel “Tempo ritrovato”, ma era già precisamente annunciata nel primo e in ogni singolo paragrafo – anche dei volumi che non ho letto: prometto. Narratore-Marcel abbandona la vita e si ritira nella stanza di sughero per rievocare tutto quanto è accaduto nelle duemila pagine precedenti. Ma sarebbe la storia di Marcel che leggeremmo, se come Sherazade o Pierre Menard il narratore dissennato avesse deciso di riscrivere tutta la lasagna, una volta giunto all’ultima pagina? O forse, visto quanto poco e quanto immensamente la rammemorazione in cui consiste l’opera differisce dalla vita del suo autore Marcel Proust, di cui pure altro non è che il distillato, potremmo immaginarci che la Récherche di Marcel-narratore sarebbe qualcosa di infinitamente dissimile eppure identico a quella che abbiamo appena finito di leggere?
Due cose lasciano abbastanza spiazzati a fine lettura: uno, che abbia potuto dire così tante volte le stesse cose; due, che una volta scoperta la formula segreta della vita decida di chiudersi nella stanza di sughero per scriverne e basta. Ma come? Hai appena imparato a spogliare i tuoi occhi dei veli della menzogna, hai incontrato veramente gli altri svestiti della maestà fittizia che il tuo desiderio ha sbavato su loro per così tanti anni… e te ne vai a casa? Non corri là fuori a viverli, ad amarli, a ritrovare finalmente anche loro, oltre al Tempo? Ci era arrivato anche Shinji Ikari, il protagonista di Evangelion, che bisognava almeno tornar fuori dal pastone rosa per incontrarli di nuovo tutti, e non perché la rivelazione gli permettesse di riappropriarseli ora e sempre nella loro forma definitiva, ma proprio sulla base della residuale e risibile possibilità che in un passato o in un futuro inimmaginabile si sarebbe stati felici insieme, anche per poco. Proust capisce una cosa molto simile ma no, lui corre a casa a scrivere la Recherche.
Facciamo un passo indietro e capiamo in cosa consiste questa suprema rivelazione sulla vita che Marcel narratore ebbe nel cortile dei Guermantes e poi nella loro biblioteca sfogliando François le Champi di George Sand (sono le pagine centrali de Il tempo ritrovato). Preciso che, per questa sintesi, mi permetterò di seguire meno Girard che la mia percezione – che poi è anche quella banalmente canonica, da manuale – di cosa sia effettivamente il “Tempo ritrovato”. Non una versione dimidiata o implicita – o almeno, non solo – della rivelazione romanzesca girardiana, detto in poche parole. Cos’è dunque il “tempo ritrovato”? La consapevolezza guadagnata che la vita come “scialo di triti fatti”, come sequenza cinematografica degli eventi secondo l’ordine lineare del tempo, non è – vita. Vita è solo nelle “intermittenze del cuore”, quei rari momenti in cui una reminiscenza grossa come un’onda di tsunami rimonta dal passato, sgorgando dal petto del rammemorante, tingendo dei suoi colori l’istante e immergendolo in un altrove dove tutto pare perfetto, non più bisognoso di senso, traboccante di gioia. Questo altrove però non è semplicemente il passato preterito, cui pure il nostro dedica un’attenzione forse eccessiva in rapporto alla matassa di problemi esistenziali che è chiamato a districare. In altri passi meno noti dell’opera egli allude infatti anche a fenomeni analoghi alle “intermittenze del cuore”, che vengono chiamate “oscure impressioni”, e che non dischiudono un passato revenant, ma alludono a “una verità nuova, una preziosa immagine” che si cerca di scoprire, “con sforzi simili a quelli che uno compie per ricordare qualcosa”. Più precisamente, se così si può dire, Marcel ammette in diversi passi che questa regione abolita, che solo talvolta si fa strada tra le maglie del cosmo come un’alba, risiede, in verità, “fuori dal tempo”.
(Che è questo altrove vagheggiato da Proust? Forse l’Aperto, la regione oscura dove finiscono le cose preterite di cui parlano Rilke e tutti i misticoni della Germania segreta? Forse la totalità dell’essere di cui Severino ha cercato di dimostrare l’eternità per tutta la vita – e che continuerà a ripetere in eterno ai suoi eterni studenti di Venezia, se poi aveva ragione? Oppure il mondo delle idee di Platone, anche… e perché no? Importa poco che sia una cosa in sé, quando molti ne parlano: di fatto, in qualche forma, essa esiste tuttavia, allusa sempre e presente mai, come è giusto che sia per ciò che è metafisico).
Ma stavamo parlando della rivelazione proustiana sulla vita. A me pare che, dei molti passaggi che si potrebbero citare per precisarne la figura sintetica – indubbiamente parziale – il seguente sia quello migliore:
Quante volte, in vita mia, la realtà m’aveva deluso perché, nell’attimo in cui la percepivo, l’immaginazione, ch’era l’unico organo di cui fossi dotato per godere la bellezza, non poteva ad essa applicarsi in virtù di quell’inflessibile legge, la quale vuole che soltanto le cose assenti siano immaginabili! Ed ecco che all’improvviso l’effetto di tal dura legge veniva neutralizzato, sospeso da un meraviglioso espediente della natura, che simultaneamente aveva fatto lumeggiare una sensazione nel passato, permettendo alla mia immaginazione di gustarla, e nel presente, dove l’effettiva reazione dei miei sensi aveva aggiunto ai fantasmi dell’immaginazione ciò di cui sono abitualmente sprovvisti: l’idea di esistenza.
La condanna che pesa sul rammemorante di poter godere della piena gioia delle cose soltanto sotto il duro regime delle “intermittenze” e non nel presente istante è sovvertita per molte volte nell’arco di pochi minuti quando Marcel sente che la reminiscenza, in grazia di qualche “meraviglioso espediente”, trabocca e si travasa dal passato nella sensazione attuale che l’ha elicitata, vestendola di splendore e così consegnando al vivente-rammemorante un assaggio di infinito, cioè della figura eterna di quella cosa – la sua “idea platonica” ovvero la sua immarcescibile essenza, stando a Severino. Quel meraviglioso espediente, nota giustamente il nostro narratore-autore, si chiama “immaginazione” – o “illusioni”, nella lezione di Leopardi. Il povero Marcel, che Leopardi forse non l’ha letto (o forse sì?, ecco a cosa servirebbero ora i miei studi filologici, se fossi stato un migliore scolaro) dimentica che un tempo quell’immaginazione che egli credeva destinata per “inflessibile legge” solo a illuminare il preterito era, in effetti, una facoltà umana rivolta al presente. Di questo tragico scollamento dell’immaginazione dalla vita presente del suo tempo e dei suoi abitatori lamenta infatti la circostanza il povero Leopardi. L’immaginazione era, per esempio, l’organo dell’innamoramento per tutti i poeti italiani del Medioevo, dal Notaro a Petrarca passando per Dante. Sua sede era il cuore, che aveva la funzione di nutrire e rinvigorire la fiamma del desiderio per cuocere l’immagine dell’amata fino a spiritualizzarne l’essenza, non diversamente da come si cuoce, nell’athanor alchimistico, la pietra filosofale che tutto tramuta in oro dal vile piombo. Il cuore raffina con le sue fiamme la pietra preziosa che getterà la sua luce dorata, divina e spiritualizzante, su tutto il mondo. Giacomo da Lentini lo spiega molto bene quando dice che «gli occhi in prima generan l’amore» e poi «lo core li dà nutricamento»: una realtà presente e visibile, non un lontano ricordo o l’aroma della madéleine, vengono introdotti nel forno del cuore e spiritualizzati fino a farne qualcosa di più – o di diverso, se si crede, rispetto a quel che la sorgente dell’immagine era. Analogamente, Platone spiega nel Fedro che non è solo della bellezza che ci si innamora, ma questa viene per così dire a coscienza dell’innamorato prima di tutto il resto, perché accessibile immediatamente nella visione – laddove altre qualità come la bontà e l’intelligenza non sono subito e altrettanto spontaneamente intuibili.
A queste insinuazioni passatiste sui bei tempi andati del medioevo immaginale – perché altro non sono, lo riconosco – Proust risponderebbe forse (se ci fosse concesso di parlargli in seduta spiritica, oh se solo!) che quella è precisamente la menzogna, l’idealizzazione fasulla di cui con fatica si è riuscito a liberare attraverso l’ordalia delle duemila paginette espiatorie della Recherche. Ma forse sottovaluto il mio interlocutore immaginario, attribuendogli questa ingenuità – perché di ingenuità si tratta, e di natura meramente storica. Quanti ce l’hanno spiegato, da Heidegger a Foucault: è stato il “pensiero classico” del XVII secolo a postulare una differenza qualitativa tra realtà e rappresentazione, tra res extensa e res cogitans, a scollare l’idea di verità dall’immaginazione come dimensioni antitetiche dell’esistenza. Il piano cartesiano ha trasformato il cosmo plastico e numinoso che ancora a fine Cinquecento agitava i sogni di un Giordano Bruno nella tavolaccia grigia e porzionata dei nostri reticolati geografici, nei vettori e nelle forze che dirigono i moti dei corpi secondo logiche aliene da quelle del cuore. Va da sé che un Proust squassato dalle fitte dell’amore – o dell’immaginazione, che è lo stesso – postulasse una “legge inflessibile” del cosmo che relegasse al passato non-più-rigidamente-esistente la sfera di influenza di quel giocattolino rotto che sono le illusioni – e che solo in virtù di un “meraviglioso espediente” di natura egli pensasse che queste potessero aver giurisdizione anche nel presente.
Non è un caso, forse, se in Proust si riconosce spesso una sottovalutazione del sentimento amoroso, considerato dall’alto delle rivelazioni acquisite a mezzo madéleine come artificio e stregoneria, come idealismo malriposto, come travestimento di un qualche orgasmo di quella creatura che sola non può uscire da sé stessa – e che mente se dice il contrario – che è l’uomo. Si capisce forse perché, dunque, al parossismo della rivelazione, giunga anche la scelta di ritirarsi nella stanza foderata di sughero per scrivere l’opera, abbandonando al tempo-tassonomico-che-passa nel salotto dei Guermantes i volti invecchiati di tutti i personaggi ancora vivi e già morti. Del resto, il passato è, indubbiamente, una faccenda personale: è passato proprio del sé rammemorante, anche se si porta dietro le immagini e le parole e i desideri di coloro che di quel passato hanno fatto parte. Da questa costellazione immaginaria, comunque sia, l’altro sembra completamente escluso.
Più volte su questo blog si è parlato della possibilità di infrangere la totalità discorsiva, la dura gabbia d’acciaio nella quale siamo imprigionati per difetto storico, di tardi rampolli del Capitale, con la risposta all’appello dell’altro che ci chiama ad altra verità – alla verità dell’altro. Proust, con la sua rivelazione autistica e foderata di sughero, sembra aver imboccato tutt’altra strada – ma forse questa non è che l’altra faccia delle due identiche monete che copriranno i nostri occhi nell’estremo passo, dell’obolo che ci traghetterà al sicuro, là sotto o là sopra. Hanno queste monete un corso identico, che capitino di testa o di croce nel palmo aperto di un cuore fragile e palpitante? O passando nelle grinfie adunche di Caronte, mostrando diverse facce a seconda di chi le maneggi, esse valgono pure lo stesso, ma sono soppesate dal nocchiero con un diverso ghigno, che dice “tu sei della schiera di destra”, e “tu di quella di sinistra”? Da morti, forse, giungeremo a diverse sponde, a diversi inferni o paradisi, ma avendo pagato, per quanto possa sembrare assurdo e ingiusto, la stessa somma.
Proust come negatore della “verità dell’aLtRo”, dunque? In Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard riconosce alla rivelazione di Proust una qualità pari se non superiore a quella di tutti i romanzieri precedenti, ma delinea un’implicita gerarchia di “tecniche” che sottomette Proust a Dostoevskij, collocando l’inizio della rivelazione di quest’ultimo (intesa ora come “trasmissione di saperi”) all’altezza a cui si arresta quella del francese. Della scelta di chiudersi in casa a scrivere il romanzo, Girard spiega che è determinata dall’esaurirsi del “desiderio metafisico” per l’immaginario (qui inteso come sinonimo di “fasullo”) prestigio dei mediatori. Di quanto attiene al passato che torna, alla regione “fuori dal tempo” più volte allusa nell’ultimo volume, vero cuore pulsante della rivelazione proustiana, l’inflessibile avignonese dice poco, mi pare. Si capisce quanto debba essere stato imbarazzante per Girard fare i conti con quelle pagine della Recherche che alludono a una rivelazione molto individualistica, se non proprio ascetica, se non addirittura piccoloborghese, che fa piazza pulita dei fantasmi d’altri e dell’ambizione del romanziere di includerli tutti in una stessa narrazione, e che sfuma in una specie di cicaleccio compiaciuto a tema: abbagli, colori, pasticcini profumati, clangore di posate, luci che tornano identiche – tutti espedienti molto “romantici” in senso appunto girardiano, che trascurano la rivelazione cristiana del desiderio metafisico, e quindi del peso demoniaco degli altri nella nostra vita[1]. Forse Proust non ha capito delle cose… o forse ha preso un’altra strada – una terza tra quelle di Swann e di Guermantes? Oppure la strada che porta sul retro, da buon invertito?
Nella nutrita messe delle teorie queer contemporanee c’è un libretto molto bello di Leo Bersani e Adam Phillips che si intitola Intimacies. In questo testo i due autori attuano una coraggiosa riappropriazione di un mito dell’amore platonico con il proposito, classico per i loro sodali, di sovvertire l’individualismo post-borghese, che ingiunge a ciascuno di edificare la propria individualità feticistica come oggetto di stima e comparazione spendibile nella società-mercato dei nostri tempi. È noto che le teorie queer ambiscono a sciogliere i legami identitari dei discorsi vigenti nell’ottica di de-strutturare le relazioni di potere esistenti e favorire una maggiore autonomia gestionale delle pratiche di soggettivazione, oggi quasi completamente alienate dallo strapotere del Sistema. Proprio in quest’ottica, Bersani e Phillips rispolverano i discorsi socratici sull’amore nel Fedro per proporre una chiave di rappresentazione delle relazioni che possa servire utilmente alla Causa – i post-foucaultiani, sia detto di sfuggita, sono terribili in queste cose perché conservano il segreto desiderio di fare metafisica ma per vergogna lo travestono sempre da archeologia delle idee o gara delle possibilità alternative di rappresentazione. Il libretto di Bersani e Phillips è brillante perché traccia una continuità tra estremismi amorosi cristiani – diverse pagine sono dedicate al quietismo di Fenelon – e pratiche gnostico-suicidiarie da Germania segreta, all’insegna dell’idea che amore sia innanzitutto dis-interessamento, nella forma eminente dell’espropriazione di sé, del superamento dei confini dell’ego e della desoggettivazione assoluta che consiste nell’annullare sé stessi per accogliere pienamente l’altro – tutte cosine che è facile confondere con la “pulsione di morte” freudiana, tanto biasimato anelito gnosticone che nello strazio assoluto del sé realizza al tempo stesso la completa negazione dell’alterità – e che anzi sicuramente ha, con il superamento del principio del piacere, un rapporto stretto e segreto. Vale comunque l’equazione meno soggettività = più amore: minore è l’interessamento nel proprio, nella totalità autistica dell’io – e quindi in tutta la congerie delle “ragioni dell’amare”, che una mancata mercantessa come Cathy Earnshaw elenca con puntiglio alla domanda di Nelly Dean sui perché dell’amore per Linton – più si manifesta l’estroflessione, l’inclinazione all’altro che è “vero amore” ed è irragionevole – nel senso che non se ne può render ragione in termini economici («Sei sciocca, Nelly»). Anche Platone parla di quell’“assennatezza mortale” (thethnè sophrosùne) in relazione a quel disamore che lega i cuori freddi di coloro che non sanno amare in una «attitudine servile che i più esaltano come una virtù, e che porterà l’anima a trascinarsi intorno alla terra e sottoterra, priva di intelletto, per novemila anni». Farebbe bene i conti, dunque, uno che non stesse a fare troppi conti, vista l’ammenda di novemila anni imposta ai ragionieri dell’interesse nelle cose d’amore.
Anche Bersani, dunque, guarda a Platone lo gnostico eleusino come a un buon maestro d’amore, sempre nell’ottica di giocare nuove pratiche e nuovi significati per restituire senso alla vita sotto la dura egemonia del tardo capitalismo. Da difensore della causa gay, si intende, egli è portato a valorizzare quelle narrazioni che non della differenza ma dell’identico testimoniano il desiderio. Ma non è forse la ricerca dello Stesso nell’amato indice supremo di quell’interessamento, di quel narcisismo originario di cui già Freud, con il suo pessimismo radicale su questi temi, denunciò come matrice più vera del vagheggiato concetto borghese di “amore”? E così il suo scudiero Lacan: «non esiste rapporto sessuale», perché è dell’identico e dell’oggetto primario perduto che si va in cerca, mai del fantasmatico aLtRo, di cui a stento si intuisce la presenza come ingombro molesto-più-che-altro. Di tale narcisismo gnostico, infatti, si farebbe forte il lacaniano Discorso del capitalista, asservendo l’umanità tarda a una ricerca spasmodica e frustrante del proprio riflesso narcisistico nei prodotti del consumo e nelle relazioni usa-e-getta.
Bersani individua, con puro spirito foucaultiano, la continuità tra la narrazione platonica e quella freudiana dell’amore sotto il segno di due categorie: la rammemorazione e appunto il narcisismo. Come nel Freud-Lacan il desideratum è sia l’oggetto perduto di cui si serba memoria sia l’immagine ideale dell’io che si era formata nell’infanzia, così in Platone l’amante posseduto dalla follia divina ricerca nell’amato i segni della comune discendenza di entrambi da quel dio che seguirono nel giro di giostra intorno alla piana delle idee al termine della precedente incarnazione, e che dei due amanti è il typos, il timbro la cui impronta affonda nella carne e nello spirito di entrambi dando loro una forma simile[2]. Alla vista di questo simulacro che è l’amato, e che del dio conosciuto nell’aldilà reca nel volto i segni veridici, l’amante comincia a riversare il flusso del suo desiderio nella creatura amata fino a che questa, gravida di quel getto d’amore materico che Platone chiama “himeros”, non sviluppa spontaneamente il flusso contrario, detto “antéros”, che è la risposta immancabile che alla “manìa” amorosa non si può a meno di restituire – sapienza comune anche a Dante, che dell’amore «ch’a nullo amato amar perdona» raccontò la magnifica fiaba. Il flusso di desiderio dall’amante all’amato e dall’amato all’amante nutre entrambi e quanto più spogliandoli delle “false differenze” (cit. che rubo impropriamente a Girard, mi si perdoni), tanto più li avvicina all’immagine-idea pura di quel dio che entrambi seguirono nell’aldilà. L’amore dunque si nutre e si accresce alla vista di quell’identico tipo divino che l’uno scorge nel volto, nei portamenti e nelle parole dell’altro. Bersani invoca questo tipo di fratellanza o sororanza spirituale e amorosa con il realismo politico di chi ammette che ogni identità si edifica su un taglio tra il mio e il tuo – e viceversa – e che il sogno di abolire tutte le differenze foriere di subalternità e discriminazione altro non è che un’illusione progressista o gnostica. Allora sarà forse meglio opporre questo genere di discorso del “noi”, di matrice platonica, disincarnato e innocuo, a sistemi differenziali territorializzati come quelli che ereditiamo dal Novecento – e che tornano prepotenti in questo esordio di XXI secolo così inquietante. Un “noi”, quello delle anime gemelle del dio di Platone, che non dà luogo a un “voi” se non nella non-comunità del mondo delle idee, e in nome della quale, si suppone, nessuno potrebbe mai accaparrarsi discorsivamente un primato sociale o storico, ovvero imposturare una differenza in vista dell’egemonia di un gruppo di interesse sopra un altro.
Alla luce di questo recupero, Bersani risignifica genialmente tutta la cosiddetta «cultura della morte e dell’identico» di area queer (barebacking, antisocialità, analità e sadomasochismo), nonché, indirettamente, l’avventurismo presuntamente gnostico di certi autori (e qui direi: perché non anche Bataille, allora?), come pratica di liberazione dalle “false differenze” (ancora Girard, scusami!) imposturate dal culto liberale dell’individualità qualitativamente distinta, inimitabile e gloriosa, di cui si può soppesare costi e benefici e apporvi il cartellino del prezzo. Ho già accennato in un altro scritto (Portando Weininger all’estremo) come il soggetto liberale moderno, reificato e alienato da un feticismo delle merci-spettacolo divenuto paradigma di realtà su scala globale (vedi la magnifica analisi di Guy Debord) trasformi il problema delle “liberazioni”, oggi affrontato soltanto nel contesto dei gruppi di area femminista, terzomondista, animalista e queer, in questione veramente universale, non legata a specifiche minoranze che attendono redenzione, ma alla totalità del genere umano (sì, e anche animale) divenuto merce-cosa per demonico influsso del feticismo universale. Abolire le “false differenze” imposturate dai discorsi e dalle pratiche foucaultiane di egemonia diventa dunque cruciale in tutti i campi dell’esistenza – non da ultimo, e anzi precipuamente, forse, in quello delle relazioni, che stanno al cuore dell’esistenza dei gruppi sociali.
Si è già detto che questa ricerca dell’identico può far gridare allo scandalo chi imposta l’equazione per cui ciascun indugio nel proprio, nello Stesso, altro non rappresenti che un processo secondario di implementazione della Totalità, e quindi del sistema capitalistico-consumistico e del suo progetto di alienazione e subordinazione dei corpi e dei cuori. Negare questo automatismo del pensiero non significa che non esista una china pericolosamente gnostica nel cuore degli individui e al fondo dei progetti egemonici di certi gruppi di interesse – ma piuttosto che fare di ogni erba un “Fascio” sia sbagliato, e che la ricerca dello stesso su cui sembra che si edifichi il sentimento amoroso nella sua “illusorietà” possa essere altro da un pericoloso anelito narcisista – forse il sintomo residuale del nostro bisogno di esperire l’esistenza ancora in termini di trascendenza: categoria cui un tempo si faceva corrispondere serenamente l’idealismo, l’astrazione di un termine spirituale comune a due o più enti reali – mi permetto “enti reali” perché, nel caso dei corpi amorosi, essi non possono essere ridotti a concetti fintantoché amati, e quindi giustapposti all’idea trascendente che li accomuna sullo stesso piano di orizzontalità, al di qua della differenza ontologica, nel piano sintattico della totalità-Detto levinassiana. L’alterità inattingibile «ch’è si cara», infatti, è abolita innanzitutto nel discorso, prima che nel desiderio narcisistico: parlare o scrivere di qualunque cosa significa inserirla nel sistema di totalità referenziale-terziale che è il linguaggio, e dunque abolirne almeno in parte il segreto – a meno, si intende, di non parlare sempre di tutto in poesia. È comunque possibile che, se dell’identico si va tuttavia in cerca, nell’amato, è nel rapporto dei corpi e delle anime che quella differenza insuperabile “ch’è sì cara” potrebbe trovare asilo e protezione, quand’anche l’amante e l’amato cerchino di valicarla per sciogliersi nella comune jouissance dell’immagine del dio di cui sono i servitori eletti. Di nuovo è Platone a darci una rappresentazione molto chiara della differenza tra l’amore volgare – che soccombe al trascinamento godimentale, alla discesa a capofitto lungo la «via più breve per ritornare al Tutto» (Hölderlin), quando, abbandonandosi al piacere, l’amante cerca solo di «montare come un quadrupede» (non dice “animale”) – e l’amante che, gettato ai piedi dell’amato, lo venera come un dio e, «se non temesse di passare completamente per folle, gli offrirebbe sacrifici come si fa con una statua votiva» (Fedro, 251 a-b).
Tra i concetti di idolo e di feticcio esiste una differenza cruciale, senza tenere presente la quale si corre ancora una volta il rischio di fare di ogni erba un Fascio e calare la scure del discorso normativo su una via potenzialmente ricca di senso. Il feticcio è reificazione di quei portali che sono i volti e i corpi d’amore; l’idolo è il guardiano invece delle porte regali dietro cui si apre la trascendenza. L’idolo non ha confini chiusi, ma orizzonti spalancati; il feticcio invece è l’oggetto dotato di “buona forma” per eccellenza: chi gode di questo – infinitamente e ripetitivamente, perché non sazia – resta prigioniero della terra e del sistema delle merci; chi venera quello, inginocchiato come nell’atto di chi cede al feticismo, ma già alato e trascinato altrove, conosce la regione abolita che si chiama Aperto, Essere o Trascendenza, come se vi abitasse già da morto – sebbene, a quanto pare, viva ancora, per quanto in una forma dimidiata e servile: abbracciato alle gambe dell’amato.
Tutto questo lungo giro per…? L’ambizione originaria di questo scritto era liberare Proust da una lettura troppo strettamente girardiana, che potrebbe inficiare la peculiarità della sua rivelazione – che di cristiano ha ben poco, nonostante le proteste del nostro, oppure lo ha solo nella misura in cui anche Simone Weil assegna alla rivelazione greca qualità che sono proprie anche del cristianesimo. Secondo Girard, è nel momento in cui non può ripetere lo stesso discorso una volta di più e in cui gli servirebbe far parlare gli altri personaggi, di elevarsi al traguardo polifonico che solo Dostoevskij raggiunse, che Proust cede il passo al fratellino russo, nel campionato della rivelazione a matrice cristiana[3]. Di tutto ciò che Proust comprende della sua propria storicità di singolo individuo e delle “intermittenze del cuore” poco o nulla vien detto, al di là delle forme e degli oggetti del suo desiderio in rapporto agli altri, argomento che solo sembra impegnare l’attenzione di Girard, quasi che le ragioni profonde del come della Recherche, queste duemila paginette espiatorie, altro non fossero che un errore o cortocircuito di tecnica, che Dostoevskij risolverebbe invece con magistrale completezza. Forse manca proprio a Girard quello spirito di fedeltà alla parola dell’autore, più che al suo proprio sistema di lettura della realtà in chiave mimetica, che fa di lui un filosofo migliore che un critico[4]. Postulare che la polifonia di Dostoevskij sia un completamento migliore, in termini rivelativi, rispetto allo scavo ossessivo e feroce di Proust nella materia molle della rammemorazione, significa ancora privilegiare l’orizzonte dell’alterità rispetto a quello dell’identità – la quale ultima il nostro Marcel, anche per effetto della propria omosessualità, non poteva a meno di abitare prevalentemente[5]. Da una prospettiva che rivendica la differenza insormontabile della rivelazione cristiana questo approccio è certamente coerente. Ma se prendiamo per buona una continuità in questo senso dai greci ai cristiani – e lasciamo quindi “a casa” Girard, salendo su un treno di testoni che va da Foucault a Guenon alla Weil –, e quindi immaginiamo una storia della rivelazione-redenzione umana continua e priva di scarti divini e transumani – quale sarebbe l’unicità e irripetibilità di Cristo per il cattogirardiano – forse in quest’ottica anche Proust non ha solo “qualcosa da dire” a riguardo, ma già tutto quanto. Forse anche l’idolatria tanto biasimata, il vituperato assunto per cui, all’assottigliarsi della mediazione e al progredire della società borghese, gli uomini divengono dèi per gli altri uomini, abolendo definitivamente la regione della trascendenza, forse anche questo pessimismo cristiano potrebbe essere superato. Gli uomini, stando a quanto si legge nel Fedro, sono sempre stati dèi gli uni per gli altri, ben prima di Napoleone o di Stavrogin – e negli occhi scuri e veramente altri dell’idolo cercavano nondimeno un barbaglio del proprio io ideale, perduto e però perpetuamente anelato. Questa cosa la si chiamava tranquillamente “amore”. Ma si sa quanto è facile rilevare le conseguenze disastrose di ogni idolatria: il cuore degli uomini si indurisce nell’orgoglio e il loro desiderio si cristallizza intorno agli oggetti terreni che sono mere ombre della persona divina cui alludono. Forse però quella sclerosi del cuore non è il prodotto dell’idolatria in sé, ma la conseguenza del terrore che si prova di fronte al suo sublime rischio – dell’esitazione di un cuore fragile a inginocchiarsi ai piedi dell’amato come un servo, mettendo in gioco sé stesso completamente, esponendosi alla possibilità che di quella gloriosa venerazione sia fatto scempio ad opera di un cuore duro e tirannico, oppure che si riveli così per inferiore o manchevole – come per certo siamo tutti, immancabilmente, al cospetto e agli occhi degli altri, e del dio di cui siamo le copie imperfette. Ma se si crede alla favola di antéros, e vi si crede con la pura ingenuità del matto, forse si vedrà che davvero non c’è amore, se ricco e traboccante, che non manchi di essere ricambiato, quando si manifesti nella sua pienezza irragionevole. Forse anche la tanto odiosa triangolazione del desiderio, il mimetismo che pregiudica in purezza qualsiasi amore quando questo sia mediato da altro che non sia il puro incontro delle anime, potrebbe essere risignificato e ricompreso senza scandalo. Non è che forse tutti e tre – quattro, cinque? – stiamo soltanto inseguendo l’ombra dello stesso dio che vedemmo in sogno?
Forse il cortocircuito per cui non possiamo fare a meno di imposturare differenze tra rivelazioni buone e cattive, parole vere e false, è che non riusciamo a far prescindere l’esperienza della rivelazione dal suo contenuto. La catastrofe che spalanca il cuore sulla trascendenza forse non si manifesterà a tutti con il profumo della madeleine o con le parole semplici e commoventi di Alyosha presso il macigno, forse non avrà per tutti il nome e il segno di Cristo, ma indubbiamente essa può essere apprezzata complessivamente per la ricorsività e la manifesta correlazione dei suoi effetti: un’analoga tenerezza dei cuori e dei corpi, una forma di sovranità nella quale ha parte anche l’altro, una disciplina spontanea che nessuna legge deve ingiungere o sanzionare, e che ha il nome comune della libertà. Forse, se le parole chiamate a rappresentare questo evento non sono che mezzi e ben scarsi di alludervi e di guidarvi gli altri – forse allora dovremmo prestare la minore attenzione possibile proprio alle parole che usiamo e ai loro significati. Rinunciare al dualismo di bianco e nero che impostura un sopra e un sotto, un coperto e un rivelato, e quindi anche una menzogna romantica contrapposta a una verità romanzesca. Forse non c’è nulla di male nel farsi guidare da una menzogna romantica lanciata in avanti, verso un futuro che attende il suo turno di sorgere nel cerchio dell’apparire, perché sia da guida agli incamminati verso la piena manifestazione di un mondo che poteva anche non essere – e invece è stato.
E dunque adoriamoci pure, inginocchiamoci, contiamocela pure su – come e per quanto possibile. Saremo dèi gli uni per gli altri – sì e no, ma se ameremo a quel modo, dice Platone, scamperemo almeno i novemila anni di passeggiata nelle tenebre. Vale la pena provare.
Note
[1] Tanto rumore per nulla? Del ruolo (per nulla cruciale, sembra) della “memoria affettiva”, Girard parla a p. 260 dell’edizione Bompiani (cf nota 2). La mossa è sempre la stessa utilizzata con altri autori che non si incastrano alla perfezione nel Discorso fascio-girardiano: se anche Proust attribuisce a questo tema una preminenza manifesta rispetto alle sottigliezze girardiane che costituirebbero, invece, il cuore autentico della rivelazione (non compresa pienamente dallo stesso autore!) noi lettori sgamati non ci facciamo fregare, perché – 1 – «uno studio abbastanza attento dei testi anteriori a Le temps retrouvé rivela che [il tema della memoria affettiva] non ha avuto l’importanza assolutamente primaria che le viene attribuita nella stesura definitiva» (come a dire: l’ha capito tardi e quindi non vale?) e – 2 – «[Proust] teme di avviare i critici su una strada troppo feconda» (non sarebbero più “cose nascoste” se no!), «Conosce l’importanza che il suo tempo attribuisce all’originalità e teme di vedersi sottrarre una parte di gloria letteraria», …quindi… «trasferisce in primo piano e pone in risalto gli elementi più ‘originali’ della sua rivelazione romanzesca e specialmente la memoria affettiva». Insomma: tutta la storia della madeleine non sarebbe che una specie di travestimento à la mode per rendere il debunking del desiderio mimetico più digeribile ai critici pettinati del Faubourg. E però «lungi da noi del resto il pensiero di scorgere in questa posizione centrale una “colpa” del romanziere. […] Vogliamo semplicemente osservare che Proust ha saputo molto abilmente combinare le esigenze superiori della rivelazione romanzesca con le esigenze pratiche della ‘strategia letteraria’». Che mossa, Marcel.
[2] In effetti la rammemorazione e l’intuizione di un’identità misteriosa erano precisamente i motori gemelli dell’amore di Hinako e Minato, di cui si è parlato, non a caso con la mediazione di Platone, in un altro articolo.
[3] Allora… cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2009, pp. 211-212.
[4] Ma è vero anche che molti (io per primo) hanno imparato cosa significhi far critica letteraria proprio leggendo Menzogna romantica. Però non stiamo a far su di nuovo tutta la solfa del complesso edipico, si sa.
[5] Omettevo di dire che Bersani parla ampiamente della concettualizzazione eterosessuale del desiderio in Proust con un ragionamento molto più raffinato del mio, che si limita a rilevare l’equazione omosessuale = amante dello stesso, ma che paradossalmente ha poco da dire nel merito del discorso che si è fatto qui. Gli increduli possono approfondire leggendo L. Bersani, Homos, Pratiche editrice, Milano 1998.
di Mattia Carbone