Di immigrazione e lotta di classe
1. Se c’è un tema che negli ultimi anni ha tenuto banco nel dibattito pubblico, questo senza dubbio è l’immigrazione. Questo numero, dedicato al viandante, a colui che «non ha fissa dimora» e la cui «patria è la strada» come recita l’I Ching, ci offre l’occasione per affrontare questo argomento.
In particolare, ci piacerebbe provare a sfatare uno dei miti più diffusi quando si parla di immigrazione e cioè che l’arrivo dei migranti in un Paese causi una compressione del livello medio dei salari.
Che, in altre parole, la migrazione determini l’impoverimento generale dei lavoratori nel Paese di destinazione. È questo uno dei cavalli di battaglia non solo delle destre[1], ma anche di certe correnti che si richiamano al patrimonio politico e ideale della sinistra, persino di quella sedicente radicale[2].
Apparentemente l’affermazione è di buon senso. Se infatti una massa più o meno grande di persone è disposta a lavorare per un salario minore della media, specie in un periodo di crisi economica, ecco che inesorabilmente la media dei salari è destinata a diminuire. Giusto?
Sbagliato. Salvo controtendenze, infatti, in una società in cui domina il modo di produzione capitalistico il livello medio dei salari tende sempre alla sussistenza, indipendentemente dal fatto che la parte di popolazione lavoratrice migrante sia più o meno alta.
Anzi, paradossalmente, proprio i luoghi di partenza, i luoghi da cui la gente emigra, e non quelli in cui in cui giunge, sono destinati a un aumento dell’impoverimento generalizzato della popolazione lavoratrice.
Non è possibile comprendere le ragioni di questo cortocircuito logico senza addentrarci nell’«occulto laboratorio della produzione»[3] e cercare di capire come si origina la ricchezza in questa società. Da veri viandanti, dobbiamo perciò imboccare una strada laterale che ci porterà lontano dal nostro tema. Speriamo però che il lettore non ne resterà deluso.
2. Il modo di produzione capitalistico è, senz’ombra di dubbio, caratterizzato da un aumento esponenziale della ricchezza sociale prodotta. Un aumento costante, che non si è mai visto nella storia. Un dato basti per tutti. Ad oggi, l’umanità produce generi alimentari per circa 10 miliardi di persone. Potenzialmente, abbiamo cibo a sufficienza per sfamare più individui di quelli che calcano il suolo terrestre. Eppure la povertà, assoluta e relativa, è in aumento.
L’ultimo rapporto ISTAT dedicato alla situazione sociale italiana ci parla di 5,6 milioni di persone in povertà assoluta[4], circa il 10% della popolazione. Da par suo, ad aprile Oxfam rilevava che, nel 2022, 860 milioni di persone nel mondo si sarebbero ritrovate costrette a sopravvivere con meno di 1,90 dollari al giorno e 827 milioni avrebbero sofferto la fame[5].
Sorge spontanea la domanda: com’è possibile?
Spesso, la risposta che viene data punta l’attenzione sulla disparità esistente nella distribuzione delle risorse. I ricchi, viene detto, sono ricchi perché si prendono una fetta più grande della torta. Il che, a ben vedere, rischia però di diventare una tautologia: i ricchi sono ricchi perché hanno più ricchezza dei poveri. Ma perché hanno più ricchezza? Questo le teorie distributive non possono spiegarlo.
Per farlo infatti bisogna infatti guardare l’economia capitalistica nella sua totalità.
Bisogna cioè concepirla come un circolo di circoli che a partire dalla produzione giunge alla distribuzione, ma solo come momento necessario per rincominciare il processo di produzione su una base più allargata.
3. Ecco allora che la spiegazione diventa più raffinata e interessante. Nella produzione capitalistica troviamo infatti che si incontrano tre elementi: i mezzi di produzione, le materie prime e la forza-lavoro. Per farli incontrare, ovviamente, il capitalista deve innanzitutto acquistarli, scambiare il proprio denaro contro la merce altrui.
Come tutti gli scambi, anche questo avviene secondo il prezzo delle merci acquistate, prezzo che tendenzialmente corrisponde al loro valore[6], ossia al tempo di lavoro medio necessario per produrre quelle merci.
Così, quando comprerà i macchinari o le materie prime, il capitalista le pagherà esattamente quanto valgono. Lo stesso accade con la forza-lavoro: quando il capitalista paga i salari ai lavoratori, egli non sta facendo altro che corrispondere il “giusto” valore in denaro ai possessori della forza-lavoro. Un valore determinato dal tempo di lavoro necessario per produrla o, più precisamente, un valore che equivale a quello delle merci necessarie al lavoratore per riprodurre l’esistenza del lavoratore: il cibo, la casa, i vestiti, l’istruzione, i mezzi di trasporto, le medicine… È importante sottolineare quest’aspetto.
Lo scambio tra salario e forza-lavoro è, da un punto di vista formale, uno scambio tra eguali: il lavoratore vende la propria merce, che vale X, e in cambio riceve esattamente X. Come succede allora che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri? Succede perché la forza-lavoro, pur essendo una merce come le altre, non è una merce come le altre.
A differenza di mezzi di produzione e materie prime, che vengono acquistati in quanto oggetti e possono essere usati solo finché non si consumano, la forza-lavoro non coincide con la persona fisica del lavoratore. Il lavoratore non si vende in quanto tale, non diventa schiavo. Egli vende essenzialmente il proprio tempo, o, meglio ancora, vende la propria capacità di lavorare, di fare un’attività X per un tempo determinato Y.
Maggiore è il tempo durante il quale viene esercitata questa capacità, maggiore sarà la merce che verrà prodotta e, quindi, minore sarà il prezzo della forza-lavoro in proporzione alla quantità di ricchezza generata.
Mentre i mezzi di produzione e le materie prime, se vengono utilizzati per più tempo o a ritmi più intensi, semplicemente si consumano prima, la forza-lavoro non ha questo problema. Più viene usata e maggiore è in proporzione la quantità di ricchezza di cui l’acquirente della forza-lavoro, il capitalista, si può appropriare senza contropartita. E infatti chi acquista la forza-lavoro tenta di estendere il tempo di lavoro e di aumentare i ritmi di lavoro, costringendo la forza-lavoro di produrre più merce nella stessa unità di tempo. In entrambi i casi, infatti, questo permette una produzione maggiore e quindi profitti più alti.
L’ossessione di Confindustria (e non solo) per l’aumento della produttività ha solo e soltanto questo significato.
4. Lo scambio tra eguali, in realtà, cela allora un rapporto diseguale. Il valore della forza-lavoro è sempre minore delle ricchezza prodotta da quella stessa forza-lavoro.
Ecco perché, nonostante la ricchezza sociale cresca instancabilmente, nonostante la quantità di merci sia persino eccessiva per soddisfare i bisogni degli esseri umani, i salari tendono sempre al livello di sussistenza e una parte sempre più ampia di umanità è condannata alla povertà o addirittura alla vera e propria miseria.
Ossia, come scrivevamo all’inizio dell’articolo, la compressione del livello medio dei salari non è determinata da elementi contingenti, come l’immigrazione, ma è figlia del modo in cui funziona questa società, è la sua tendenza principale.
Delle conseguenze politiche di questa presa d’atto era consapevole già il primo che elaborò una teoria critica dell’economia-politica capitalistica: Karl Marx. Se la disuguaglianza è alla base del modo in cui la nostra società si riproduce, per uscirne è necessario rompere il circolo vizioso della produzione capitalistica. Non basta, come fanno molti ancora oggi, puntare il dito su una diversa redistribuzione. Serve piuttosto ripensare il modo stesso in cui produciamo la ricchezza, le relazioni sociali che vi stanno a fondamento. A partire dal rapporto tra forza-lavoro e salario, cioè a partire dall’esistenza del lavoro salariato.
Se non viene superato il lavoro salariato, infatti, se non viene costruita una società nella quale la costrizione al lavoro venga superata da una libera associazione di tutti i produttori, qualsiasi tentativo di miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici (ammesso che abbia successo) sarà destinato a venir eroso.
La storia italiana degli ultimi cinquant’anni lo dimostra. Dopo le grandi conquiste dell’Autunno caldo e degli anni Settanta, le leggi sul lavoro che si sono susseguite a partire dagli anni Novanta, la precarizzazione, la moltiplicazione dei contratti a tempo determinato, la diffusione di lavoro nero e grigio hanno portato oggi a un decimo dei lavoratori in stato di povertà assoluta e a un quarto in stato di povertà relativa[7].
Ma lottare per un mondo diverso significa innanzitutto riconoscere dove corrono le faglie dell’opposizione sociale. Significa sfatare i miti, come quelli che vogliono nell’immigrato la causa dell’impoverimento sociale, e riconoscere quali sono gli interessi in gioco, chi è portatore di questi interessi e da parte della barricata si sta collocati, ricordandosi che chi non sta da una parte o dall’altra della barricata è soltanto la barricata.
È un processo lungo, che non avviene quasi mai individualmente e che passa sempre da differenti forme di soggettivazione. È un processo che oggi appare disperatamente impervio. Ma che, proprio per questo, è necessario iniziare a intraprendere. Come viandanti. Su un sentiero.
Note
[1] Che a volte arrivano a usare persino Marx per giustificare le proprie politiche xenofobe quando non apertamente razziste. Ne è un esempio il programma politico scritto da Salvini nel 2017, quando si è candidato alla direzione della Lega Nord. «Il lavoro a basso costo derivante dall’immigrazione incontrollata – si legge nel testo – fornisce “l’esercito industriale di riserva”» (Programma per la candidatura alla Segreteria Federale della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania – Matteo Salvini, p. 1).
[2] Dell’uso improprio del pensiero di Marx a proposito dell’immigrazione ne ha parlato diffusamente Mauro Vanetti in un bellissimo intervento uscito sul sito dei Wu Ming qualche anno fa, intitolato Lotta di classe, mormorò lo spettro. Una miniserie in due puntate. Qui la prima puntata e qui la seconda. Ne consigliamo caldamente la lettura.
[3] K. Marx, Il capitale, trad. di D. Cantimori, R. Fineschi, G. Sgro’, Edizioni «La Città del Sole s.r.l.», Napoli 2004, p. 193.
[4] ISTAT, Povertà in Italia, in «Le statistiche dell’ISTAT sulla povertà – Anno 2021», 15 giugno 2022, p. 2.
[5] Oxfam, Dalla crisi alla catastrofe, 12 aprile 2022.
[6] È importante sottolineare che l’equivalenza di valore e prezzo è sempre tendenziale, poiché esistono fattori contingenti che impongono un’oscillazione del prezzo attorno al suo valore. Tuttavia queste oscillazioni si compensano e sul lungo periodo è sempre possibile individuare il valore esatto di ogni merce.
[7] A. Magnani, Lavoro, perché in Italia 1 occupato su 10 è povero e 1 su 4 ha un basso salario, in «Il Sole 24 Ore», 18 gennaio 2022.
di Simone Coletto