Ciò che resta del viandante alla fine del cammino
Si sa che Heidegger, insoddisfatto com’era dell’immagine alienata e superficiale alla quale l’Occidente ha progressivamente ridotto il concetto di “umano”, cercò di ridefinirne l’essenza attingendo al vocabolario del movimento, del cammino, dei sentieri interrotti.
Considerato a partire dalla peculiare posizione nel cosmo cui è destinato, quella della gravosa custodia di un essere che per così dire lo richiede per manifestarsi, l’uomo doveva apparirgli non più un Prometeo che spadroneggia su un mondo-oggetto, bensì un eterno e inconsolabile viandante: “Dasein ist immer unterwegs”, “l’Esserci è sempre in cammino”.
Gli ha fatto eco Jan Patočka, suo allievo, per il quale la moderna comprensione dell’essente come fondo energetico da sfruttare all’infinito si lascerebbe leggere nella mutazione che ha riguardato la nozione di movimento, ristretto al significato di mero cambiamento di luogo, spostamento nella sfera della res extensa. Restrizione che ha come correlato il confinamento a immagine e metafora di un più profondo “movimento della vita”, che pure ancora risuona in espressioni come “moti dell’animo”, “emozioni”, “commozioni”, nonché nella concezione della vita come viaggio o pellegrinaggio da cui traggono la propria linfa grandi opere come l’Odissea o la Commedia di Dante.
C’è quindi una forte continuità tra l’affermazione di Heidegger e l’autorappresentazione di una civiltà fin dal principio scandita non solo dal tema del conflitto, ma anche e forse prima ancora da quello del viaggio, sia che intendesse la propria avventura come progresso (il “cammino della coscienza” di Hegel, che passa per la “via del dubbio e della disperazione”) sia che la intendesse al contrario come decadenza, dunque come chance per un movimento più originario (quello del “viandante” di Nietzsche).
Pensiamo ad esempio alle Confessioni di Agostino, uno dei due o tre testi dei quali Essere e tempo di Heidegger è effettivamente una riscrittura. Qui a farla da padrone è proprio il cammino, la concezione dell’uomo come viandante.
Quello del movimento, infatti, è lo sfogo metaforico privilegiato dell’opera, il cui tessuto è costituito dalla ricorrenza quasi ossessiva dei verbi di movimento e dal gioco di rimandi che si instaura, dalla prima all’ultima pagina, tra le diverse forme di moto che questi verbi metaforicamente esprimono.
Un moto che può essere di dispersione orizzontale (ire, errare, ambulare, currere), o di rapporto verticale con Dio, sia come decadenza e allontanamento (ruere, inruere, fugere, labi, recedere, descendere) sia come ascesa e ritorno (redire, sequi, ascendere, pervenire).
Il movimento è nelle Confessioni la materia non solo delle diverse figure della vita dispersa (la curiositas, il masochismo, la subdola autoreferenzialità del discorso umano, il tragico scarto che separa la volontà da se stessa condannandola al differimento e all’ineffettività), ma anche della forma di vita dischiusa dalla conversione e dalla mediazione di Cristo.
Nei comandanti che possono celebrare trionfi soltanto perché hanno combattuto, nei beoni che mangiano salsa piccante soltanto per provare piacere a estinguere l’arsura con le bevande, Agostino ritrova la matrice non del peccato originale e della sua remissione, ma anche quella della conversione stessa, dell’intero arco descritto dalle Confessioni e non soltanto del suo momento negativo.
Preso in se stesso, Dio sarà pure incorruttibile, inviolabile e immutabile, ma tale non sarà mai la vita, neppure nel momento in cui si approssima più che può alla stasi divina, alla pienezza e alla coincidenza con sé di ciò che veramente è.
E questo perché l’uomo non si trova, accidentalmente e occasionalmente, in movimento, ma vuole esserlo, lo vuole nel fondo e con tutto il suo essere, anzi lo “vuole” l’essere stesso che in noi, in ciascuno di noi nella sua singolarità, si individua e si dà in consegna. Ne per otium torpesceret manus aut animus, per evitare che nell’ozio le mani e l’animo si intorpidissero: ecco perché ho rubato le pere, confessa Agostino a se stesso, ecco perché Catilina ha commesso i suoi delitti, insomma ecco perché agiamo.
Ecco perché Agostino, in seguito alla morte di un amico, deve precipitarsi in un viaggio a Cartagine, come a ricercare nel moto fisico, spaziale, il supporto di un movimento spirituale, al di qua del dualismo tra letterale e metaforico.
Egli sa già, come poi saprà Pascal, che tutti i mali dell’uomo nascono dal non saper stare chiusi in una stanza.
Eppure, se è vero che nelle pagine di Agostino o di Pascal, così come in quelle di Seneca, di Paolo o di Kierkegaard, già si scorge la sagoma dell’uomo di Heidegger, l’esistente eternamente in cammino, il fatto è che Heidegger elimina il supporto sul quale i suoi predecessori avevano tracciato questa sagoma, e cioè Dio.
Vale a dire, che ai suoi occhi l’esistenza è errare senza possibilità di redire, descendere senza ascendere, incircoscrivibile divertissement che nulla di “serio” può eccedere, e che perciò esibisce l’inconcepibile gravitas, o l’altrettanto inconcepibile ironia, di ciò che è “senza un perché”.
Nietzsche, constatata la morte di Dio sive la cancellazione dell’orizzonte, si era per primo votato al tentativo di esprimere un nuovo movimento all’altezza di questo evento, ma in modo ambiguo: oscillando cioè tra il paradigma di un moto per così dire gestuale, ovvero di un agire come puro mezzo che non ha bisogno di essere riferito ad un fine (la danza, il gioco), e quello di una escatologia di ritorno (il tramonto senza fine, la profezia, l’oltreuomo a venire), pagando forse questa ambiguità con la follia.
Il gesto di Heidegger è diverso: egli convalida lo schema entro cui l’antropologia cristiana ha pensato il movimento della vita, e cioè la caduta, ma privandolo del suo referente (la forma di vita piena, lo stato prelapsario al quale potremmo eventualmente far ritorno).
Cammino, fuga e deriva anziché danza, ma cammino del quale, necessariamente, rimangono nascosti “il donde e il verso dove”. Cammino il cui senso temporale non è propriamente il futuro, ovvero la linea, ma l’avvenire: tempo dell’attesa irriducibile di qualcosa che non si può anticipare, di qualcosa che, a rigore, non è una “cosa”, e non è nemmeno il messia paolino: a venire “come un ladro nella notte”, per Heidegger, è solo la morte, ovvero non una possibilità tra le altre, bensì la possibilità-limite che racchiude l’esistenza finita.
Otthein Rammstedt ha proposto di ricondurre i molteplici modi in cui le diverse culture percepiscono e misurano il tempo a quattro forme, ciascuna radicata in una ben specifica configurazione sociale: società semplici e indifferenziate vivrebbero in un tempo occasionale, che si limita a distinguere l’“adesso” e il “non adesso” e fonde in quest’ultimo passato e futuro, entrambi percepiti come il mitico “Altro” del presente; società arcaiche organizzate in caste accederebbero ad una coscienza ciclica del tempo, esperito come circolazione di processi continuamente ricorrenti; solo con la più articolata differenziazione sociale della prima modernità, una coscienza del tempo come linea irreversibile, diretta verso un telos, prevarrebbe su quella circolare; la tarda modernità, infine, vivrebbe il tempo a partire dalla fondamentale esperienza dell’apertura di questo telos, dunque dell’incertezza che avvolge il compimento verso cui il processo storico è diretto.
Hartmut Rosa, scienziato francofortese dell’accelerazione sociale, ha ripreso questo studio precisamente per criticare la visione heideggeriana: nessun “già da sempre”, nessuna struttura fissa può avanzare la pretesa di catturare le temporalità delle diverse epoche, culture e società.
L’uomo sarà pure sempre in movimento e in cammino, ma in una pluralità di modi e di topologie irriducibili a qualsivoglia unità.
Ciò nonostante, la situazione in cui versa oggi il viandante globale sembra essere tutto meno che refrattaria a una presa heideggeriana. Questa condizione, mi sembra, è ancora quella dei personaggi di Aspettando Godot, quantomeno nella lucida lettura che ne ha dato Günther Anders.
Non diversamente da Kojève, Anders ritrovava la cifra del contemporaneo nell’esaurimento della Erfahrung, dell’esperienza hegelianamente intesa come viaggio, cammino: nell’epoca in cui il mondo viene a noi, in cui non siamo più noi ad andare verso il mondo ma questo a esserci fornito a domicilio, in una forma familiarizzata e simulacrale, oggetto di consumo per uno sguardo turistico e voyeuristico.
«Il viaggio di scoperta e apprendimento è diventato superfluo», le “vie stesse” decadono, e questo tanto più quanto l’homo viator moltiplica le proprie possibilità di viaggiare. Ciò che rappresenta Beckett è appunto questo “uomo senza storia”, questa “vita che non agisce”, “che non conosce più né un motore né dei motivi”, dominata dalla sensazione di “essere fatti fare”.
E cosa resta del viandante alla fine di ogni cammino, cosa anima l’uomo in un mondo le cui vie sono ormai tutte tracciate, mappate, programmate e musealizzate prima ancora di essere percorse, in un’epoca retta dalla constatazione che “la carta è più interessante del territorio”?
Resta un’esistenza che, dal mero fatto che rimane, che “ormai c’è”, deduce che sta aspettando, e dal fatto che aspetta, deduce che sta aspettando qualcosa; resta questa attesa vuota e ostinata che è come l’indecostruibile scheletro del tempo, il tempo nudo e cieco spolpato di ogni sovrastruttura. Resta un agire – se ancora così lo si può chiamare – il cui solo scopo è quello di mettere in movimento questo tempo, di cacciare via un tempo che altrimenti minaccia di ristagnare, un “puro e semplice passatempo”.
Da qui, due conseguenze. La prima è che la nostra inedita forma di vita, nella quale svago e lavoro si rovesciano incessantemente l’uno nell’altro, rivela una verità abissale ed eterna: che non esiste, non è mai esistita una linea divisoria riconoscibile tra la nostra attività seria e il nostro gioco. Non solo tutti i giochi umani sono in fondo un “togliersi e mettersi le scarpe”, un “far finta di fare”, ma lo è tutta la nostra vita quotidiana: «Non è altro che un gioco, è grottesca, è futile, ed è dovuta soltanto alla speranza di passare il tempo». La seconda conseguenza è che l’ultimo conforto è una leopardiana “complicità degli sconsolati”, una condivisione di una «tristezza che, rispecchiando la sorte dell’uomo in generale, rende solidali i cuori di tutti gli uomini e nella tristezza facilita la loro solidarietà».
Difatti, “anche i moti dell’animo sono moti”, e come tali, possono anch’essi smuovere per un po’ la melma del tempo stazionario. In fondo è ad essi, vera scaturigine dell’essenziale capacità dell’anima di muoversi da sé, che dobbiamo ciò che Beckett, secondo Anders, ci ha realmente voluto mostrare: «Non il nichilismo, ma l’incapacità dell’uomo di essere nichilista, persino in una situazione che non potrebbe essere più senza speranza di così».
di Matteo Mollisi
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