«Quando suono il pianoforte […] d’un tratto i miei occhi vengono voltati in modo tale che il mio sguardo è costretto a cadere su di un’ombra prodotta sulla porta o altrove in mia vicinanza.» Nelle sue Memorie il «malato di nervi» Schreber anticipa di 70 anni con precisione fotografica una scena di Profondo rosso.
Tocca essere sentimentali: Profondo rosso è uno stato dell’essere. L’espressione suonerà ampollosa, ma tant’è. Non si spiegherebbe altrimenti quel terrore scaturito alla prima visione, che tutti gli spettatori sanno immediatamente ripercorrere e condividere, ricordare. Una paura in qualche modo fondativa. Vogliamo dirlo? Atavica. Bisogna, è chiaro, averlo visto nel periodo formativo giusto, con l’infanzia ancora non troppo lontana. Attraverso qualche misteriosa demiurgia la nota mummia torinese ha traslato qualcosa di essenziale che pesca proprio là dove non si vorrebbe (che poi è la definizione di paura).
In che modo? Può darsi che lo ignori lui per primo. Forse i side effects of the cocaine, forse tirando due sganassoni ravvivanti a Blow up (che ha la stessa trama e lo stesso protagonista, ma immersi nel tedio abulico di Antonioni) per fargli affluire il sangue alla faccia e tirarlo verso le conseguenze ultime (lo stesso trattamento vivificante a L’avventura avrebbe partorito Travolti da un insolito destino?).
E non serve spingersi alla leggenda degli spettatori che vomitano in sala (benché oggi, a dar retta ai cronisti degli ultimi Cannes, la gente vomiti per molto meno); lo vediamo tutti, la forza di certe scene si conserva intatta, con la sua fotografia carica, pastosa, piena di neri: la casa col graffito sotto l’intonaco, lo spillo nella lucertola, il famoso corridoio, Piazza C.L.N., la scuola abbandonata, l’ironia signorile e britannica di certe scene, il prof. Giordani contro lo spigolo, il burattino, il vapore sullo specchio, il flashback col coltello sporco di tempera rossa (tranne ai bordi, perché mai?!), da cui per qualche motivo ignoto emana un sentore di autobiografia (ma questo è il film più autobiografico di Argento, col protagonista in continua agitazione, frenetico, e la Nicolodi che post-coito lo aiuta ad allacciarsi i bottoni). Nessun “thriller” o “horror” italiano precedente o successivo ha saputo schierare una girandola così inesausta, così famelica di immagini immediate, vistosamente messe in scena subito a caldo così come salivano alla mente (puro metodo Lynch). Solo Hitchcock e Fellini avevano questo dono da medium, di generare sequenze che paiono pescate fresche dalla testa dello spettatore, senza intervenire senza edulcorare, ritoccare, grossi macigni archetipici, per la gioia degli Jung e degli Hillman.
Non si spiegherebbe altrimenti la seguente descrizione dell’ignaro (o onnisciente?) Presidente Schreber, che in uno degli incartamenti delle Memorie (per farsi dimettere dal manicomio) anticipa minuziosamente di tre quarti di secolo la scena di Hemmings che suona solo in casa al pianoforte: «Miracoli di spavento nella forma di ombre nere, che apparivano repentinamente, si sono avuti da anni e ancora oggi quotidianamente, giorno e notte, mentre vado in giro per il corridoio o suono il pianoforte ecc. nella mia vicinanza immediata; essi talora assumono una forma simile alla figura umana»[1]. Notare che i due esempi citati corrispondono esattamente a due momenti cruciali del film: “mentre vado in giro per il corridoio o suono il pianoforte”. Com’è possibile? E ancora: «Ciò avviene in particolare quando suono il pianoforte, in un momento cioè in cui i miei pensieri si soffermerebbero, secondo la mia libera determinazione della volontà, assai più sull’impressione ottica delle note oppure sulla sensazione generata dalla bellezza della musica, ma proprio allora d’un tratto i miei occhi vengono voltati in modo tale che il mio sguardo è costretto a cadere su di un’ombra prodotta sulla porta o altrove in mia vicinanza»[2]. O Argento aveva letto Schreber, o è dotato appunto di poteri medianici e non ne ha avuto bisogno.
Che poi questo strano flusso tra ansia e pianoforte sembra un tropo cinematografico. Accompagna uno dei film più belli di Hitchcock, Rope, dove il povero Granger con la confessione a fior di labbra suona sempre più veloce e forte davanti a un severissimo James Stewart (ma c’è quasi uguale con Doris Day nella seconda versione di The man who knew too much). Usando ancora Schreber: «accelerazione del tempo mettendo in movimento prima del dovuto i muscoli delle mie dita. Molto spesso si spezzano mediante miracoli le corde del pianoforte»[3]. Qui ancora più a proposito, perché la vicenda deriva alla lontana dalla coppia di inizio secolo Leopold-Loeb, entrambi decisamente “malati di nervi” anch’essi, oltre che omosessuali (ma senza le paturnie di Schreber su quanto «dovesse essere davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula»[4]), dal momento che uccisero un ragazzino giusto per scoprire cosa si provava (risposta? «the same as ever»). Coppia che avrebbe ispirato tanti altri film (uno dei quali si chiama appunto Compulsion, tratto da un omonimo libro non-fiction), tutti meno belli. Ma ne parleremo un’altra volta.
Del resto questo strumento è così amato dal cinema, chissà perché. La scelta è innumere. Le Lezioni di piano le volete con Il pianista o con La pianista (e potete scegliere perfino tra Il voltapagina e La voltapagine)? La leggenda del pianista sull’oceano non vi piace? Allora Tirate sul pianista. Preferite Tokyo Sonata o Sonata d’autunno? (A proposito, esiste un film con la Bergman in cui lei non si trovi a un certo punto vicino o davanti a un pianoforte? Mi pare solo con Rossellini, che andava al risparmio.) E chissà quanti ne ignoro o scordo. E poi sempre con questa funzione maieutica. Giusto un altro piccolo esempio, che merita per la sua semi-oscurità: un momento molto bello e stranamente suggestivo in The uninvited, un film del 1944 dove una dolce suonata improvvisata al pianoforte per corteggiare una ragazza diventa improvvisamente agra e tristissima perché le mani del suonatore sono mosse dallo spirito che infesta la soffitta (ancora Schreber?!).
Ed ecco fin dove ci può portare la “funzione Profondo rosso”. Vogliamo poi parlare dell’eleganza di questo film? I primi anni Settanta si respirano tutti, soffocanti e svagati, una svagatezza un po’ smarrita come un sorriso agghiacciato, una festa dove si attende la maschera della morte rossa, equilibrio suggestivo e decadente prima della degradazione completa (negli stessi anni Visconti si era finalmente votato a Wagner e perfino Fellini girava il suo film più tetro, il suo Casanova).
E in questo mondo così dinoccolato, dove sembra quasi che il prossimo passo di Argento sarà nel campo della commedia brillante (a ben vedere Hemmings e la Nicolosi non sono proprio la nostra versione italiana di Allen e Annie Hall? La gag nell’auto è identica. E c’è pure il jazz… Del resto pare che Annie Hall avesse una sottotrama thriller poi abbandonata, che vent’anni dopo sarebbe diventata Manhattan murder mystery), in realtà tutti sono cattivi, tutti potenzialmente colpevoli: Gianna, Carlo, la madre, la scrittrice, la bambina, Giordani, Marcus stesso. Che scarto rispetto a quell’altro citatissimo film degli stessi anni, L’esorcista, chissà perché così amato e che pure non regge affatto il confronto, con quella bambina noiosissima che fa le bizze per due ore di fila e tutti attorno molto afflitti, il cui vero merito forse è solo quella sequenza iniziale nel deserto che dimostra una volta per tutte come Max von Sydow sarebbe stato l’interprete perfetto, molto più di Peter O’Toole, per fare T.E. Lawrence nel film di Lean (ma anche di questo, un’altra volta).
E infine c’è quell’inizio magistrale, con la parapsicologa nel Teatro Carignano. Dentro quel teatro Nietzsche aveva provato «la più forte impressione concertistica della mia vita»[5], nientemeno. E appena fuori avrebbe abbracciato il famoso cavallo (anche qui torna ominoso il Presidente Schreber, gli anni poi sono proprio gli stessi: «in fin dei conti sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo»[6]; sembra preso tale e quale dalle Memorie, invece è tra i biglietti della follia).
È davvero sorprendente, per un film così rigoroso e razionale, che tutta la vicenda si sviluppi a partire da un episodio paranormale (del resto siamo a Torino: Agnelli e occultismo), descritto e assimilato con totale indifferenza (primo segno del delirio fantasy che sarebbe detonato con Suspiria e durato almeno fino a Phenomena). E qui torna subito alla mente un film che non si potrebbe immaginare più distante: non è appunto per un atto magico, l’ipnosi di Aldo Silvani, che Cabiria mette a nudo la sua innocenza e François Périer può ingannarla? (E poco dopo, il mago Genius in Bloc-notes di un regista cercherà gli spiriti dei romani uccisi sulla via Appia esprimendosi esattamente come la parapsicologa: «Sento dei cadaveri, oddio come soffrono». Ha anche la stessa crisi finale, e invoca una villa, dice addirittura: «C’è un affresco»… non starà anticipando proprio Profondo rosso?). E infatti anche Fellini avrebbe stravolto la linearità e la logica, di lì a poco. Stramba consonanza, forse antropologica. Ma anche su questo, a costo di suonare come Guénon, nous aurons à y revenir en d’autres occasions.
di Antonio Casto
Note
[1] D.P.Schreber, Memorie di un malato di nervi (trad. di F. Scardanelli e S. de Waal), Adelphi, Milano 1974, 264.
[2] Ibidem.
[3] Id., 187.
[4] Id., 56.
[5] F. Nietzsche, Lettere da Torino (trad. di V. Vivarelli), Adelphi, Milano 2008, 102.
[6] Id., 200.
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