Una recensione a Fight Club di Chuck Palahnjuk
Fight club esce nell’agosto del 1996 per l’editore Norton, New York. In copertina, dopo la classica dicitura A Novel by, compare un nome che sembra uno pseudonimo: Chuck Palahnjuk. Il risvolto conferma: l’autore è un esordiente e desidera restare ignoto, l’editore non fornirà dettagli sulla sua età / origine etnica / inclinazione sessuale / ecc.
La storia regge. Lo pseudonimo è in linea con il carattere sovversivo del romanzo, che incassa dure critiche per l’ideologia ma, nel complesso, ottime recensioni. L’accoglienza del pubblico è invece tiepida, le vendite non significative.
Passano due anni senza eventi di rilievo. Nel ‘98 David Fincher decide di trarne un film, che farà la prima a Venezia l’anno successivo. Nel frattempo, una piccola casa editrice milanese, la Edimar*, acquista i diritti del romanzo.
Alla fine del ‘98 il supposto pseudonimo regge ancora, tant’è che Fernanda Pivano ne parla nell’introduzione alla prima edizione italiana. L’illustre traduttrice, al tempo ottantunenne, lascia delicatamente intendere che Fight club non le è piaciuto nemmeno un po’. È un “esempio di nichilismo quasi psicopatico”. Il linguaggio è volgare e “fin troppo letterario”. L’ideologia un “anarchismo fondamentalista”. L’autore ha del talento, “e forse il romanzo aprirà una nuova vena narrativa, forse sarà questo il linguaggio del futuro”, ma la Beat Generation era molto meglio. Mai malaugurio fu più lungimirante.
Incredibile a dirsi, nemmeno il film sfonda; al botteghino è addirittura un flop.
Poi accade qualcosa. All’inizio del millennio la pellicola conosce una diffusione underground, un’attenzione sempre crescente, fino a diventare fenomeno di culto. La riscoperta del romanzo è fragorosa: ristampe, studi accademici e “scimmie spaziali” nelle strade.
Parte la caccia all’autore, che nel frattempo ha pubblicato poco e nulla. Non filtrano spifferi, Norton tiene botta. Pare che non si riesca a cavare il proverbiale autore dal buco, finché un giornalista di Portland, convinto che la città senza nome descritta nel romanzo sia proprio la capitale dell’Oregon, ha un’alzata d’ingegno: apre l’elenco telefonico. C’è, in effetti, un Charles Michael Palahnjuk, meccanico. Tra Charles e Chuck il passo è breve. All’indirizzo indicato risiede un tipo con lo sguardo vispo. Il giornalista gli pone la domanda che mette fine alla storia dello pseudonimo: – È lei il Charles “Chuck” Palahnjuk autore di Fight club?
L’incipit è fulminante: “Tyler mi trova un posto da cameriere, dopodiché c’è Tyler che mi caccia una pistola in bocca e dice che il primo passo per la vita eterna è che devi morire.”
A dover morire è il narratore senza nome, che chiameremo “N”.
N fa una vita schifosa, viaggia in continuazione e non dorme mai. Un giorno N conosce Tyler. L’appartamento di N esplode per una fuga di gas. Tyler fonda il Fight club: combattimenti a mani nude nello scantinato di un bar. I Fight club si diffondono. N conosce Marla. N s’innamora di Marla. Tyler va a letto con Marla (ça va sans dire). Tyler inaugura il Progetto Guasti, braccio armato del caos e dell’anarchia. Le cose prendono una brutta piega. N cerca di tirarsi fuori. Non può perché N è Tyler e Tyler è N. Finale sul tetto del grattacielo: Tyler spinge la canna della pistola nella bocca di N. Settanta piani sotto, la città brucia.
Il romanzo è tutto giocato sul dualismo N / Tyler. N è l’uomo qualunque: frustrato, represso sessualmente, sottomesso alle logiche del lavoro salariato e del consumismo. Manca di un nome perché non è in grado di imporlo. Tyler è la personalità liberata di N: anarchico, amorale, biondo e rivoluzionario, mistico grondante sangue, impareggiabile amatore, demonio incarnato e messia (evidenti i rimandi al Cristo: il Decalogo, il Dio-Padre, il Sacrificio, l’immancabile Ritorno).
Il dualismo è costruito con perizia; gli indizi disseminati insospettiscono senza tradire e si svelano al momento giusto. I riferimenti sono dichiarati: il Tony Perkins di Psycho e la Sybil del romanzo omonimo di Flora Schreiber. Il doppio personaggio che ne risulta è poco realistico ma efficace, ispirante, fichissimo. Dopo Fight club chiunque abbia una sola personalità è un perdente; gli manca il Tyler. Essere schizofrenici, o quantomeno bipolari, non è mai stato di moda come nei primi anni duemila. Le reinterpretazioni sono giunte copiose, alcune anche ben riuscite, dal Charlie / Frank di “Io, me & Irene”, al Gorilla, fortunato investigatore noir di Sandrone Dazieri.
Il fervore è l’attributo primario di Tyler Durden. Letteralmente, scotta. Tyler è la vita che brucia in fretta, gettando luce, come un breve fuoco d’artifico, contrapposta al lento scorrere fluviale dell’esistenza quotidiana, con le sue anse e i suoi riflussi. Il fuoco di Tyler si propaga ai personaggi che gli ruotano attorno, il suo fervore mette in crisi e ispira, attrae perché arde d’ideale.
La sua rivolta contro la cultura parte dalla ricerca di ciò che la società rimuove: la morte. La scoperta dell’inevitabile ha effetto vivificante: “Non aveva alcun senso reale della vita perché non aveva nulla con cui confrontarlo. Ora che sa dove siamo diretti tutti quanti, percepisce ogni momento della sua vita”. Prendere consapevolezza della realtà ultima ridefinisce l’esistenza: “Tu non sei un delicato e irripetibile fiocco di neve. Tu sei la stessa materia organica deperibile di chiunque altro e noi tutti siamo parte dello stesso cumulo in decomposizione.” Nell’universale decadenza organica sta il seme della fratellanza, contrapposta alla disgregazione prodotta dall’individualismo.
Il primo passo dell’elevazione consiste nello “sciogliere il legame con gli oggetti terreni”. Infatti, con lo zampino di Tyler, la metamorfosi di N muove dall’esplosione del suo appartamento. Tutti i suoi amati / odiati mobili svedesi che volano a brandelli fuori dalla finestra. Il consumismo è un nido che ti intrappola “e le cose che possedevi, ora possiedono te”: abbiamo bisogno di spaccare tutto per tirar fuori qualcosa di meglio da noi stessi.
Il Fight club è il secondo passo: di fronte alla questione della caducità, “l’automiglioramento non è la risposta”. L’empowerment mira a far ricadere il benessere nei valori della morale dominante. Tale benessere è una schiavitù mascherata, l’unica libertà sta fuori dal recinto del socialmente accettato. “Non abbiamo una Grande Guerra nella nostra generazione, o una Grande Depressione. La grande depressione è quella delle nostre vite”. Il Fight club è allora una forma di psicoterapia estrema, la scoperta di un senso attraverso il dolore: “niente era risolto alla fine del combattimento, ma nient’altro contava”.
Lo strumento per realizzare il fine ultimo, grandioso e folle, è il Progetto Guasti (sobria traduzione dell’originale “Project Mayhem”): cellule di ferventi, simili a comunità cristiane delle origini, che diffondano il sacro fuoco del Caos. È un salto di qualità in termini strettamente politico-rivoluzionari. “Alzare il tiro”, dice Tyler nel suo linguaggio militar/sessuale. Obiettivo finale: “liberare il mondo dalla storia”; la completa e immediata distruzione della civiltà.
L’ideologia anarco/apocalittica di Palahnjuk ha spaccato la critica. Frasi come: “avevo voglia di distruggere tutte le cose belle che non avrei mai avuto. Volevo che il mondo intero toccasse il fondo”, hanno dato adito alla tesi interpretativa secondo la quale l’anarchismo è conseguenza della frustrazione per i rifiuti subiti dal precedente romanzo (Invisible monsters, pubblicato solo sull’onda della fama raggiunta). Questa tesi, più giustificatoria che esplicativa (“non è cattivo, era solo di pessimo umore quando l’ha scritto, in realtà è un ragazzo perbene”), non prende quantomeno in considerazione l’idea che si possa essere arrabbiati col mondo tout court, che addirittura possa essere giusto esserlo.
Maggiori consensi ha riscosso lo stile; un nuovo minimalismo, sulla scia di Joan Didion e Bret Easton Ellis, con una vena ironica assente nei maestri. Sincopata, ritmata, distaccata e intensa, con ripetizioni martellanti a fare da refrain, la prosa di Palahnjuk è stata punto di riferimento per un decennio almeno.
Molto controverso, soprattutto dopo il coming-out di Palahnjuk, è l’aspetto testosteronico del romanzo: il sapore “omo” dei muscoli guizzanti connesso al gusto “crime” nella descrizione di armi ed esplosivi. La pallottola fuoriesce della pistola “come un missile dalla rampa di lancio, come il vostro seme”, dice Tyler ai ferventi (ovviamente tutti uomini, tutti col volto tumefatto), definendo l’orizzonte di un universo tutto maschile.
Nel bene e nel male, a venticinque anni di distanza, molto resta di Fight Club. Soprattutto, da quell’intreccio di teoria anarchica, virilità traboccante, buddismo à la carte e pulsioni omosessuali, ritmo e sparate esistenzialiste, ritorna un personaggio indimenticabile: Tyler Durden, il fervente.
*Pare di poter affermare che la Edimar ha interrotto l’attività nel 2007, ma le pubblicazioni successive al ‘99 si contano sulle dita di una mano. Nel complesso, Fight club si staglia nel catalogo Edimar come l’iceberg davanti al Titanic. Ad oggi la prima edizione italiana è un pezzo da collezionisti; i pochi esemplari in circolazione costano una cifretta.
Occhielli:
Se posso svegliarmi in un posto diverso, in un momento diverso, non potrei svegliarmi diverso io stesso?
Dato un lasso di tempo abbastanza lungo, per tutti la percentuale di sopravvivenza precipita a zero.
di Tommaso d’Orfeo
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